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TAMTRUM
“Fuck you I’m drunk / Stronger than cats”
CD (Alfa Matrix)
Inizio
la collaborazione con la famosa etichetta Alfa Matrix, che continua
imperterrita, nonostante la crisi ed il P2P, a far uscire le sue
band con nuovi lavori, e questo è già di per se un atto coraggioso
e di volontà di non arrendersi. Purtroppo, sventurate persone
approfittano della loro buona fede, e non appena i loro cd sono
in promo, nemmeno magari usciti ufficialmente, ecco che te li
trovi dappertutto, e questo come ho già detto non è giusto, per
nessun artista, che piaccia o no, che il disco faccia schifo o
sia un capolavoro… Finita la paternale, iniziamo con questi TAMTRUM,
trio francese violento e perverso… almeno in apparenza. Lasciando
da parte l’ironico comunicato stampa con cui è stato annunciato
questo nuovo cd, parliamo del doppio titolo dell’album, che in
realtà (a parte l’edizione limitata che dovrebbe contenere i consueti
remix, stavolta ad opera di mr ‘Leaether Strip’), è un solo disco.
“Fuck you I’m drunk” cioè i primi cinque brani, sono il “Lato
A”, e formano la parte più light death rock-semipunk (non so proprio
come definirli…) con virate (credetemi!) alla Green Day in odore
di terra britannica (specie in “Think ov me when I touch yourself”);
i riff di chitarra e le parti impropriamente chiamate ‘punk’ da
diverse recensioni, sono però quasi trattenuti, come se comunque
la band dicesse “Sì, suoniamo punk-rock ma siamo sempre dell’Alfa
Matrix!”. Non sono però pesanti come le loro immagini e dichiarazioni
vorrebbero far credere: come dicevo, nella musica c’è sempre un
qualcosa di ‘controllato’, di non così esplosivo come le premesse
(ed i testi, questi sì piuttosto forti!) lascerebbero pensare.
Ritengo più adatta al ‘nostro’ pubblico la seconda parte dell’album,
cioè “Stronger than cats”, definibile una versione più edulcorata
e ‘dark’ dei Prodigy (per rimanere in ambito inglese), più smaccatamente
electro-ebm come in “Les enfants de Dieu” o la stessa “Stronger
than cats”. Mancando completamente le chitarre, possiamo fare
dei paragoni con Hocico, per esempio, ed in genere tutta la scena
harsh, tranne che per le parti vocali che non sono sempre così
violente.
Info:
www.myspace.com/tamtrum
(Anialf) |
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TEATRO
SATANICO
"Black Magic Block"
CD (Steinklang Industries)
Teatro
Satanico è un progetto che negli anni ha prodotto moltissimo
materiale interessante ed essendo quindi la discografia molto
estesa, purtroppo, non ho avuto la possibilità di ascoltare
tutto. "Magic Block" è il nuovo album di Davis e sin dal primo
ascolto ho notato che si stacca molto dai precedenti lavori
a cui ho avuto modo di ascoltare, in quanto assume una forte
connotazione europea perdendo una certa italianità. Infatti
in precedenza i testi, scritti nella nostra lingua madre, venivano
recitati in deliranti litanie. In questo CD Devis e soci ( Kalamun
e Faber) hanno raggiunto un’architettura sonora ben costruita
che sta alla base di un oscuro ambient elettronico. Già
solo ascoltando la traccia "Baby babalon" si sente il distacco
dal precedente stile tant'è che mi fa venire in mente i Klinik.
Già solo per questo brano vale la pena acquistare il CD! Ma
anche le restanti tracce non sono da meno. Nella traccia "Gatto"
si ha un ritorno al sound originale dei T.S. che spesso ci ha
ammaliato in questi anni e che ha reso la band ben nota fra
gli adepti di questo tipo di musica. Un disco ottimo che spero
possa lanciare finalmente in tutta Europa questo interessante
e inconsueto progetto industrial.
Info: www.teatrosatanico.it
(Nikita)
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THIS
MORN’ OMINA
“Momentum Of Singular Clarity”
MCD (Ant Zen)
Mi
accosto sempre con cautela, e comunque già sconfitto in partenza,
ad ogni release di Ant Zen, so che non riusciròin pieno a capirne
la forza creativa delle loro uscite. Ma sapendo qualcosa di
This Morn’ Omina, e soprattutto avendo avuto l’onore di conoscere
Sal-Ocin (aka Empusae) che ora fa parte a tutti gli effetti
di questo progetto, ho provato ad ascoltare questo nuovo minicd.
Come mi aspettavo, l’industrial-tribal-trance-industrial-noise
di Mika Goedrijk & soci, esplode ancora una volta, sebbene l’influenza
di Empusae si faccia sentire pesantemente, e non solo nei ritmi
che sono il suo principale ruolo nel gruppo, ma anche nei più
quieti (beh, diciamo meno ‘violenti’) passaggi di “Nuraghi”
o “Telluran”: grande acquisto per la band belga! Ovviamente
i puristi del genere apprezzeranno maggiormente l’harsh tribale
della suite in due parti “Monumentum’, ma bisogna sapere ascoltare
questo tipo di musica, apprezzarne l’aggressività e la fisicità
dell’insieme, come del resto succede in Iszoloscope, in Ah-Cama
Sotz et similia. La fisicità e nel contempo la dinamicità di
monumenti e luoghi cui è dedicato il minicd, oltre alla “filosofia
musicale” che nonostante l’impatto sonoro è sempre ben presente
nelle creazioni di casa Ant Zen, fanno ben promettere per il
nuovo full-lenght. Super consigliato per gli estimatori della
sperimentazione percussiva (ma anche per chi ogni tanto vuole
immergersi in mondi differenti dal proprio usuale).
Info: http://www.hegira.be
(Anialf)
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TOT
LICHT
“In Fear Of The Light"
CD (Autoprodotto)
Perla
degli abissi. I riminesi Lou Rumble Lowson e Lover Morkt confezionano
tracce brevissime inzuppate di goth classico, synth e melodrammaticità
tanto cara a Virgin Prunes e London After Midnight. Le chitarre
sono quasi del tutto assenti, l’organicità ed una recitazione
vocale molto punk distraggono a dovere i “tecnici del suono”,
oscurando parzialmente certe pecche dettate da una scarna elaborazione
sonora. Scarna forse proprio per principio, utile ad assecondare
un decadentismo gotico sommesso e rielaborato per tediare e
oscurare l’atmosfera. Classiche impostazioni e tecnicismi di
una band che vive nel passato, teatralità barocca di una Italia
cupa nata dalla ceneri del post-punk per restare ancorata al
sottosuolo. Suoni industriali, intramezzi ossessivi e talento
parzialmente incenerito da una mancanza di personalità che dal
vivo nuoce sicuramente alla salute. Senza dubbio interessante
la scarsa durata dei brani, decisione forse figlia di una mancata
propensione alla fusione interna di più generi, quindi possibile
elemento di ritorsione artistica.
Da risentire.
(Matteo “Pinhead” Chamey)
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UK
DECAY
“For Madmen Only”
CD (UK Decay Records)
Ci
sono band alle quali è bastato un solo album e una manciata di
singoli per entrare nella leggenda. Tralasciando il fenomeno Sex
Pistols, un caso a sé stante, gli esempi sono troppi per essere
qui ricordati. Nel caso del post-punk più stretto, gli UK Decay
contribuirono direttamente alla sua fondazione con qualche 7”
e il loro unico LP “For Madmen Only”, uscito nel 1981 e, con il
pretesto della recente reunion, finalmente ristampato in un’edizione
CD arricchita da otto brani in più, ossia quelli presenti sui
singoli “The Black 45” e “For My Country”, e quelli dell’EP “Rising
From The Dead”, capitolo finale dei nostri, uscito nel 1983 per
la Corpus Christi dei Crass. Ed è proprio con queste quattro tracce
che si apre il disco, dove il suono tetro ed incisivo dei lavori
precedenti non lascia scampo ad alleggerimenti di alcuna sorta.
La lunga ed allucinata “Werewolf” è seguita da tre episodi più
immediati che mantengono ben saldo il legame con il punk delle
origini. Poi è la volta della scaletta originaria di “F.M.O.”,
dove si viene avvolti da un flusso continuo di batterie tribali,
bassi potenti e chitarre tanto graffianti quanto ipnotiche, il
tutto condito dal vocione lamentoso di Steve ‘Abbo’. A proposito
del basso, alcune parti furono suonate da Kreeton Kaos, altre
da Ed ‘Twiggy’ Brach a rimpiazzare il dimissionario collega. Da
“Duel” a “Unexpected Guest”, fino alle conclusive “Mayday Malady”
e la title track, è un viaggio negli abissi umani, con il verbo
‘gotico’ ancora intriso di rivolta sociale. I brani dei primi
7”, come “Barbarian”, “Unwind” e “For My Country”, hanno un qualcosa
di primordiale, magnifici ed immortali nella loro spontaneità
post-‘77. Poco importa quindi se gli UK Decay hanno avuto vita
breve lasciandoci meno, in termini quantitativi, di altri colleghi
più longevi e famosi, come i Killing Joke o i Banshees: la loro
opera rimane semplicemente fondamentale, e questo CD l’occasione
per averla quasi in blocco.
(Fabio Degiorgi) |
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UNTO
ASHES
“The blood of my Lady”
CD (Projekt)
PRO:
Sesto CD in uscita per il progetto americano. Gli Unto Ashes,
ormai decimati dopo la defezione della componente femminile
della band, (Mariko e Natalia Lincoln si sono trasferite in
Germania dopo il tour del 2006) sono ora da considerarsi un
progetto solista. Infatti Michael Laird grazie a collaborazioni
del calibro di di Kim Larsen degli Of the wand Moon e di Sonne
Hagal crea un progetto più congeniale alla sua persona allontanandosi
dalle vecchie sonorità ethereal, che avevano caratterizzato
la musica degli Unto Ashes, e aprendosi la via verso una realtà
più folk. In "The Blood of My Lady” oltre ai brani composti
da Michael, che sono la maggior parte, ci sono anche “Who Has
Seen the Wind?" e "Vengeance" composte da Sonne Hagal e "The
Blood of My Lady Pt" arrangiata insieme a Kim Larsen. Tra le
varie tracce è sorprendente la cover di "Fly On The Windscreen",
noto brano dei Depeche Mode, che viene trasformata in una versione
acustica molto intima. Ritengo che "The Blood of My Lady" sia
un album interessante nonostante si differenzi molto dalle sonorità
che avevano reso unici i precedenti CD degli Unto Ashes. Questa
svolta di stile dimostra che chi ha coraggio nel cercare nuove
fonti spesso produce ottimi lavori (come in questo caso) e per
questo deve essere premiato.
(Nikita)
CONTRO:
Rimasto
ormai praticamente l’unico membro fondatore, Michael Laird si
è dovuto prendere una lunga pausa di riflessione, prima di rilasciare
un nuovo album scritto praticamente tutto da solo. E’ vero,
ci sono stati contributi nobili quali Kim Larsen (:Of The Wand
And The Moon:) e Sonne Hagal, ma non sono bastati. Già dal primo
ascolto, ‘The blood of my lady” risulta piuttosto differente
dai primi album, dove era ben evidente il lavoro di un vero
ensemble: e qui purtroppo cominciano i guai. Già dalla title-track
(poi ripresa in seguito in una seconda parte) si ravvisa uno
stile puro neofolk europeo, logoro già di quanto non lo sia
di suo, e man mano che l’ascolto procede, ci si rende conto
che sono spariti del tutto quegli scenari maggiormente neoclassici
che potevamo ritrovare in passato: la chitarra acustica in primissimo
piano, la preponderante voce maschile (questa è un’altra nuova
caratteristica, le female voice sono solo accennate, e anche
ciò se ci pensiamo è riscontrabile proprio nel neofolk più rigoroso).
E sempre atmosfere ancestrali, e in qualche caso medievali (“Echos
in den wald”) fanno da guida a questo cd col quale sfortunatamente
Laird è caduto nella ormai arcinota trappola che attanaglia
chi propone il neofolk: la ripetitività che troppo spesso invita
a saltare da una traccia all’altra, tanto ‘la musica è sempre
uguale’. Effettivamente, a parte rarissime eccezioni, veramente
i brani sono troppo uguali fra di loro, sono come dire ‘interscambiabili’,
e a loro volta lo sono con una qualunque delle proposte folk-acustiche
troppo manierate e tese solo a riproporre gli usuali stilemi
del genere. E anche la voce maschile, come già anticipato prima,
spesso è ancorata ad un recitato-cantato che, francamente, si
è già sentito e risentito in ogni qual dove. Immaginatevi poi
quando ci si trova ad ascoltare il remake ‘bucolico’ di “Fly
on the windscreen” dei Depeche Mode: ormai questo brano l’avevo
ascoltato in tutte le salse, ma mai così banalizzato: allora
tanto valeva farne una versione elettronica simil-originale!
Spero che Michael Laird possa capire il passo falso che ha fatto,
questo a parer mio ma anche, da quel che ho letto, per molti
altri che ne hanno seguìto le più che ottime proposte del passato,
e che si aspettavano di più, o perlomeno ‘di più simile’ a quanto
le sue indubbie capacità avrebbero potuto offrire. Delusione
estrema.
Info: www. http://www.untoashes.com
(Anialf)
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ALEXANDER
VELJANOV
“Porta Macedonia”
CD / 2 LP / Box ( Premium rec.)
Lascia
un po’ perplessi questo terzo lavoro da solista del cantante
dei Deine Lakaien, perplessi in quanto ci si poteva (quasi giustamente)
attendere una sorta di ‘piccola influenza’ del suo principale
progetto, invece tra filastrocche gitane degne del film di Amélie
o comunque che rimandano più o meno direttamente ai suoni della
sua terra natìa, brani rock dove l’unica cosa che emerge di
‘cupo’ è la sua sempre accattivante voce, sperimentalismi di
sapore germanico, ballate darkwave (e qui sì che emerge per
me l’autentico Veljanov, ascoltate bene l’armonia di “We can’t
turn back”… oppure “Konigin Aus Eis”), o l’eterea e questa sì
di stampo Lakaien di “Mein Weig”. Né mancano le incursioni vagamente
Caveiane di “Dirt” o addirittura di (azzardo!) “dark cabaret”
(visto che è così di moda parlarle!) di “Lily B.”, ed il finale
con inserti ‘marziali’ di “Zwei vor dur Drei Zuruch”, sempre
però con un occhio di riguardo alle proprie radici, specie (per
i testi che sono riuscito a capire) piuttosto politici ed impegnati.
Il successo dell’album ha convinto Veljanov a rilasciare il
lavoro in diverse versioni, fra cui un curatissimo box e un
doppio LP, acquistabili anche via web tramite www.veljanov.de)
(Anialf)
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VIOLET
" ModernLife"
CD (Equinoxe Records/distr.
Masterpiece)
Combo tedesco
attivo dal 1999 e giunto con ML al quarto lavoro di studio,
Violet ama autodefinirsi gruppo di “medieval-trip pop”, anche
se in tutta franchezza non rileviamo – almeno in questo ultimo
lavoro - nulla nel loro stile riconducibile ad arie medievali,
bensì parecchi elementi di un onesto disco semplicemente… pop!
Indubbia la loro perizia agli strumenti, come peraltro gagliarda
è la voce della singer Bianca Stücker; qualche dubbio ce l’avrei
piuttosto sull’attinenza di questo disco con lo spettro sonoro
da noi trattato: è vero che ormai le contaminazioni hanno infranto
le barriere di genere nel mondo oscuro, ma “Modern Life” possiede
ben pochi addentellati riconducibili in qualche maniera (e solo
con parecchia fantasia…) all’area gotica in senso lato e/o all’avanguardia
da noi trattata. Solo per chi sentisse la necessità di svagarsi
con un onestissimo disco folk-rock.
Info: www.violet-net.de
(Oflorenz)
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WINTERBLOOD
“Le fredde ali dell’inverno”
CD (Frozen Landscape)
Immaginate che sia un gelido inverno e che siate in un casolare
antico a guardare fuori dalla finestra il bosco avvolto dalla
neve che cade copiosa e silenziosa. Un’atmosfera malinconica,
una splendida visione che come ideale colonna sonora potrebbe
avere “Le fredde ali dell’inverno”. I Winterbllod, attivi dal
1996, dopo alcuni demotapes, debuttano finalmente con questo
CD di gelida musica ambient e rarefatte atmosfere. L’album si
divide in tre lunghe suite strumentali di circa 15 minuti l’una.
IL progetto ha in programma la pubblicazione di un nuovo cd
e una raccolta che conterrà i primi demo tapes. Nel frattempo
fatevi cullare da queste oscure emozioni e immergetevi in queste
atmosfere incantate che hanno colpito anche il mio animo. Un
CD che vi consiglio per sognare!
Info: http://www.myspace.com/winterblood78
(Nikita)
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WHITE
LIES
"To Lose My Life"
CD (Fiction rec.)
È difficile inventare qualcosa di originale nell’attuale panorama
musicale. Ci capita spesso di ascoltare band che si rifanno
a colleghi musicisti o generi musicali, con il risultato (il
più delle volte) di apparire come una minestra riscaldata o,
ancora peggio, come un prodotto assolutamente inutile. Bene,
a questa premessa disfattistica mi sento di non includere i
giovani londinesi White Lies che con “To lose my life” hanno
pubblicato il primo album in studio. Non è assolutamente difficile
capire come la principale fonte ispiratrice del gruppo sia stata
la musica di Joy Division e figli. Una via, peraltro, già intrapresa
senza infamia da altre band (su tutte Interpol ed Editors).
Per i White Lies (trio composto da Harry McVeigh - voce solista,
chitarra ritmica, tastiere; Charles Cave - basso, cori; Jack
Lawrence-Brown - batteria) diventa ancor più difficile l’impresa:
risultare credibili dopo gli originali e, soprattutto, dopo
i primi validi imitatori. Subito un tuffo al cuore quando leggiamo
l’etichetta per la quale pubblicano i giovani inglesi. È la
Fiction che si è assunta l’onere (vedremo nel tempo se sarà
anche un onore) di essere la casa madre dei White lies; un’etichetta
che, ovviamente, non ha bisogno di parole di presentazione (leggi
The Cure). Che Londra e l’Inghilterra tutta siano assolutamente
“avanti” rispetto al resto del mondo è un dato di fatto; che
in merito all’arte dei suoni siano precursori è un’altra certezza
che ogni fruitore di musica conosce benissimo. E, se il sopraccitato
assunto è ancora valido, non dobbiamo trascurare il fatto che
“To lose my life” a poche settimane dalla pubblicazione sia,
in tutto il Regno Unito, scattato in testa nelle classifiche
di vendita. La copertina riproduce l’immagine di alte strutture
cilindriche che, in un paesaggio notturno, ci comunicano un
senso di freddo e desolazione. Sono i tre singoli che identificano
benissimo il suono dei White Lies. Così, “Death” ci porta direttamente
e senza passare dal via all’interno della dark/wave. Un suono
crepuscolare ed una batteria capace di tenere il tempo in attesa
del ritornello, accumunano anche “To lose my life” e “Unfinished
business” (secondo e terzo singolo). Quest’ultimo è quello che
parte più ripiegato su se stesso ma, al tempo stesso, è quello
che lascia più spazio alla melodia. Una voce sufficientemente
profonda, un basso che onorevolmente compie il suo dovere ed
una chitarra sufficientemente tagliente nel classico copione
dark, sono gli elementi comuni dei tre singoli e dell’intero
lavoro (come la stessa “Price of love” che chiude l’album secondo
il medesimo schema sonoro tracciato in apertura da “Death”).
Più oltre, ci piace ricordare “A place to hide”, la cui batteria
suona molto simile a quella incantevole e minimale dei Joy Division;
il cantato, invece, ci appare un po’ troppo urlato, mentre emerge
da un apprezzato muro di tastiere. Con “Farewell to the fairground”
(quante tastiere in evidenza) i White Lies dichiarano di voler
già provare ad uscire dal suono oscuro che hanno abbracciato
con questo esordio, partorendo una canzone più solare (leggi
Franz Ferdinand), ma ottenendo risultati meno esaltanti (meno
dark, insomma, ma ancora tanta wave). “E.S.T.” inizia con una
tastiera che deve molto ai primi Dead Can dance o a certi Death
In June, mentre “From the stars” è una delle migliori canzoni
di “To lose my life” (segnaliamo qui il primo assolo di chitarra
elettrica) e “Fifty on our foreheads” è alquanto epica nell’incedere.
Prima della già richiamata “The price of love” che chiude l’album
senza flessioni di sorta, i tre giovani musicisti, con la nona
traccia, scrivono (già) il loro epitaffio, cantando “Nothing
to give”. Il brano nasce e termina come una lenta e struggente
ballata sepolcrale (“ …. I almost die”), annunciando probabilmente
un avvenire di felice oscurità. Proprio trenta anni fa tre ragazzi
immaginari pubblicarono per la Fiction Records l’album d’esordio,
avviando una carriera capace di calamitare milioni di fan, spalmati
in tanti album in studio ed in altrettanti anni di
spettacoli dal vivo; oggi (e per la medesima etichetta) altri
tre ragazzi londinesi sembra che vogliano ripercorrere quel
sentiero magico e non più tanto immaginario. In bocca al lupo.
(Gianmmario)
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WINTRY
“Atmosphere around us”
CD / 2CD ( Wave Propaganda)
Dalla
fusione dei suoni e delle idee del brasiliano Alex Twin (proveniente
dai 3 Cold Men e Individual Industry) e dalla cantante tedesca
Anne Goldacker (già negli Obsc(y)re) nasce questo progetto,
incentrato su suoni molto delicati in tipico stile dark-wave-synth.
A prima battuta, mi hanno ricordato da vicino dei Siouxsie meno
incisivi e più eterei, sarà probabilmente per il modo di cantare
di Anne, per le atmosfere arabeggianti (forse un po’ troppo,
ma probabilmente è questo che rende originale l’album) e per
le percussioni che sfiorano il tribale. Il disco tuttavia può
essere classificato più sul genere etereo-dreamdark, senza avere
delle punte né troppo smaccatamente electro, né troppo mielose:
la traccia sicuramente più atmosferica è affidata proprio alla
fine del cd, dove ‘Words’ appare languida e malinconica, così
come rarefatta appare “Atmosphere around us”; mentre ‘Voices’
è più movimentata, e pare davvero composta da qualche parte
in oriente dove sia filtrato qualche suono goticheggiante. In
sintesi, nonostante la voce di Anne sia stata un po’ contestata
dappertutto, specie perché non in sintonia con gli elaborati
suoni di Alex, ritengo che il cd, intriso in tante parti di
inquadrature anni ’80 e ’90, meriti un ascolto. Nella versione
limitata (che poi credo sia l’unica uscita) c’è in allegato
un secondo cd con remix ad opera fra l’altro di Mechanical Moth,
e Scarlet Leaves, e quattro versioni demo di brani già compresi
comunque nel cd principale
Info:
www.myspace.com/wintrybrazi
(Anialf)
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WIRE
“Object 47”
CD/LP (Pink Flag)
Il titolo del nuovo album del terzetto inglese, purtroppo privo
del chitarrista Bruce Gilbert da sempre presente nella formazione,
è riferito appunto al fatto di essere la quarantasettesima uscita
della band, raggiunta con oltre 30 anni di attività interrotti
da un paio di periodi di pausa (alla vigilia del secondo, nei
primi anni ’90, fu il batterista Gotobed ad andarsene, ma per
l’occasione anche il nome fu mutilato in “Wir”). Dopo un’uscita
rumorosa e scattante come “Send”, che fu un ritorno ed un’estremizzazione
del suono originario dell’esordio “Pink Flag”, ed i successivi
cinque anni di pausa discografica, non sapevo proprio cosa aspettarmi
da questi attempati geni. Il risultato è un lavoro più vario
e tranquillo, si potrebbe tracciare un parallelo stilistico
con “Chairs Missing” o “The Ideal Copy”. Il piacevolissimo singolo
“One Of Us” è un ottimo inizio, poi i tempi rallentano e i toni
si fanno più raccolti ed intimisti, per tornare alle vitali
distorsioni punk-noise con la conclusiva “All Fours”. Sicuramente
la mancanza di Gilbert ha contribuito al risultato compositivo
generale, ma c’è anche la sacrosanta voglia di cambiare e di
non ripetersi due volte di fila. I nove brani presenti insomma
non faranno di “Object 47” il lavoro migliore in assoluto dei
Wire, ma esso è comunque un disco pregevole e di classe che
non può mancare ai molti ed eterogenei fans. Nell’edizione in
vinile da me in possesso c’è in omaggio un 12” EP supplementare
con l’EP “Read & Burn 3”, già uscito separatamente come anticipo
dell’album. Anche qui lo stile è il medesimo, con tre brani
piuttosto rilassati, ed una magnifica e sognante “Desert Diving”
in chiusura.
(Fabio Degiorgi)
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WYNARDTAGE
“The grey line”
CD (E-noxe/distr. Masterpiece)
Purtroppo
sin dalle prime note si sente che questo progetto electro-industrial,
giunto alla quarta uscita discografica, fa fatica a cancellare
i “fantasmi” sonori di Suicide Commando e Hocico. Un disco banale
di difficile ascolto a meno che non si sia “talebani” dell’electro-industrial.
La voce distorta è irritante e i pattern elettronici sono scontati
e banali. Certo ormai nel genere si è detto tutto, ma perchè
non azzardare di più e cercare di personalizzarsi? Questo è
un quesito da porre sia ai gruppi che alle labels quando scelgono
le band da produrre. La colpa del calo delle vendite dei CD
non è da attribuire solo ai “download piratati” ma anche alla
produzione di dischi anonimi che ormai saturano il mercato e
che nessuno è più interessato a comprare.
(Nikita)
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WYNARDTAGE
" The forgotten sins 2002-2005"
CD (RupalRecords/distr.
Masterpiece)
Una
sorta di “Best of” di lusso dell’electro project tedesco questo
“The Forgotten Sins”, comprendente non solo le dance- hits presenti
negli ultimi “Evil Mind” e “Praise the fallen”, ma anche qualche
traccia in versione inedita (“I’m not your God” e “Sterbenhilfe”ad
esempio) più 4 brani dall’ormai sold out “Waste of time”. Wynardtage
si è ormai conquistato un posto di rilievo nella scena electro
teutonica, recitando un ruolo da protagonista nelle alternative
charts tedesche in quest’ultimo lustro. “The Forgotten Sins” è
un po’ il compendio di tali successi, perciò, se amate la classica
ebm crucca un po’ tamarra e con l’immancabile vocione filtrato,
inserite il dischetto del nostro Kai Arnold e premete “Play”…senza
bisogno di uscire di casa e raggiungere il goth club più vicino
a casa vostra!
Info: www.wynardtage.de
(Oflorenz) |
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ZEROIN
“The Death Of A Man Called Icarus”
CD (Subsound/Narcotica)
Sembrano
staccare i piedi da terra e prendere il volo ma poi cascare rovinosamente.
La band modenese gioca a fare l’alternativa con mezzi appropriati
ed una sufficiente predisposizione sonora alla “carica elettrica”
ma la cover dei Portishead “Cowboys” rischia di oscurare il resto
del disco, ancorato su una produzione non pre-esistente e quindi
figlio di un parto casalingo duro e difficile. Con questo l’ardore
e l’impostazione della forma canzone non disdegnano una certa
tecnica di buona fattura, semmai il problema è assomigliare troppo
a qualcosa già esistente e poi nello stesso tempo rinnegarlo come
per reclamarne la proprietà. Si possono tranquillamente scomodare
Deftones, A Perfect Circle, Radiohead e Cure, a tutti gli effetti
presenti qua e là nelle sonorità e nelle influenze, senza per
questo elevare gli Zeroin a band rivelazione della scena rock-nu-metal
italiana. Indefinibili per vocazione, sospesi tra darkrock industrial
nu-metal, l’augurio è che insistano su determinati percorsi accarezzati
col fiato ma non approfonditi a dovere. La strada è tracciata,
il gioco delle parti ora prevede che il seguito spiazzi noi criticoni
di turno, per non dover gettare nuovamente del fango su un gruppo
di persone devote alla musica. Ultimo cenno doveroso al vocal:
inadatto, smarrito e poco incisivo.
(Matteo “Pinhead” Chamey) |
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