2.9 The Cure – Seventeen Seconds

Nella vita di un uomo, di ogni uomo, talvolta subentrano avvenimenti capaci di sconvolgerla, di sovvertirla. Nella vita di Robert Smith, cantante, chitarrista e deus-ex-machina degli allegri Cure, e non solo per lui, questo evento fu l’ascolto di Unknown Pleasures dei Joy Division, avvenuto nel mese di settembre 1979. La musica di quell’album fu in grado di sconvolgergli non solo la mente e l’esistenza, ma anche il suo essere un artista ed il suo, personale, senso di fare musica.
In effetti i Cure erano un gruppo della nascente allegra new wave inglese e, nonostante si vestissero di nero, erano tutt’altro che dark. Certo dalla domanda “perché si vestivano così?” può emergere più di un sospetto sulla personalità e sull’originalità artistica di Robert Smith. Fatto sta che con il singolo Jumping on Someone Else’s Train (poi compreso su Boys don’t Cry), l’ultimo con il bassista Michael Dempsey, un ciclo si era chiuso.
Tuttavia la domanda è e rimane una: come è possibile che un gruppo sostanzialmente pop new wave sia così proficuamente confluito nella grande corrente dark? Principalmente per due ragioni:
1) C’è stato tirato dentro per casi fortuiti della vita. Infatti nell’agosto del ‘79 Smith conosce Steven Severin, il bassista dei Banshees, ad un concerto dei Throbbing Gristle (ah, come la loro importanza fu capita solo negli anni 90!). La stessa Siouxsie presterà la sua (seconda) voce per Jumping on...
2) Come si diceva, l’ascolto di Unknown Pleasures ebbe effetti devastanti sulla psiche del giovane Robert Smith, aiutato fors'anche da qualche sostanzina (…), psiche che comunque aveva gia indugiato su temi depressi nel brano Three Imaginary Boys.

Dell’amicizia e collaborazione tra Smith ed i Banshees si parlerà meglio in un capitolo a loro dedicato (cioè il 2.12), per ora basti dire che il giovane chitarrista fu chiamato a sostituire il dimissionario McKay a fine settembre. Tra serate dal vivo (ovviamente, ça va sans dire, di forte stampo dark) e momenti più meditativi, il nostro compose una manciata di nuove canzoni, di certo le più d’atmosfera del suo repertorio fino a quel momento. Fattele ascoltare ai due compagni di squadra, Tolhurst e Dempsey, ottenne entusiastica adesione dal primo e ferma opposizione dal secondo. Fu quindi inevitabile il suo distaccamento dal gruppo (andò dagli ottimi compagni d’etichetta Associates), sostituito al basso dall’amico Simon Gallup.
Reclutato anche un tastierista, certo Matthieu Hartley, per dare più atmosfera alle nuove composizioni, i Cure partono in tournée con altri gruppi della Fiction: gli Associates ed i Passions. Fu durante quel tour che Robert Smith si rese conto dell’enorme potenzialità del nuovo repertorio. Lasciati i Banshees, Smith si chiuse in sala di registrazione con i compagni ed in una settimana incise il capolavoro dark dei nuovi Cure: Seventeen Seconds.
Preceduto dal singolo con la magica A Forest (a tutt’oggi, forse il loro capolavoro), Seventeen Seconds fece la sua apparizione nell’aprile del 1980. E per i fan fu sgomento. In copertina sullo sfondo bianco sporco (grigiastro) si stagliano immagini sfocate, indefinite: dei peli? Dei capelli? Un prato? Il primo brano, A Reflection, non è una canzone ma uno strumentale, capace di introdurre subito le atmosfere tenebrose del disco. Un segnale elettronico (una corda di chitarra probabilmente trattata con flanger) fa da sfondo ad un pianoforte (???) deciso ma malato. Un riflesso o una riflessione? Ed è una voce o un altro effetto quel lamento lontano?
Poi le atmosfere sembrano cambiare, con la batteria di Lol Tolhurst mai così metronomica. Entrano chitarra e basso e sembra emergere un raggio di sole. Ma presto la tonalità va in minore ed interviene la tastiera con un riff malinconico. Play for Today, questo il titolo, contiene in sé tutti gli ingredienti della nuova ricetta Cure: partiture semplici all’elementare, arrangiamenti scarni, minimali, ma molto dinamici fra loro. Una batteria metronomica, un basso ripetitivo sulla dominante (à la new wave), chitarra esclusivamente ritmica (e che chitarra ritmica!), tappeto di tastiere. Quattro strumenti, quattro note diverse (ovviamente sull’accordo). In più la voce acuta e lamentosa, tra il malinconico ed il vizioso, del leader.
Però dopo la “botta de vita” di Play for Today le atmosfere tornano scarne e minimali. La batteria scandisce una chitarra che col suo bel giro domina tutto, anche una voce che è solo lontanissimo sottofondo. Questa è Secrets, piccola perla oscura. La formula del brano Three Imaginary Boys torna nella successiva In Your House, altro loro piccolo capolavoro di mestizia e raccoglimento, dominato dal basso di Gallup. Ma la rassegnazione non basta, c’è come una minaccia sottostante, o un senso di paura tra le righe della sua triste melodia. «I hear a sound in your house». E ancora il piano, sottile, sinistro picchietta con eco nell’intro scoordinata di Three, cui provvederà Tolhurst a dare forma. Questo, nel suo rimanere scarno e minimalista, è proprio un brano di tensione incipiente, scandito da piano e chitarra in un crescendo d’angoscia. La voce, ancora una volta trattata e troppo lontana per essere distinguibile, non fa altro che portare il tutto all’orgasmo, prima del successivo rallentamento ed elettronica fine.

Si gira il disco. Una chitarra lontana, acustica, quasi medievale, o si tratta di un clavicembalo? È The Final Sound, brevissima introduzione strumentale al capolavoro A Forest. Quest’ultima inizia con una tenebrosissima partitura per tasto singolo di tastiera, che fa un giro di quattro note creando un’atmosfera unica, notturna e glaciale. Poi entra la chitarra, con rarefatti arpeggi. L’atmosfera viene resa ancor più tenebrosa da un giro uno di basso verso la fine di uno di tastiera, poi interrotta dal fragoroso ingresso della batteria. La chitarra continua i suoi arpeggi, ma il basso infonde nuova energia ed il brano diventa una lunga cavalcata della notte. La voce narra di uno smarrimento surreale nella foresta notturna ed un incontro magico con una misteriosa figura femminile (metafora della morte?). Ma il giro è sempre lo stesso, sempre uguale, con una sola variante, non cantata, a fungere da ritornello. L’effetto sulla psiche è estremamente suggestivo ed avvolgente, la cavalcata di “again and again” finali è un rito liberatorio, per una chitarra che ora può improvvisare malata. Gli strumenti intorno a lei si spengono poco a poco, la chitarra li segue, il basso chiude.
Ma un altro giro di chitarra ritmica, scandito e dinamico come in Play for Today, introduce già alla successiva M, un altro loro brano immortale, per il contrasto fra spigliatezza del suono e tristezza umbratile della voce e delle atmosfere. Anche qui la chiusura è affidata alla chitarra che sembra quasi fare un assolo ritmico. Tre minuti di capolavoro.
Altra batteria pesante ma fissa, lontane note di chitarra distorta, la canzone notturna per eccellenza: At Night. Qui l’atmosfera è ancora più compressa ed opprimente, la desolazione domina sovrana, in un brano triste e sofferto ma anche a modo suo energico, di tensione. I passaggi strumentali sono molto raffinati e creano, da un giro un po’ fisso, innumerevoli varianti, rendendo una canzone dall’apparenza monocorde, in realtà molto godibile soprattutto perché imprevedibile. Lungo i quasi sei minuti del brano vengono sviscerate tutte le atmosfere dell’intero Lp, rendendolo summa e compendio dell’album.
Una batteria staticissima (“pum” di cassa e, dopo quattro secondi, “tchack” di rullante), una chitarra acustica e rimica, un giro di quattro note di basso scandiscono la conclusiva title-track. Poi la ritmica prende energia, e qui il miracolo Cure si ripete: com’è possibile che partiture così semplici suonino così dinamiche e piene di contrasti? La chitarra così vivace, la ritmica così sostenuta, ma la desolazione tanto imperante?
Non arriva risposta, piano la canzone si spegne, dopotutto i 17 secondi non sono che una misura di vita. Con esso finisce anche un Lp capolavoro che, di colpo, proietta i Cure nel nascente empireo del dark. Un album di atmosfere e silenzi, un suono scarno e semplice, ma che ascoltato di notte, ad occhi chiusi, è capace di avvolgere l’anima in spire oscure, di portare la dolce dimensione del sogno allo strisciante terrore dell’incubo.
Durante il successivo tour prima negli Stati Uniti, poi in Australia e Nuova Zelanda, il tastierista Hartley abbandonerà il gruppo. Avrà modo di dichiarare: “in quel momento avevo capito che i Cure si stavano orientando verso una musica ombrosa e da suicidio, uno stile nel quale non avevo assolutamente nessun interesse”.

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