Dal punto di vista degli appassionati di musica dark si può dire che la situazione, a ‘79 inoltrato, fosse piuttosto semplice. Innanzitutto la musica dark propriamente detta non esisteva ancora, c’era giusto la trilogia berlinese di Bowie ed Eno (che proprio in quei giorni aggiungeva il suo terzo e contrastato capitolo, Lodger) ed i due filoni più oscuri del post-punk: quello soprannatural-perverso di Siouxsie & the Banshees (ricordiamo che le banshees erano entità soprannaturali, tipo spettri e/o fantasmi, femminili) e quello esistenzial-perdente degli Wire e dei Public Image.
Chi darà una definitiva svolta a questo genere di rock che apparentemente faticava ad affermarsi sarà un gruppuscolo punk dei meno interessanti sulla scena, quei Warsaw, in onore della tenebrosa Warszawa comparsa su Low (l’onnipresente trilogia che ritorna!!), poi chiamatisi Joy Division, già usciti col carino ma certo non esaltante Ep An Ideal for Living nell’ormai lontano giugno del ‘78. In effetti erano successivamente anche comparsi nella compilation A Factory Sample, un disco che proponeva a campione (“sample”, appunto) alcune band di Manchester firmatarie con la locale Factory. I due brani acclusi, Digital e Glass, mostravano un gruppo che, più o meno goffamente ma certo con tanta buona volontà, fondeva le sonorità post-punk tipo Banshees o anche Wire (visti gli inserti elettronici del produttore Martin Hannett), a delle tematiche che parevano ispirate ai Public Image (solitudine ed alienazione). Tuttavia il cantante, certo Ian Curtis, aveva abbandonato il tono alto delle prime composizioni punk e si cimentava adesso in una tonalità che pareva ispirata al baritono di Jim Morrison. Interessante, ma certo nulla di esaltante.
I Joy Division erano certamente un gruppuscolo minore. Formatisi a Manchester in seguito alla grande onda punk, il chitarrista Bernard Diken (poi Albrecht), il bassista Peter Hook ed il batterista Tony Tobac (presto sostituito da Steve Morris), avevano trovato nel nervoso e sensibile Ian Curtis il cantante ideale. Magro, perennemente depresso, talvolta soggetto ad attacchi di una sorta di epilessia psicosomatica, Ian viveva in una vera e propria dimensione mentale parallela, di distorsione e tristezza. Purtroppo l’inettitudine dei musicisti, la loro scarsa personalità (si erano conformati abbastanza piattamente ai canoni imperanti del punk) e l’eccessiva fretta nel confezionare An Ideal for Living, avevano compromesso la qualità di quelle prime registrazioni, proponendo un prodotto acerbo che li metteva automaticamente in ombra.
Ma per l’Lp la cosa fu molto diversa. I musicisti avevano imparato a conoscersi meglio ed a seguire in modo più attento i deliri depressivi del cantante. Dal canto suo, Ian Curtis aveva trovato questa “nuova” tonalità, in effetti inedita in ambito punk. A questo si deve aggiungere una maturazione interiore dell'uomo, sempre più consapevole della vanità dei desideri umani, della fragilità dell'esistenza, dell'ineluttabilità della sconfitta. Con l’LP Unknown Pleasures, uscito a fine giugno ‘79, i Joy Division dimostrarono di essere ben altro che “post-punk incapaci su tematiche dei Public Image cantate da un emulo di Jim Morrison”. Con Unknown Pleasures confezionarono un vero disco epocale, destinato cioè a cambiare i destini della storia del rock.
Copertina nera come la pece, schema di onde sismiche come unico elemento decorativo (e straniante, opera del loro grafico, Saville), ma lo stesso nome poi: i “joy divisions” o “reparti gioia” erano le sezioni dei lager nazisti dedicate alla prostitute per la truppa. Non esiste lato A, si comincia con la “outside”. La batteria di Morris apre quasi allegramente il primo pezzo, Disorder, presto scandito dal giro di basso, mixato alto sopra la successiva chitarra in riff, un uso che diventerà “marchio di fabbrica” del genere dark. Poi la voce: non così negativa, nonostante la tonalità bassa, il testo è malinconico ma l’umore lascia un po’ di speranza. «I’ve got this spirit, when there’s a feeling», canta Ian nel finale, ritrovando una tonalità alta. Ma la depressione si affaccia subito, dalla seconda Day of the Lords, dalla strofa malinconica e dallo stacco epico «where would it end?». Una tastiera glaciale rende la tristezza generale del pezzo ancora più raggelante, il tempo è rallentato, la chitarra monotona, quasi paranoica. Poi la voce si erge in alto, ma questa volta nessuna speranza, solo un grido di dolore misto a nervosa disperazione.
Altro incedere triste e depresso, anche se su un ritmo più sostenuto, avrà la successiva Candidate. La voce è lasciata quasi sola con il ritmo e la sua triste melodia procede con una mestizia che è desolazione interiore: «I tried to get to you», con forse un puntino di eccessiva autocommiserazione. Poi un basso e sordo suono di tastiera, un cancello che si chiude ed il ritmo sostenuto di Insight, in assoluto uno dei loro capolavori («I remember, when we were young»). Musicalmente si tratta di un post-punk vivace, tuttavia con voce “intubata” ed usualmente depressa. Effettini elettronici arricchiscono la variante musicale che fa da ritornello, dando un assurdo senso “avanguardista/fantascientifico”. Uno dei più ritmati capolavori sulla sconfitta esistenziale, seguito dalla non meno cadenzata New Dawn Fades, anch’essa entrata a far parte dei brani immortali del genere: batteria a morto e basso deprimente, chitarra con riffino straziante, una voce tra l’estatico e l’ispirato, rapita in una nuova, consapevole saggezza, in crescendo durante il brano, fino al grido liberatorio/catartico finale. Un altro capolavoro, certo, sebbene non sia assente una certa, già avvertita autocommiserazione.
A questo punto ci si aspetta una b-side, o meglio una “inside”, ancora più introspettiva e depressa, invece parte uno dei loro “ballabili” più celebri: la ritmatissima She’s Lost Control. Batteria a martello su di un rullante sintetico, celeberrimo riff di basso, voce cavernosa, minacciosa ed inquietantemente moltiplicata in echi e riverberi. La chitarra la si sente giusto nelle varianti centrali (che anche qui sostituiscono il ritornello) mixata decisamente sotto gli altri strumenti. Un brano stranissimo e trascinante, minaccioso, sintetico ed irresistibile, dal finale in un crescendo esplosivo.
Poi ancora ritmo ed ancora angoscia. La successiva Shadowplay è il freddo resoconto di un crimine (un omicidio o uno stupro) che, dopo un inizio soffuso, ha un incedere potente, quasi hard-rock. E con interessante (ed inedito) assolo chitarristico alla fine delle prime strofe. In assoluto il loro brano più “energico”, nonostante la dubbia moralità dei testi («I let them use you, at their own ends»), col bellissimo assolo ripreso ed ampliato nel finale. Ma l’energia continua, distorta e straniante, con la successiva Wilderness, altro capolavoro. Batteria in controtempo, basso danzante, chitarra punk e “sotto”, canto stranamente ironico e tutto sommato poco presente, che lascia molto spazio ai fraseggi distorti di chitarra. Si conclude con il grido «tears in their eyes!», giusto per non perdere l’abitudine.
Poi è il turno di Interzone e per un momento i Joy Division ritornano Warsaw: chitarrone punk, ululato di sottofondo, ritmica veloce, voce alta, quasi “rotteniana”. Un brano veloce, potente e dinamico, che contribuisce a rendere questa “inside” molto più godibile dell’altra “outside”. Là, dove l’incedere era lento, penoso e lamentoso, qui si fa veloce, quasi nevrotico a volte, ed il cantato meno commiserativo e più cinico, o ironico, a tratti quasi garrulo.
Ma non è ancora giunto l’ultimo brano, il definitivo capolavoro I Remember Nothing. Qui vengono riprese e decisamente portate all’estremo le soluzioni musicali dell’a-side: tempo lento, basso lugubre e minaccioso, atmosfera che più funerea non potrebbe essere. Gli effetti elettronici di Hannett (il produttore) rendevano il tutto straniante eppur credibile, claustrofobico eppur (o forse proprio per questo) reale. In un’atmosfera vicina ai Doors di The End, lo stentoreo baritono di Curtis attacca (con una lievissima stonatura) «we were strangers, away too long», la storia di un amore senza speranza, finito e forse neanche mai iniziato. L’effetto generale è così desolato e lancinante da lasciare con la pelle d’oca.

Musicisti non eccelsi ma incredibilmente determinati nella paranoia (quasi velvettiani, a volte), cantori dell’inadeguatezza e della sconfitta, i Joy Division composero un lavoro forse più grande di loro stessi. Alla sua uscita, Unknown Pleasures poteva avere solo due destini: troppo diverso, troppo triste per essere capito. Oppure troppo devastante per passare inosservato. La storia volle che fu questa seconda possibilità a verificarsi.
E la storia del rock fu cambiata per sempre.

indice - avanti