Kaleidoscope: in effetti questo bell’Lp uscì nel mese di agosto, per cui a rigore dovrebbe rientrare nella prossima stagione del dark, quella del 1980-81. Ma ogni regola può (o fors’anche deve) avere delle eccezioni, e comunque la travagliatissima genesi del disco, seguita con apprensione dai numerosi fan del gruppo, è stata un elemento che aveva caratterizzato profondamente la stagione in chiusura. E la sua pubblicazione fu il giusto coronamento di un lungo e faticoso lavoro.

Avevamo lasciato Siouxsie nella disperazione: era il settembre del ‘79 e l’abbandono da parte, non solo della batteria tribale di Kenny Morris, ma soprattutto della tecnica chitarristica del geniale John McKay, furono un danno troppo grave per i Banshees. Fu infatti McKay, ricordiamolo, ad avere inventato il loro sound, questo post-punk cupo che fu la base di tutto il dark. Per questo la critica non gli ha ancora reso abbastanza merito.
Rimasta sola con il fidato amico Steven Severin al basso, era necessario rimpiazzare i due elementi mancanti. Interpellati in merito, sia Steve Jones che Paul Cook (dei disciolti Sex Pistols, ma c’è bisogno di dirlo?) declinano l’offerta. Il buon Marco Pirroni, ex compagno del Bromley Contingent ed ex Rema Rema, nonostante tutta la sua buona volontà, non era certamente all’altezza del suo predecessore. Decisamente meglio la nuova recluta, certo Robert Smith, che tuttavia sembrerà ancora un pochino troppo morbido, poi comunque era troppo impegnato con il suo gruppo originale, i Cure (e chi, se no?). Tuttavia l’ingresso di Smith nei Banshees darà loro un nuovo equilibrio ed una nuova energia, una rinnovata capacità di andare avanti.
In seguito entrerà un altro nuovo elemento, un ragazzino esaltato ed entusiasta, un batterista ancora più scatenato e tribale di Morris: Peter Clark, detto Budgie. Curriculum di prim’ordine, ex batterista degli Spitfire Boys e dei Big in Japan, amico (e a modo suo, se avesse un senso, “allievo”) di Matlock (ancora le magiche pistole di Sex!), infine batterista delle Slits, con cui aveva inciso l’ottimo Lp Cut. Fan sfegatato (ed innamorato) di Siouxsie, non ci pensò due volte ad abbandonare le Slits ed aggregarsi ai Banshees.
Fu così che il gruppo riprese i concerti (un tour de force per Robert Smith), fino a che una nuova tegola cadde sulla sua testa: Siouxsie ebbe un malore, questa volta serio. Il responso era inequivocabile: epatite virale. Smith ne approfittò per tornare a tempo pieno ai suoi Cure. Non per opportunismo, ma l’impegno che richiedeva la composizione e la registrazione di Seventeen Seconds (e scusate se è poco) non gli lasciava altra scelta. All’uscita dall’ospedale di Siouxie, quindi, si ripresentò l’annoso problema del chitarrista. Pirroni e Jones proprio non funzionavano, nonostante i numerosi tentativi. Fu Steven Severin ad avere l’idea risolutiva: il suo vecchio amico John McGeogh, l’allora ventiquattrenne chitarrista dei gloriosi Magazine di Howard Devoto. McGeogh è titubante. Accetta di “collaborare” in segreto con i Banshees, più che altro nel nome della vecchia amicizia che lo stringeva a Severin. Jones fu quindi tenuto nel giro per le emergenze
Purtroppo però i problemi non erano stati risolti, con tanto di ansia per i numerosi fan: Siouxsie faticava a riprendersi dalla malattia; Severin, alla necessaria ricerca di un nuovo sound, non poteva però contare su McGeogh a tempo pieno (ed ecco che Jones ritornava buono); Budgie, bravo e talentuoso, era comunque un elemento ancora piuttosto estraneo. Fu al nuovo produttore, Nigel Gray, che toccò mantenere coesa la combriccola. Soprattutto con tante ore di studio.
Fu forse grazie a lui che nel mese di marzo 1980 uscì un singolo capolavoro: Happy House. Riff di chitarra orientaleggiante ed ipnotico, linea vocale coinvolgente, ritmo sostenuto e irresistibile. Un brano forse piuttosto commerciale, ma certamente bello ed assolutamente non banale, con quel suo riff così… deliziosamente straziante e straniante al tempo stesso. Uno stile unico, un colpo di genio di McGeogh! Il retro, Drop Dead – Celebration, è un’invettiva ironica contro i “traditori” McKay e Morris. Il più che meritato successo di Happy House fu tale che i Banshees furono caricati da un nuovo ed incontenibile entusiasmo. E tentarono ancora qualche piccola apparizione in pubblico.
Ma il lavoro in studio doveva procedere, anche perché decisamente difficoltoso, per i mille problemi sopra esposti. Prima dell’Lp si decise dunque di dare alle stampe un altro singolo. Era il 30 maggio dell’80, uscì un 45 giri imperniato sul tema del mutamento di personalità. Christine, sul lato A, faceva parte dei loro brani più pop, ma un’interpretazione aggressiva ed un intermezzo sognante lo resero pietra miliare del loro repertorio (a tutt’oggi è di rigore nelle discoteche dark). Il brano era ispirato alla storia di Christine Sizemore, donna americana che si diceva posseduta da 22 personalità differenti. Sul lato B, similmente, Eve White, Eve Black era tratto dal romanzo del ‘57 I Tre Volti di Eva.
Nel mese di luglio, McGeogh, stressato dalle prepotenze del piccolo tiranno Howard Devoto, esce ufficialmente dai Magazine, ma non per entrare nei Banshees a tempo pieno. Lavori solisti e collaborazioni (celebri quella con Billy Idol o con l’Ultravox Billy Currie nei commercialmente fortunati Visage) gli porteranno via molto tempo. I Magazine non resisteranno: il loro scioglimento sarà prossimo.
Infine, sostenuto psicologicamente dall’apprensione dei fan, il 18 agosto esce l’agognato Kaleidoscope. Bellissima copertina dai caratteri orientaleggianti, meravigliosa apertura con Happy House, ma il disco purtroppo risulta decisamente discontinuo, vittima della sua travagliatissima genesi. Chiariamoci: è tutt’altro che un brutto disco, ma si capisce che la ricerca di un nuovo sound non è giunta a termine e le soluzioni improvvisate da Severin e soci, quando non sono ottime e bellissime, oscillano tra l’inconsistente e, purtroppo, talvolta il troppo leggero, il commerciale.
Cominciamo dai brani migliori: oltre ai due singoli (il primo migliore del secondo), la palma di “brano maggiore” va sicuramente a Clockface, forse troppo breve, ma una simile cavalcata strumentale (con vocalizzi femminili) era di certo capace di trasmettere un’energia irresistibile. Un ritorno al post-punk più tribale e selvaggio. L’album, inoltre, saprà chiudere in bellezza con l’incantevole Paradise Place e la ferocissima Skin, entrambi per la chitarra di Jones. La prima è una danza post-punk esotica e sensuale, con voce effettata e vocalizzi inebrianti, soprattutto per la lunga coda costruita sull’ipnotica variazione di due accordi. Veramente magica. L’ultima Skin, invece, riporta i Banshees alla ferocia degli esordi: la batteria colpisce casuale sulla sincopata ripetizione della chitarra. Entra la voce, strana, minacciosa, dissonante. La batteria scandisce e la voce sale, fino all’urlo liberatorio «cover me with skin, and accuse me of sin, you know what I mean, there’s just too many of them». E la batteria impazzisce tribale, dei fiati allucinati fanno il resto. Un altro capolavoro.
A questa categoria potrebbe appartenere anche Desert Kisses, dal maestoso ingresso corredato di tastiere e dal particolare mood tra il triste e l’orientale. Sì, potrebbe, se solo non si risolvesse in una canzone forse troppo sdolcinata, romantica e ruffiana, relegata quindi ad un gradino più basso. Posizione in cui bisogna classificare anche Tenant, dalla bella atmosfera creata dal flanger sulla chitarra di Severin; un’atmosfera tesa e crescente, ma un po’ palliduccia in confronto al glorioso passato del gruppo. Di un difetto simile, nonostante il graditissimo ritorno del sax, soffrirà la lunga Hybrid: troppo statica e monocorde sul comunque piacevole riff, ed in ogni modo con dei coinvolgenti e scatenati intermezzi strumentali.
Decisamente minore, invece, Trophy: ripetitiva, enfatica e noiosa, seppure con una buona ritmica ed un riff interessante (purtroppo non va oltre). Così purtroppo Lunar Camel, interamente basata sulla piacevole atmosfera che riesce a creare, ma tremendamente inconcludente. La progressione di chitarre somiglia incredibilmente ai contemporanei esperimenti di Robert Smith con i Cure e la cosa è facilmente comprensibile. Ma peggio farà Red Light, dallo spietato arrangiamento sintetico, un brano pretenzioso ed inutile, semplicemente irrisolto.
Questi difetti, come si diceva, erano figli di una formazione che doveva ancora affiatarsi e trovare la giusta direzione artistica. Tuttavia l’album nell’insieme, nonostante una sensazione di alleggerimento generale, sembra non soffrirne più di tanto, risultando comunque fresco, piacevole e coinvolgente. Una Siouxsie più new wave e un po’ meno dark, ma comunque “tosta” e intelligente.

Certo, ai fan Siuxsie era mancata. E le vendite del disco sapranno testimoniare dell’affetto con cui la circondavano.

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