4.12 Sonic Youth – Sonic Youth Ep

Per restare al di là dell’Atlantico, nel paragrafo dedicato alla no-wave di New York (esattamente l’1.6) si diceva che il movimento ricopre un’enorme importanza per un pubblico dark perché, similmente al rock gotico, la no-wave nasceva da istanze come la noia di vivere e il nichilismo, la sensibilità esasperata e l’orrore per le prove umilianti della società moderna. Ma s'è aggiunto poi, letteralmente, «anche No New York ha aperto una strada che poteva diventare dark, o qualcosa di parallelo». Perché s’è detto “poteva” o, più correttamente, avrebbe potuto? Perché lo spirito iconoclasta e autodistruttivo che diede origine alla scena fu così potente da rivolgersi contro gli stessi artisti, che o morirono, o si ritirarono dalla scena col cervello devastato dalle droghe, o cambiarono stile di vita e genere musicale. Solo Lydia Lunch, come si è visto, ha avuto il coraggio, la lucidità mentale e la caratura artistica di continuare su territori più o meno simili a quelli inaugurati dai suoi Teenage Jesus & the Jerks.
Tuttavia l’eredità culturale ed estetica della no-wave ebbe un’importanza che travalicava decisamente le effimere vite (creative) dei suoi stessi protagonisti, creando un nugolo di giovanissimi adepti che cercavano di coglierne chi quest’elemento, chi quello, nel tentativo di carpirne ed interiorizzarne i segreti. A New York, quindi, ma un po’ in tutta l’east-coast americana, con l’inizio degli anni 80 si poté assistere alla nascita di una new wave of no-wave, una seconda ondata di artisti drammaticamente figli di quell’esperienza estrema. Ed essendo essa stata a sua volta così tanto figlia delle stesse esigenze ed istanze artistico-esistenziali che in Europa avevano dato origine al dark, è ovvio che qualche suo aderente, nella propria ricerca, arrivò a percorrere strade decisamente interessanti ad orecchie gotiche. E se non per similitudine di forme e soluzioni musicali (che sarebbe stato puramente plagio o adozione), almeno per affinità di sensibilità.
Ci si riferisce qui specialmente a due gruppi, entrambi newyorchesi, entrambi nipotini della no-wave ed entrambi molto amici fra loro: i Sonic Youth e gli Swans. Per una serie di casi e colpi di fortuna, i Sonic Youth esordirono discograficamente nel marzo dell’82, rientrando pertanto nella presente stagione, mentre per quanto riguarda gli Swans dovremo aspettare ancora qualche mese. Figli bastardi della New York più sporca e degradata, tanto decantata anche da Lou Reed e compagni (leggi Velvet Underground), i Sonic Youth si erano formati solo un anno prima dalle ceneri di un altro gruppo neo-no-wave, gli Arcadians, nella forma di una doppia coppia: le donne erano la tastierista Ann DeMarinis e la bassista Kim Gordon (insolitamente avanti con l’età, avendo sui 33 anni), mentre i maschietti erano il rumoroso chitarrista Thurston Moore ed il batterista Richard Edson.
In realtà gli Arcadians prima e i Sonic Youth dopo erano creazioni della coppia Thurston Moore – Kim Gordon. Lui, nato in Florida e cresciuto nel Connecticut, arrivò neanche ventenne nel 77 a New York e si interessò di tutti i movimenti musicali dell’epoca, facendo anche amicizia con Lydia Lunch. Conosciuta Kim Gordon, mollò la sua punk-band, i Coachman, e tramite lei entrò a contatto col giro di Glenn Branca, celeberrimo chitarrista-compositore rumorista newyorkese. Lei era decisamente più sgamata ed esperta: 5 anni di più, nata a Los Angeles ma studente a Toronto e ora artista visuale a New York. Attratta dalla prima no-wave, era riuscita ad entrare nel giro di amicizie del batterista di Glenn Branca, e quindi a godere della sua attenzione.
Con la DeMarinis erano nati gli Arcadians ma, cambiato batterista, cioè con l’avvento di Richard Edson, si decise anche di cambiare moniker, dileggiando un po’ la moda diallora che voleva che le giovani band si chiamassero sempre “sonic” qualche cosa (de facto era un omaggio al chitarrista degli MC5, Fred “Sonic” Smith). Insieme i quattro cercarono di ripetere la lezione sia dell’esperienza no-wave, sia della ricerca di Branca: strumenti economici e rumorosi, chitarre scordate e/o in feedback, ritmica affannosa e tribale. E testi che parlavano della maledizione del vivere la metropoli inumana, e l’epoca della disumanizzazione.
Dopo un anno di esperienza sulla strada, un’esperienza fatta di rumore, battaglie sociali, droghe e, purtroppo, qualche piccola lite interna, Glenn Branca fu persuaso a produrre il loro materiale sulla sua etichetta personale, la Neutral Records, quando i dissidi interni fecero allontanare la tastierista Ann De Marinis, che dovette essere sostituita. Al giovane Thurston Moore (come anche a quello più anziano, del resto) piaceva emettere un rumore disarticolato e distortissimo, ed il gruppo aveva quindi bisogno di un musicista più “quadrato” che badasse anche al lato armonico della composizione. Fu lo stesso Branca a presentare loro un suo giovane e timido collaboratore, il chitarrista Lee Ranaldo, amante del rumore e della poesia.
Dopo il breve rodaggio di quest’ultimo, verso la fine dell’anno, il gruppo si chiuse in sala d’incisione e, nel mese di marzo 82, la Neutral diede alle stampe quest’omonimo mini-Lp. Omonimo, cioè nessuna fantasia per il titolo, e anche dalla copertina tutt’altro che eccitante: una foto bruttina in bianco e nero in cui i quattro venivano ritratti due volte l’uno, così, con le loro giovani facce un po’ atteggiate e un po’ stravolte. Lì per lì il disco uscì nell’indifferenza quasi generale, eppure fu decisamente interessante non solo per la critica più intelligente, ma anche ad orecchie gotiche, proprio per l’originalità con cui il quartetto era in grado di creare atmosfere plumbee ed opprimenti.
Infatti un preciso colpo di batteria (rullante e charleston) apre la prima, Burning Spear, poi altri colpi seguono isolati, mentre sotto gratta una chitarrina sinistra. Quando Edson finalmente struttura il ritmo, anche Ranaldo emerge, strano, dissonante. L’intervento della Gordon, sul giro di sei note del basso, rende il tutto più accettabile ma non meno minaccioso. Si innestano i rumori dissonanti e fastidiosi di Moore, quindi la sua voce come un grido disperato, un lamento. «The music come, the burning spear» e la musica ha un arresto catatonico, con la figura dell’inizio. Poi si scatena la cavalcata dissonante, che chiude il brano.
Un brano bello e innovativo, ma quello che segue è veramente un loro capolavoro dark: I Dreamed I Dream apre con un lugubre giro di basso, appena contrappuntato da una chitarra quasi in sottofondo. Irrompe la batteria, si crea il giro armonico, lento, magmatico eppur leggero, ma certamente inquietante. La voce della Gordon è una ventata d’aria fresca, anzi forse gelida: «look before you leap, okay, do you read me? - do I drift?- may all your dreams come true - do I dream?», canta sognante, mentre Lee Ranaldo la doppia. Il brano è veramente onirico e mind-blowing, fino ai versi centrali «fucking youth, working youth» (gioventù operaia, gioventù fottuta). Il lavoro della chitarra è un lungo fraseggio dissonante, ma perfettamente inserito nel tessuto del brano e nella sua linea melodica. Una vertigine allucinatoria, chiusa dalle sincopi ritmiche di Edson, prima del basso solo.
Sempre dark ma ancora più straniante sarà la successiva, She Is not Alone: base percussiva nervosa, una chitarra scordata, l’altra su due note. Piccolo accrocchio di suoni concreti e liberi, percussioni e campanellini, chitarra in note libere e dissonanti, basso scalciante sotto. Così per più di due minuti, fino alla bella voce di Moore, «she is not alone - today», un momento di serena melodia sul tappeto percussivo folleggiante. E la voce si allunga misteriosa e profetica, e il brano termina di colpo.
L’ascoltatore è attonito. Gira il disco e lo aspetta I Don’t Want to Push it, un brano dalla struttura tipica nei Sonic Youth: chitarra n° 1 (Ranaldo) che grattugia leggera, dopo una trentina di secondi ingresso fragoroso di batteria percussiva, basso scalpitante, chitarra n° 2 (Moore) in fraseggio dissonante, quasi mediorientale. Un cavallo pazzo e ubriaco, fino all’ingresso della voce maschile (sempre Moore), anch’essa trascinata, che segue le dissonanze mediorientali della chitarra. Pausa percussiva e via, il basso ricomincia, fino a che Moore entra fragorosissimo e lancinante. Seconda strofa, ancora pausa, ancora chitarra da sola che sembra presa da spire roteanti su se stesse. Fine.
Chiudono il disco i quasi 8 minuti di allucinazioni distorte di The Good and the Bad, un chilometrico ed indigesto strumentale che vuole dare al mondo la definizione che il gruppo ha della parola “sonico”. Inizio in rottura percussiva, poi il basso, qui assurdamente suonato da Thurston Moore, ha un fraseggio come sempre molto incalzante, ma questa volta così tipico da costituire l’ossatura armonica del brano. Le chitarre sopra grattano rumorosamente e creano le tipiche dissonanze a spire ritorte nelle quali i Sonic saranno maestri. Alla pausa i rumori accecano e sbigottiscono. Poi quasi silenzio, solo Moore rimane su una nota sola ripetuta in fretta. Cambio di tonalità, sotto una chitarrina nascosta, sembra di sentire il giro armonico di I Dreamed I Dream. Un inquietante mostro si snoda nelle viscere dell’anima, di cui la veloce ripetizione del basso non fa che echeggiarne i passi. La chitarra sale sempre più e sempre più sinistra, in nuove e ardite dissonanze, la batteria è solo occasionale percussione dietro le spalle. Poi il basso spezza, i piatti infrangono, la nota reiterata di chitarra però permane fissa su se stessa. Fino alla fragorosa irruzione del fraseggio di basso d’apertura che prima introduce, poi farà da base alle due chitarre che, ognuna con la propria dissonanza, si avvicenderanno a disturbare la psiche dell’ascoltatore. Chiuderanno i piatti, brano e disco.

Certo, allora solo certa critica illuminata aveva ben accolto questo mini-album, questa scheggia impazzita e rumorosa dell’avanguardia newyorkese. E fu proprio la generale incomprensione, accompagnata probabilmente da un certo qual fastidio aurale, a tenere i Sonic Youth lontani dal mercato discografico per quasi due anni. Ma in questo periodo i ragazzi non persero tempo e si lanciarono in un’instancabile attività live, anche se, sulle prime, subirono l’abbandono del batterista Richard Edson, lanciato in un'altalenante carriera di attore.
Riuscirono così, lentamente, a far capire al mondo del rock qual era la loro estetica, fatta di degrado urbano ed umano, di chitarre distorte in spirale su se stesse, di ritmiche scomposte e affannose, di grida sguaiate di disperazione. Una lezione che pescava tanto dai “nonni” Velvet Underground quanto dai genitori Stooges, non solo dall’acidissima no-wave, e senza trascurare indugi nel lugubre o nel terrifico.
Sappiamo che con gli anni ci riusciranno. Fino a diventare un mito.