4.13 Killing Joke – Revelations

A chi scrive piace ogni tanto porre domande. Anche perché questo piccolo e modesto saggio non viene scritto con l’intento di diffondere dall’alto una verità infusa (non essendo il sottoscritto di natura divina…), ma bensì con quello di ragionare insieme su determinate questioni e nel contempo fornire strumenti critici per giudicare artisti appartenenti ad un genere musicale così importante. E la domanda che potrebbe aprire questo paragrafo può essere: cosa distingue un artista da un profeta?
Ora, forse più di cosa li distingue, come primo approccio potrebbe interessarci cosa li accomuna: la capacità di predire il futuro. L’artista, nello specifico, nelle forme estetiche del domani, il profeta in quelle morali e religiose. C’è poi un’altra distinzione, ovvero l’artista “pesca” da quello che Jung ha definito “inconscio collettivo” e le scuole esoteriche denominano “astrale”, mentre il profeta si presume di ispirazione divina. La differenza non è da poco: il profeta si ritrova a scontrarsi con gli uomini, che certe verità proprio non le vogliono accettare, mentre l’artista fa i conti con le conseguenze delle sue pratiche, ovvero dei sistemi che utilizza per “pescare nell’astrale”. Sistemi che nella musica rock, troppo ma troppo spesso, tendono ad identificarsi con le sostanze stupefacenti.
Insomma, dall’uscita di What’s THIS For…! i Killing Joke, sempre più baciati da un crescente successo, cominciarono a fare i conti con le conseguenze di una sempre più massiccia assunzione dei più diversi psicotropi. Non che il loro successo non fosse più che meritato, per carità: Killing Joke e What’s THIS For…! sono due album duri, tosti, registrati a proprie spese e senza compromessi, capaci di intrattenere psicoticamente l’ascoltatore del presente e di preannunciare profeticamente quello del futuro. Ben pochi artisti nella storia del rock (e a maggior ragione in quella del dark) possono vantare meriti simili.
Però questo giustifica uno Youth, bassista della celebre band, che, fatto come una lippa (nello specifico, pare, di LSD), entra in banca esibendo una bella maglietta con Ronald Reagan e, fattosi consegnare una discreta sommetta, la brucia di fronte all’attonito impiegato? O poi, da un amico, dopo avergli annunciato la sua intenzione di partire, esce per strada lasciando la maglietta di cui sopra ed i pantaloni dall’amico stesso, e in costume da bagno deambula per Kings Road? Tuttavia se il buon Martin “Youth” Glover fu il primo a creare problemi al gruppo, nel lungo periodo non mancherà neanche il leader Jeremy “Jaz” Coleman.
Comunque le cose andavano incredibilmente bene: dopo una gloriosa tournée in america (affiancando addirittura i Police) nel mese di settembre 1981, ne cominciarono una europea che partì nel febbraio 82 dalla Leicester University. Ma nel frattempo nuove canzoni spuntavano come funghi, fino a che il gruppo decise di fermarsi in Germania ad incidere il nuovo Lp e questa volta, incredibile!, avvalendosi dell’aiuto di un produttore: Conny Plank. Il primo frutto di queste sessioni fu pubblicato dalla EG (sempre in collaborazione con la Malicious Damage) nel mese di marzo, si tratta del singolo Empire Song / Brilliant. Ma subito dopo la notizia-shock: Jaz Coleman è andato fuori di testa e vuole mollare il gruppo! Fortunatamente la prossima uscita dell’Lp, avvenuta il 3 aprile, smentì la notizia, ma che qualcosa non stesse andando per il verso giusto era ormai evidente a tutti.
Ora, dopo due capolavori come gli album sopra citati, come poteva essere Revelations? Quanto le pressioni psicologiche della casa discografica poterono essere efficaci sulle psichi ormai pericolosamente oscillanti di un gruppo in preda alle sostanze stupefacenti? Bhé, la risposta più ovvia sarebbe: logicamente un bel po’. Eppure il cantante/tastierista Jaz Coleman e i suoi accoliti non erano facili da piegare: comunque la chitarra di Geordie rimaneva abrasiva e acida, il basso di Youth rimbombante e sinistro, la batteria di “Big Paul” Ferguson ossessionante e metronomica quanto mai. Forse sarà proprio lui, Jaz, ad essersi leggermente ammorbidito, soprattutto nell’uso della voce, che ora non sputa sempre e solo veleno rabbioso ma, occasionalmente, addirittura sembra quasi cantare.
La cosa è immediatamente avvertibile sin dalla prima The Hum: la chitarra è abrasiva, la batteria un martello, la tastiera un coltello, il basso un rimbombo, ma la voce è ben impostata, ironica, a cantare un testo comunque polemico e feroce. Alla fine però quest’espediente è indispensabile, poiché il brano è suonato tutto su una nota sola, tranne una breve variante strumentale, che però (giustamente) non arriva a dare melodia ad un brano che potrebbe risultare monocorde fino all’insopportabile. Poi entra la chitarra del brano dopo, Empire Song, il singolo. Qui la voce torna tossica, feroce e malata, ma il brano è dinamizzato da una batteria mai così forsennata, risultando una sorta di ballabile per discoteche di un inferno industriale. Sebbene anche qui la ripetitività la faccia da padrona, il brano fu comunque uno dei più grandi successi del gruppo.
Ma poi, sotto un arpeggio semplice e leggermente distorto, la voce torna quasi comunicativa e melodica. È un’illusione: quando il brano esplode, con esso esploderà tutto il veleno della bellissima e sarcastica We Have Joy, in assoluto uno dei loro capolavori liberatori, destabilizzanti e animaleschi. I suoni si svuotano, le urla si fanno gutturali, l’inno sgorga dall’anima, o forse dal fegato, l’interruzione spezza. Non meno elettronica e rabbiosa sarà la successiva Chop-Chop che, nel mese di giugno, sarà anche pubblicata a parte come singolo. Metronomica, elettronica, sembra scritta dai Kraftwerk e ri-arrangiata dai Birthday Party. «And the bodies go by, barely half awake, awaiting things to come again», e i corpi passano, a mala pena mezzi svegli, aspettano ancora cose che devono venire, nuovi zombie industriali.
Così come un treno industriale, dopo la bellissima introduzione, sarà la successiva The Pandys are Coming, un mostruoso schiacciasassi sonoro, con coretto spastico di voci alterate, chitarre acide al raccapriccio, e voce in ripetizione ipnotica. Un tormento/estasi per menti malate, uno dei vertici del disco per distorsione acustica, uno dei loro vertici di sempre. Ma un vago ottimismo vocale fa ancora capolino nella successiva Charter III, forse un brano più convenzionale. La loro formula e la loro poetica vengono pienamente rispettate, benché certi testi giovi ripeterli: «hope is for the loser, certainty to be, pleasure of the winner, take now or stay the same». Recuperando vigore punk.
E purtroppo la successiva Have a Nice Day non se ne discosterà abbastanza. Batteria tosta e pulsante, basso bulboso, chitarra acida, voce in anthem. Certo, qualche trucco di produzione, un trapano sovrimposto, ma la ricetta rischia un po’ di mostrare la corda. Più energica e punk, ai limiti della nevrosi, la successiva Land of Milk and Honey. Titolo biblico, esagitazione punk giovanile, chitarra selvaggia (e bravo Geordie!), testo bellissimo: «Land of – better change your tune now / milk and – oh, so negative / honey – we’re so content now / land of – land of milk and honey» (terra di – faresti meglio a cambiar canzone / latte e – oh, così negativa / miele – siam così contenti ora / terra di – terra di latte e miele).
I toni cambiano drammaticamente con la penultima Good Samaritan, che costituirà anche il retro del singolo Chop-Chop. Improvvisamente piomba la depressione e la voce di Coleman si fa marcia e ubriaca, sembra quasi imitare Syd Barrett. La depressa e sconnessa canzone di un americano qualunque (e qualunquista?), sfatto e rassegnato, cioè rassegnato ad una falsa e flippata felicità. Ma una batteria spezzerà gli indugi per l’ultima, potentissima, Dregs: ritmo tosto, batteria funambolica, chitarra acida e sottotono, tosse marcia, testo a flusso di coscienza (neanche riportato fra le note del disco). Un brano anche in questo caso sconquassato e liberatorio, ripetitivo mantramicamente all’ipnosi, il cui titolo fornisce probabilmente più di una semplice traccia, per un disco che a volte sembra sfocato e quasi approssimativo, nonostante l’evidente sforzo di produzione.
Sì, Revelations era un album certo bellissimo, ma che per la prima volta non esente da critiche. La furibonda e velenosa lucidità che aveva così splendidamente marchiato i suoi predecessori, qui è incerta e intermittente. La nuova produzione a volte impreziosisce, ma troppe volte salva una certa mancanza di idee o una ripetizione eccessiva della loro formula. Anche il basso, maledizione, l’enorme, pomposo e meraviglioso basso di Youth troppe volte sparisce nel marasma generale. Per carità, tutte cose che non creano eccessivi problemi, soprattutto alla presenza delle vere perle che nobilitano il disco, in particolare Empire Song, The Pandys are Coming e We Have Joy, o della sgangherata ma a modo suo geniale Good Samaritan.

Eppure che le cose stessero prendendo una piega strana lo capiva anche l’ultimo degli studiosi di esoterismo, guardando le immagini di copertina. All’interno la famosa piramide massonica dei biglietti da un dollaro, o il caduceo di Mercurio presente su quelli da una sterlina. Sul retro una squadra ed un compasso, altri evidentissimi simboli massonici.
Si trattava di un Jaz Coleman veramente partito di testa, che ormai si era flippato il cervello sui libri di occultismo. Infatti di lì a qualche mese, esattamente il giorno del compleanno dello stregone inglese Aleister Crowley (famosissimo “mago nero” d’inizio novecento), molla il gruppo e fugge dall’Inghilterra per rifugiarsi in Islanda, unica terra che si sarebbe salvata dall’imminente catastrofe nucleare. Poco dopo lo raggiunge Geordie, lasciando i fan con la più angosciante delle domande: e se tutta questa retorica della ribellione sociale, dell’accusa ad una società barbara e retrograda, fosse stata solo la ridicola pantomima di un pazzo disadattato?