1.6 AA.VV. – No New York

Certo, saranno in molti a stupirsi di una simile recensione in questo (con)testo. Cosa ci fa la celeberrima raccolta curata da Brian Eno in uno scritto che come argomento ha il dark?
Ma soprattutto, perché se ne dovrebbe parlare?

1) Perché innanzitutto all’uscita di questo disco il dark non esisteva ancora. Il proto-dark degli Wire e dei Banshees (in questi ultimi molto meglio definito) era ancora troppo poco per creare una vera scena. Siamo ancora nel periodo dell’organizzazione del dopo-punk ed ecco che uno dei musicisti più influenti e fondamentali d’Inghilterra ha voluto dire la sua in merito.

2) Perché di Brian Eno si deve assolutamente parlare. Era nato come tecnocratico tastierista dei Roxy Music, anzi gli stessi primi Roxy Music sono stati un gruppo così incredibilmente all’avanguardia proprio per una schizofrenia di fondo di cui il nostro era parte integrante. Da un lato, infatti c’era la tradizione, la retroguardia, rappresentata dalla voce da crooner romantico di Bryan Ferry e dai fiati (sax e clarinetto) da conservatorio di McKay, sull’altro fronte l’effettistica elettronica futurista di Eno; con la chitarra pazza e funambolica di Phil Manzanera a fare da trait d’union. Dopo il secondo capolavoro (For Your Pleasure) le liti fra i due Brian, che poi erano i due veri leader, comunque le personalità più rilevanti del gruppo, arrivarono ad un punto tale che Eno fu costretto a lasciare la band al suo destino. E fu un destino di gloria, nelle mani del melodico-melenso Bryan Ferry, ma di sempre minor rilievo artistico.
Ma ormai due capolavori erano usciti, destinati con il loro peso e la loro forza ad influenzare sempre di più tutto il rock del futuro. Eno, nel frattempo, divenne il musicista più importante d’Inghilterra con una carriera solista bruciante e con l’invenzione di uno dei generi musicali più sbalorditivi degli ultimi tempi: la ambient music. Il punk aveva sì spazzato via tutto, ma non lui (e non Bowie, ma questa è un’altra storia), e fu lui stesso a voler rimettere un po’ d’ordine dopo.

3) Perché comunque Eno, con la trilogia berlinese, stava componendo insieme a Bowie il capolavoro della fine degli anni 70. Dalla trilogia nacquero i generi più importanti ed influenti degli 80: l’estetica new-wave, il funereo dark e l’esotica etno. Eppure Eno interruppe la composizione di quel lavoro per produrre questa compilation del dicembre ‘78, sempre alla ricerca di nuove frontiere della musica. Nel dettaglio si trattava di reinterpretare lo spirito negativo ed iconoclasta del punk ed applicarlo a musicisti più “colti” e preparati, che facessero una “non” musica (cioè una musica contro ogni tradizione) e quindi formassero una “non” scena, da contrapporsi alla fresca new-wave newyorchese di Television e Talking Heads. Da qui No New York: come col dark, si partiva da una negazione.

4) Perché tre dei protagonisti di questo disco sono musicisti dall’importanza imprescindibile. I Contorsions di James “Chance” White (voce e sax) erano caratterizzati da un suono crudo e metallico che volentieri si perdeva dietro alle assurde sperimentazioni più o meno free del leader. Proponevano brani originali (Dish it Out) e cover (I can’t Stand Myself, di James Brown). Certamente più darkeggianti i Mars di Summer Crane (voce e chitarra) che, con Helen Fordsdale, proponevano oscuri e ipnotici labirinti sonori, dove la voce si riduceva ad un lamento lontano ed incomprensibile. Il più importante però sarà il cantante chitarrista dei DNA, Arto Lindsay: isterico e lunatico, con chitarra mal accordata e fuori tempo, costringeva gli altri a seguirlo in viaggi assurdi e cacofonici, di cui Egomaniac’s Kiss e Not Moving sono ottimi esempi.

5) Perché la quarta protagonista era Lydia Lunch con i suoi Teenage Jesus and the Jerks, reginetta tenebrosa e dannata, con le sue nenie funeree e le improvvise esplosioni metalliche di Burning Rubber. Lydia Lunch, dopo aver pubblicato un paio di lavori con i Teenage Jesus, affronterà una carriera solista che la farà passare tra la sperimentazione e la poesia, ma sempre con quell’aura di reietta e maledetta, spazzatura dei bassifondi. È un’artista dall’enorme importanza ai fini di un’accurata storia del dark, la cui produzione tuttavia, un po’ per mancanza di spazio (e tempo!), un po’ per la sua eterogeneità, non potrà essere seguita nel dettaglio. La segnalazione è tuttavia doverosa.

6) Perché, come si diceva prima, similmente al dark, si partiva da un rifiuto, da una negazione. Il punk aveva spazzato via tutto e negli Stati Uniti, patria del primo rock, questo significava moltissimo: era stata una sorta di sciagura nazionale. Ma che cosa si stava ricostruendo? Una nuova scena rock, con le sue nuove prime donne (Patti Smith) e le sue nuove superstar (Talking Heads) migliori dei predecessori solo perché più mentali ed ironici. Ma non potevano, anzi non dovevano bastare. La negazione, il rifiuto, l’alienazione e l’anarchia insegnate dal punk, chi le rappresentava? Dove si potevano identificare? Evviva l’intelligente e mongoloide demenza dei Devo, dunque, o il colto sperimentalismo dei Tuxedomoon o la spastica patafisica dei Pere Ubu, ma ci voleva dell’altro: il rifiuto radicale del suono “pulito”, della tradizione armonica, seppellita sotto tonnellate di metallo fuso, cacofonia casuale e libera improvvisazione.
Insomma, anche questo è stato post-punk ed anche No New York ha aperto una strada che poteva diventare dark, o qualcosa di parallelo. Purtroppo così non fu. O lo fu solo per Lydia Lunch: i Mars scomparvero, James White si bruciò con le droghe (dopo devastanti performance live) ed Arto Lindsay divenne un virtuoso di certo free-jazz d’avanguardia.

7) Perché è un bel disco. Da ascoltare.

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