1.7 The Cure – Three Imaginary Boys

Tra i gruppi “allegri” del dopo-punk vanno senz’altro menzionati i funambolici Easy Cure, poi più semplicemente The Cure. La loro musica era appunto un post-punk scoppiettante ed energico, lievemente ispirato a certa psichedelia beat degli anni 60. Sul perché vengano nominati adesso è necessario fare il discorso già a suo tempo fatto per i Warsaw, poi Joy Division ed il loro An Ideal for Living: se la storia non fosse andata come tutti sappiamo non sarebbero stati minimamente presi in considerazione.
Completamente estranei al fenomeno dark, si diceva, i Cure tuttavia si vestivano di nero, avevano capigliature “sparate” molto dark-wave e delle volte coloravano le loro vivaci canzoni di toni meditativi o malinconici. Era soprattutto merito del cantante-chitarrista-compositore Robert Smith, musicista ondivago e lunatico, a volte gioioso, altre aggressivo, altre depresso. Trovatosi con il batterista Lol Tolhurst, suo compagno di scuola e con il bassista Michael Dempsey, i tre (ma originariamente erano un quintetto, con un secondo chitarrista ed un cantante) riuscirono a rimediare un contratto con la microscopica etichetta discografica Little Wonder. Piccola ma incredibilmente intuitiva.
Killing an Arab, loro singolo d’esordio del dicembre ‘78, è un pezzo bellissimo, trascinante ed irresistibile con i suoi intrecci arabeggianti di basso e chitarra. Ma oltre all’orecchiabilità il brano godeva anche di un testo impegnato sia socialmente che culturalmente: anche questo, infatti, liberamente ispirato all’Etranger di Camus, similmente all’omonima canzone dei Tuxedomoon. Nonostante qualche problemuccio con le comunità islamiche, il disco fu un tale successo che fu facilissimo per i tre ragazzi ottenere un contratto con la Polydor, per la neonata etichetta Fiction.
Tree Imaginary Boys, questo il titolo dell’Lp uscito nell’aprile del ‘79, non deludeva certamente le attese. Ma già la copertina era un capolavoro dell'assurdo. Nessuna foto (giusto tre elettrodomestici), nessun titolo, solo simboli grafici, un vero rompicapo ai limiti del surreale! Il primo brano era il retro di Killing an Arab, la bellissima 10:15, Saturday Night: l’inizio calmo e sommesso scandito da una nota di chitarra, l’ingresso fragoroso della sezione ritmica, cui segue la voce che canta di un amante in attesa ad un telefono che non suona. Il rumore della goccia (l’onomatopea di drip drip drip) rallenta di nuovo i toni, fino alla strofa dopo e quindi ai variegati intermezzi di chitarra. Pezzo romantico e stranamente triste, uno dei loro primi capolavori.
Missata insieme ecco iniziare Accuracy, dall’allegra severità, con appena un lieve accenno malinconico. La successiva Grinding Halt, un punk-reggae, è già più nel loro stile scanzonato e leggero ma sempre intelligente, mai superficiale.
Stranamente depressa la successiva Another Day, decisamente un’anticipazione delle loro atmosfere più introverse: chitarra semiacustica in accordo minore, voce mesta, aria triste. Un intermezzo strumentale meditativo e poi la ripresa della voce, per questo gioiellino che la dice lunga sulle capacità compositive del giovane Robert Smith. Ma la tristezza viene subito messa da parte dalla psichedelica ed aggressiva Object, un pezzo dalla semplicità quasi adolescenziale, con abbondante delay sulle voci.
Una strana atmosfera, quasi swing ma molto dimessa, fa da sfondo alla breve e straniante Subway Song, che finisce con un urlo lacerante. Poi un solo aggettivo può qualificare il brano a seguire: geniale. La loro interpretazione della Foxy Lady di Jimi Hendrix è veramente assurda: ritmo scatenato e punk-reggaeggiante, chitarra reiterata su una nota sola, voce (di Dempsey, stavolta) sconvolta e distorta. In assoluto l’interpretazione più fresca mai sentita di questo brano. Poi, a conferma della divertita schizofrenia dei tre, un intro ancora swing prepara il reggae scatenato di Meathook, un brano trascinante e di un genere assurdo: post-punk-reggae-free-jazz-swing? So What, la successiva, è un altro pezzo movimentato e moderatamente aggressivo, dal testo particolarmente nonsense.
Un altro piccolo capolavoro di questi tempi i Cure lo confezionarono con Fire in Cairo: una voce malinconica ed introversa su un vivace tempo reggae, una passione che brucia come il fuoco al Cairo, il ritornello orecchiabile ma mesto, dove vengono cantate le lettere (effe, i, erre, ecc. ovviamente in inglese). Ritmo sostenuto ma melodia piena di mestizia, questa la loro formula assolutamente irresistibile!
Potente e sostenuta, oltre che più tipicamente nel loro stile, la successiva It’s not You porta all’ultimo sorprendente brano. Three Imaginary Boys, infatti, lascia allibiti. Inizio con chitarra acustica, ritmica sul giro degli accordi, ingresso fragoroso di basso e batteria, voce tra il depresso, il rassegnato e l’allucinato. Una melodia semplice, un assolo semplice, un arrangiamento essenziale, ma incredibilmente efficace nell’esprimere una triste desolazione. Questa canzone potrebbe quasi essere una nuova formula, potrebbe diventare la via dei Cure al gotico. Ma… chi vivrà vedrà…
Un disco allegro, si diceva quindi, squisito ma quasi totalmente estraneo al dark. È sostanzialmente vero, ma mai “a cervello spento”, anzi dall’attitudine sempre molto intelligente, fino ad una certa depressa consapevolezza. Sono notevoli gli esempi in tal senso (la title-track ed Another Day) che fanno intuire la strada che il gruppo avrebbe potuto prendere.

Ma non si sarebbe capito subito. Sembrava che comunque il principale scopo dei Cure fosse ancora molto easy: il singolo successivo infatti, Boys don’t Cry, certo voleva incuriosire, ma soprattutto voleva far ballare e divertire. E così fecero con il successivo Jumping Someone else’s Train e tutti i loro 45 giri di questo periodo saranno poi raccolti nella compilation Boys don’t Cry.
Ma fino a quando sarebbero andati avanti? Insomma, anche su questa compilation, un pezzo come World War cosa voleva significare?

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