1.8 The Boys Next Door – Door Door

Sempre per la serie “esempi di post-punk che col dark non ci azzeccano niente”, forse è il caso di segnalare che dalla lontana Australia, nel frattempo, facevano capolino i Boys Next Door. Anzi, nella realtà non facevano capolino proprio per niente, con tutte le difficoltà che stavano incontrando nella loro terra d’origine.
In effetti i giovanissimi Mick Harvey e Nick Cave non avrebbero potuto essere più diversi fra loro. Bello, quasi angelico, elegante e raffinato polistrumentista (quasi un virtuoso) il primo; brutto, rozzo, demoniaco, incapace ad ogni strumento (col tempo imparerà il piano) ma cantante selvaggio il secondo. Compagni di scuola, formarono i Boys Next Door in quel di Melbourne, con l’aiuto del batterista Phillip Calvert. Solo successivamente, per esigenze live, si aggiunse il corpulento bassista Tracy Pew.
In effetti, dal vivo i “ragazzi della porta accanto” lasciavano il loro scarso pubblico decisamente impressionato. Sporchi, selvaggi, animaleschi, erano i perfetti emuli di Iggy Pop e dei suoi Stooges, per quanto riguarda l’attitudine sul palco (oltre al rumore indistinto emesso dagli strumenti), e di Lou Reed per le corrotte tematiche dei testi. Tuttavia quando, dopo immani fatiche, riuscirono a procurarsi un contratto discografico, la benpensante industria musicale australiana pensò bene di normalizzarli. Nel '78, infatti, il primo 45 giri a loro nome altro non fu che la scanzonata cover di These Boots are Made for Walking, precedentemente interpretata da Nancy Sinatra (!). Un pezzo così orecchiabile e commerciale avrà certo dato al quartetto una qualche notorietà, ma assolutamente insoddisfatti dal prodotto, i ragazzi insistettero presso l’etichetta discografica, la Mushroom, per registrare un disco diciamo più rappresentativo. Ma la parola d’ordine era “normalizzazione” e così doveva essere. Fu assegnato loro il produttore dei Supercharge, gruppo di funk comico inglese, certo Les Karsky, famoso per considerare i Roxy Music ed i Velvet Underground come i peggiori gruppi rock mai esistiti.
Il risultato, ovviamente, fu un mezzo disastro. Furono registrate sei canzoni di cui la prima, The Nightwatchmen, era un ballabile rock appassionato e romantico, con Nick che sembra un cantante interessante ma assolutamente convenzionale. Decisamente meglio la seconda Brave Exhibitions, aperta rumorosamente dai sassofoni di Mick Harvey e con un ritmo aggressivo e sostenuto, sebbene il taglio sia comunque un po’ troppo orecchiabile e scanzonato. Stesso discorso per la successiva Friends of My World: intro epico, partitura vocale interessante sebbene un po’ troppo appassionata, ma ritornello leggermente insipido che lascia un po’ così. Dei tre pezzi appare comunque il migliore, probabilmente per quell’effettaccio super-elettronico aggiunto nel finale.
Può sembrare un po’ meglio, aggressiva e appassionata, anche The Voice, scandita in un secondo tempo dai sassofoni che, senza mai toccare vertici sublimi, riescono almeno ad evitare stucchevoli romanticherie. È come se un’energia ed una potenzialità molto maggiori siano state in qualche modo soffocate. Energia che prova a liberarsi nella successiva Roman Roman, ma che purtroppo si risolve in una sorta di ska-punk leggermente insipido e convenzionale (maledetti quei coretti anni 60 infilati un po’ dappertutto!). Altra buona prova potrebbe essere anche quella di Somebody’s Watching Me che, nel suo essere comunque orecchiabile e convenzionale (e con gli odiosi coretti doo-wop), finalmente scatena una certa carica coinvolgente, grazie anche alle ardite scale chitarristiche di Harvey ed ad un saggio uso “strategico” di poche pause.
Insomma, non un vero disastro, almeno tre canzoni sono più che degne di nota (Friends of My World, The Voice e Somebody’s Watching Me) ma, al di là del fatto che ci sia assolutamente nulla di gotico o affine, si ha comunque l’impressione di un’occasione sprecata. E mentre su questo spreco lavoravano, i ragazzi fecero amicizia con una sorta di leggenda locale: l’oscuro, segaligno e originalissimo chitarrista Rowland S. Howard, già al servizio di band come gli Obsessions e gli Young Charlatans. Impressionato dall’attitudine anarco-rumorista dei quattro, Howard decise di unirsi alla combriccola e di dare una mano nel ridefinire il repertorio del gruppo, oltre che nelle registrazioni.
Ma la Mushroom si oppose con forza: ciò che è fatto è fatto, al limite si potevano aggiungere pezzi nuovi. Fu così che, scaricato l’odiato Karsky, i nuovi Boys Next Door cominciarono ad avvalersi della preziosa collaborazione del fonico Tony Cohen ed incisero altre 4 canzoni dal gennaio del ‘79.
Quando poco dopo uscì, l’Lp Door Door nonostante la bellissima copertina viveva in sé tutte queste schizofrenie e contraddizioni: ai primi sei pezzi sopra descritti si aggiungevano i quattro nuovi e decisamente diversi di cui uno, Shivers, uscito anche come singolo di un certo successo. Ultimo brano del disco, Shivers è anche l’unico “diverso” o sarebbe meglio dire “sbagliato”. Doveva trattarsi di una ballata ironica sulle inquietudini adolescenziali (che potevano anche portare al suicidio), non il lentone romanticone e lacrimevole che alla fine ne uscì. Ma i ragazzi andavano capiti: erano alle prime esperienze in sala d’incisione e a tutti è concesso qualche piccolo errore… Comunque è impressionante la capacità vocale di Nick Cave, perfetto crooner moderno.
Infinitamente meglio gli altri tre brani: After a Fashion, mentale e nervosa, la presenza di Howard si sente subito, con i suoi riff distorti e ripetitivi (sebbene, col senno di poi, decisamente normalizzati, ancora!), con Harvey alle tastiere ed il basso di Pew finalmente in evidenza. La voce rimane ancora un po’ sentimentale, ma in questo caso rappresenta il classico “tocco in più”. Nel finale Howard e Calvert potranno dare libero sfogo alle loro doti. Più ironica e tagliente la successiva Dive Position, con piano beffardo, vocina in falsetto sulle parole “dive position”, ritornello rumoroso e variante spiazzante. Decisamente un bel pezzo, sebbene forse ancora un po’ velleitario.
Il capolavoro di Door Door comunque, secondo il parere di chi scrive, sarà la successiva e penultima I Mistake Myself. Inizio sommesso e sconnesso, poi chitarra che entra tagliente col suo riff, Nick Cave finalmente obliquo e straziante come sa essere, ed addirittura riffino canzonatorio che riprende gli sberleffi infantili. E che dire del finale sublime «ah ah, we all fall down!»? Un pezzo strano, insieme sballato ed epico, che fa emergere, leggermente ma indubitabilmente, i cinque musicisti più importanti che l’Australia era destinata ad avere.

Australia che per altro sembrava non volersene accorgere. In un’intervista i Boys Next Door dichiareranno “i nostri concerti sono affollati, la gente continua a parlare di noi, ma nessuno acquista i nostri dischi”. Ciò avverrà anche dopo l’ennesima problematica produzione, quell’Hee-Haw che, uscito nel novembre del ‘79, nel suo rendere maggiormente giustizia al quintetto, sarà anche l’ultimo prodotto discografico a portare il nome dei ragazzi della porta accanto. Sì, perché nel frattempo loro avranno preso i loro provvedimenti.

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