3.9 Modern English – Mesh and Lace

Trattasi qui di un caso particolare, ovvero di uno dei tanti gruppetti punk che, improvvisamente travolti dalla piena del dark, non riuscirono a sottrarvisi, non dissimilmente dagli UK Decay (che, guarda caso, tacevano ormai da un po’). Purtroppo la loro permanenza nel genere durò giusto lo spazio dell’album qui recensito: successivamente infatti emigrarono verso i lidi di un synth-pop piuttosto insipido, emigrando poi fisicamente anche negli USA. Insomma, decisamente un gruppo minore, non fosse per l’importanza di questo Lp, essenziale per definire quello che successivamente si sarebbe chiamato “4AD sound”.
Originari di Colchester, nell’Essex, il cantante Robbie Grey, il chitarrista Gary McDowell ed il batterista Richard Brown fondarono i The Lepers nel 1977. A totale imitazione, manco a dirlo, dei Sex Pistols, come centinaia d’altri in quei giorni. Bè, al contrario di molti dei numerosi colleghi, la loro vicenda si concluse presto nel quasi totale anonimato. Ai Lepers si aggiunsero, col tempo, il bassista Mick Conroy ed il tastierista Steve Walker. Soprattutto con l’aggiunta di quest’ultimo il loro sound virò verso territori già esplorati da John Foxx con o senza gli Ultravox, ovvero da certo Gary Numan e dai Simple Minds, cioè un post-punk (nel loro caso abbastanza morbido) fortemente caratterizzato dai sintetizzatori, il prototipo di quella che sarà conosciuta come “new wave inglese”. Al cambio di stile seguì il cambio di moniker: erano nati i Modern English.
Finanziati da un impresario dell’Essex con la sua oscura etichetta, la Limp Records, uscirono nel 1980 con un 45 giri contenente i due brani Drowning Man e Silent World: un disco acerbo e mal registrato, destinato a cadere presto nel dimenticatoio. Infatti l’indifferenza da parte delle major britanniche nei loro confronti aveva qualcosa di sprezzante. Loro rimanevano quindi a Colchester esibendosi nell’unico locale punk-rock della zona, il Bridgehouse, e dividendolo con gli allora appena formati Depeche Mode. Ma col passare dei mesi la vita di provincia stava logorando il gruppo, che si trovò presto di fronte ad una classica scelta: sciogliersi o tentare la fortuna a Londra.
Chiaro che la capitale inglese non fosse lì ad aspettarli a braccia aperte. I cinque dovettero quindi arrangiarsi e vivere di espedienti, dormendo in case occupate. Questo tese ad aumentare la loro frustrazione e rabbia, ovvero una certa aggressività punk del loro sound, per non parlare di una visione del mondo cupa e negativa. Quando tutto sembrava essere inutile, ed i cinque luridi, disperati ed affamati, furono praticamente costretti a far ritorno a casa, arrivò la fatidica lettera da Ivo Watts-Russell.
Per la 4AD i Modern English incisero due 45 giri, tra l’80 e l’81, che andarono decisamente bene nelle classifiche underground inglesi dell’epoca: Swans on Glass / Incident e, successivamente, Gathering Dust / Tranquility Of A Summer Movement (Vice Versa). Il primo brano apre con una batteria scandita a doppia percussione ed un synth in contrappunto nervoso e quasi beffardo. La voce di Grey è lontana e parlata, in una sorta di ramalama fisso dell’alienzazione. Poi Brown si fa molto più percussivo e Grey più ossessionante, finché la chitarra di McDowell irrompe sbaragliando il tutto. «I’m turning around» canta Gray in un brano a tratti nervoso e sghembo (sembrano quasi i Killing Joke), a tratti triste e romantico sulle tastiere di Walker, con finale elettronico/caotico e chitarristico. I cigni sul vetro, un piccolo capolavoro. L’altro lato è Incident, dall’incipit aggressivo, molto post-punk, sempre per il parlato scandito di Grey. Post-punk sì, ma anche molto d’atmosfera, seppur con diverse scosse nervose. Qui addirittura aleggia la presenza degli Wire, anzi sembra un brano tratto paro paro da Chairs Missing. Un omaggio?
Decisamente diverso l’altro singolo, e complimenti per quel capolavoro di alienazione che è la copertina. Gathering Dust comincia con un’atmosfera molto alla Joy Division, per synth e chitarra in flanger. Poi la batteria si fa più importante e la voce entra col suo recitato. Il brano esplode in un post-punk furibondo ma nel contempo molto romantico, a vaghe tinte cupe, soprattutto nel triste tono di voce. E l’atmosfera cresce, sempre più intensa, sempre più epica. Finale sonico-percussivo. Tranquility, invece, attacca alla lontana, con canto di uccellini in sottofondo. Una nota remota, come il lamento di un sax. Qualche nota del basso di Conroy, accordi di chitarra… poi la voce, o le voci, così depresse, moltiplicate ed effettate. La tranquillità depressa di un cimitero, di un luogo della mente, di un manicomio in solitudine. La chitarra cresce, ed il primo riferimento che viene in mente è Seventeen Seconds dei Cure. Ma la voce così effettata e così recitata dà un effetto molto più alienante. Poi improvvisa una variante percussiva, insomma qui si ha a che fare con un must in crescendo, dalle tante atmosfere che il lunghissimo titolo suggerisce. Gli uccellini torneranno in chiusura.
Tra i due singoli i Modern English fecero pure in tempo a partecipare ad un disco collettivo della 4AD, Presage(s), in presenza degli emeriti sconosciuti (e destinati a rimanere tali) CVO, Psychotic Tanks, Last Dance, Spasmodic Caress e Red Atkins. Il loro brano, Home, era poco più di una prova in studio, comunque sempre caratterizzata dalle loro atmosfere un po’ angoscianti, contrassegnate da batteria ripetitiva, voce recitata, chitarra acida, basso fisso, synth d’atmosfera. Qui in particolare il riferimento agli Wire più ipnotici (quelli in cui canta Lewis) di 154 è notevole, sebbene virati in qualcosa di più psicotico e sinistro.

Ma Mesh and Lace, l’album che dovrà cambiare le sorti estetiche dell’etichetta di Bauhaus e Birthday Party (e scusate se è poco), uscirà solo il 10 aprile di quel 1981. Per la copertina fu creato uno studio grafico apposito, poi vero e proprio marchio di fabbrica della 4AD, la 23 Envelope. Le loro atmosfere grafiche ricercate, raffinatissime, desolate e un po’ decadenti, contribuiranno spesso in futuro a diffondere i prodotti dell’etichetta più di quanto avrebbe meritato il valore artistico delle opere musicali registrate. Tuttavia non sarà il caso di questo bellissimo album, che addirittura aprirà con un capolavoro epocale: la magica 16 Days. Rumori elettronici di fondo, poi un vento lontano, effetti… la chitarra effettata cresce distorta e l’atmosfera è subito cupa. Una lunga introduzione, con aggiunta di voci radiofoniche, poi tamburello e basso di Conroy che comincia a farsi sentire. Finché, devastante, esplode la batteria di Brown e lancia un post-punk furibondo su due note. Ma la chitarra insiste su note malinconiche, nella baraonda ritmica e di voci radiofoniche. Poi Gray, epico e disperato, entra con il suo gridato. Un brano immortale, sospeso tra angoscia e brivido (ed effetti sonici di Walker).
Sarà proprio un effetto di synth ad introdursi, con grida di sottofondo, e preparare il terreno alla successiva Just a Thought. Percussiva come poche entra la batteria, ma stavolta la voce è più bassa e meditativa. Anche qui parte un post-punk violento e triste, la rabbia che si fa malinconia, la repressione che esplode depressa. I Joy Division ed i Josef K, in una parola i Modern English. Tosto l’intro della successiva Move in Light. Rispetto ai singoli, quest’album sembra molto più rabbioso ed aggressivo, ad inanellare una serie di brani dalla malinconia simile ad un Buckley o, che so io, ad un Nick Drake, ma su un tessuto musicale e percussivo decisamente post-punk. Move in Light però cambia improvvisamente, per le tastiere di Walker e le pesanti percussioni di Brown, prima di ricominciare la sua folle e ripetitiva cavalcata.
La loro è una strana formula, un’interessantissima unione di contrasti. Una musica violenta per atmosfere e voci malinconiche, strutture armoniche (e progressione di accordi) ripetitive ma racchiuse in blocchi molto diversi fra loro, a comporre una sorta di allucinante nuovo progressive post-punk. Poi un suono sintetico e lontano. Tre rintocchi cupissimi, quasi catacombali, e l’atmosfera si fa oscura come nei primi singoli (Tranquility?). È Grief, brano dall’intro dark ma che virerà presto nel maestoso ed epico, prima del quarto minuto dove (finalmente?) entrano batteria a voce. Quest’ultima, ripetitiva come sempre, lascia però intravedere un raggio di disincantato sole. «Why did you do this to me?» e la malinconia si fa estasi esistenzialista. Poi l’atmosfera torna a farsi cupa e depressa ed il refrain prosegue fino alla sommessa fine.
L’uomo gettone, ovvero The Token Man, entra tra piatti ed effetti elettronici, per un Grey che canta in una tonalità bassa che forse non gli appartiene. Ma l’effetto generale è di una fissità veramente alienante, col basso di Conroy a tappeto. Ma il post-punk cavalcante prende il sopravvento, per percussioni martellanti e tastiere maestose: si scatena un concentrato di esagitazione e mestizia, tristezza malinconica e potenza nevrotica, condito dalle tastiere di Walker che, addirittura, si fanno psichedeliche! Variante spiazzante nel finale, che riprende l’effettata percussione iniziale. Un capolavoro, di quelli che hanno reso Mesh and Lace un album immortale. Le percussioni serratissime della successiva A Viable Commercial faranno giusto da supporto ad una parte vocale ipnotica e ripetitiva quanto mai. Giusto successivamente la “canzone” prende il sopravvento con le sue note malinconiche, senza tuttavia aggiungere molto alla loro poetica. Il finale esagitato e gridato torna a ricordare gli Wire, ed un pezzo di cuore rimane.
Effetti elettro-patafisici imitano il crollo e la caduta nella successiva Black Houses, fino ad un “nero” da cui prende l’abbrivio il bellissimo basso di Conroy (con una serie d’accordi poi pedissequamente copiata da Body Electric dei Sister of Mercy) e Grey che un po’ tristeggia ed un po’ punkeggia. «My body naked, my eyes are burning» (il mio corpo nudo, gli occhi bruciano), il grido alla luna, moderno licantropo oscuro inglese. Voci trattate ed effetti sintetici, contrappuntati da arpeggi di McDowell, fanno da intermezzo prima della ripresa del giro d’accordi iniziale, che poi chiudono un brano bellissimo. Il disco chiude con le atmosfere elettroniche di Dance of Devotion (a Love Song), brano nervoso, a tratti ricorda addirittura i Devo, ma malinconico ed elegiaco quanto mai. Il rimpianto di un amore perduto per chitarre aggressive, percussioni selvagge ed atmosfere opprimenti e scatenate. La summa della loro arte.

Col capolavoro Mesh and Lace i Modern English si misero saldamente in groppa allo scatenato cavallo gotico. Il loro stile, sapiente ed ispiratissima miscela di stili altrui, li renderà un po’ il prototipo della cosiddetta “seconda generazione dark”. Ma la loro originalissima rabbia così malinconica e depressa, logico risultato delle frustrazioni accumulate fino a quel giorno, fu un miracolo purtroppo irripetibile. Ciò non significava che avessero perduto il talento, almeno non subito, anzi. Ma già dal successivo singolo Smiles and Laughter / Mesh and Lace, certo bellissimo, appassionante e scatenato come la loro migliore produzione, ma… mancava qualcosa, forse quella vena sofferta… La b-side cercherà di recuperare un poco d’atmosfera ma, dopo la bellezza dell’omonimo album, non poteva non suonare un po’ di maniera. Tutte queste canzoni pubblicate dalla 4AD, sin dai primi singoli, saranno poi raccolte nell’edizione su cd del disco.
Comunque almeno qui gli elementi c’erano ancora praticamente tutti. Forse i ragazzi avevano solo bisogno di un po’ di riposo per recuperare appieno l’ispirazione. O forse il problema era un altro…

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