Nonostante la misteriosa
ed impressionante bellezza di un capolavoro come Seventeen Seconds,
Robert Smith si trovava sempre un po a disagio, tormentato da
un assurdo complesso di inferiorità. Avrà più volte modo di dichiarare
che il suo album, per quanto suonasse eccellente ad orecchie gotiche,
non era profondo e straziante come le contemporanee opere dei Joy
Division. Di sicuro un capolavoro come Closer può lasciare
basiti, ma in questa frase purtroppo si possono rintracciare le cause
del livello della produzione successiva dei Cure.
Certo che anche lui doveva provare la sua credibilità. La maggior
parte dei suoi vecchi fan erano delusi e risentiti nei suoi confronti,
per la svolta che avevano preso gli Easy Cure, assolutamente non più
easy. Mentre i nuovi fan gotici lo tenevano sotto osservazione,
nella speranza che non tornasse più a lavori allegri e scanzonati.
Da questo punto di vista i Cure si sforzavano a colpi di sessioni
radiofoniche (una per John Peel in gennaio ed una per Richard Skinner
in marzo), dando in pasto ai fan il nuovo materiale di stampo gotico
che nel frattempo veniva composto. Non solo, ma la defezione dellindispensabile
(per il loro nuovo suono) tastierista Matthieu Hartley porterà i superstiti
Smith, il bassista Simon Gallup ed il batterista (unico altro ex-easy)
Lol Tolhurst a dover dar prova di sé. E coserano quelle voci
che volevano Smith in chiesa a cercare nuovi suoni, solo leggende?
E come mai stava imparando a suonare il sintetizzatore?
Questa prova si chiamò Faith, il nuovo album dei Cure uscito
il 17 aprile, ma preannunciato dal singolo Primary/Descent
di un mese prima.
Lp allinsegna della tristezza, sì, dellelegia e del rimpianto,
ma anche di una certa autocommiserazione su imitazione di Ian
Curtis che, se non impedirà a al disco di essere un capolavoro
assoluto, lo rese anche di una sfumatura inferiore al suo predecessore.
Prodotto da Mike Hedges, copertina sfumata ma ancora più misteriosa,
angosciante e funerea di quella del suo predecessore (un'alba boreale
in un lugubre bianco e nero?), Faith cominciava con la meravigliosa
The Holy Hour, che già ne conteneva in nuce le tematiche: basso
funereo, batteria a metronomo, atmosfera cimiteriale. Poi stranamente
il pezzo si apre in senso più solare (le tastiere sono dello stesso
Robert Smith) con un giro di chitarra che ricalca niente meno che
Seventeen Seconds (la canzone), in una sorta di curiosissima
auto-citazione, ovvero si ricomincia laddove si aveva finito. Ma il
brano prosegue umbratile e depresso, con una voce che più malinconica
e commiserativa non poteva essere.
Dopo la claustrofobia ed il terrore soffocato di Seventeen Seconds,
ecco, Faith è praticamente tutto così: il lamento ed il rimpianto,
la nostalgia e la malinconia, la tristezza e la depressione fattesi
musica funerea e poesia doltretomba. Belle, anzi bellissime
The Holy Hour ed Other Voices («change your mind, youre
always wrong»), per non parlare della percussiva ma lenta e umbratile
All Cats are Grey: un gioiellino su tappeto di tastiere e basso
(Gallup era veramente un deus-ex-machina) raccolto ed oscuro. Nella
penombra di una caverna i gatti sono tutti grigi, come lanima
fiabesca e disincantata, o forse meglio rassegnata, di un condannato
al patibolo. Un brano ora sereno ora funereo, un solo verso cantato,
con finale dallemozione mozzafiato.
Ma nel disco si distinguono The Funeral Party e The Drowning
Man. La prima è veramente un meraviglioso scherzo di pessimo gusto.
La festa del funerale si apre ad accordi solari di tastiere scanditi
da una batteria marziale che, se così non fosse, sembrerebbe un canto
alla spensieratezza e allallegria. Prepotente il basso di Gallup
interrompe il giro ed introduce una voce lamentosa e disincantata,
capace di proiettare il cervello in una dimensione parallela, dimensione
dovè possibile il «dancing at the funeral party» (per non parlare
del laughing). Una
scheggia di serenissima e allucinata follia. The Drowning Man,
invece, aperto dalle percussioni di Tolhurst, porta ad un meraviglioso
giro di chitarra con grida lamentose di sottofondo. La voce viziosa
e disperata è effettata in echi e riverberi e contrappuntata da uno
dei giri di chitarra più belli che il dark saprà creare. Leffetto
è estremamente avvolgente ed ipnotico, metafora della soffocante follia
che è la condizione umana, con finale da brivido: «breathing like
the drowning man» (respirando come luomo che annega).
Tuttavia il disco contiene unanomalia, anzi due. In mezzo a
queste sei meravigliose perle nere di malinconia e mestizia (quandanche
fossedisperazione), emergono prepotenti due schegge di furore post-punk
ad interrompere il ritmo un po continuo del disco: Primary
(il singolo) e Doubt. La prima (il secondo brano dellalbum)
è unallucinante storia sulluniformizzazione forzata dellinfanzia,
che il sistema britannico impone dai tempi delle elementari. I bambini
in divisa rossa e gialla covano passioni e sentimenti, sotto ununiformità
apparente ed avversata sin dalle viscere. Ma lestate arriva,
i bambini crescono, i volti cambiano e con loro le passioni. Un must
rabbioso per le discoteche alternative. Rabbioso sì, ma non tanto
quanto la canzone che insinua il dubbio, Doubt appunto. Meno
ballabile della prima, ma decisamente più esagitata e disperata, nel
bel mezzo della mortifera b-side dellLp. Certo, lassassino
ripete il suo delitto nellallucinante metafora del rapporto
di coppia, ma cosè questira furibonda (benché in parte
mitigata nel finale) che cova nel cuore del giovane Robert Smith?
Che sia preludio a qualcosa di più grosso, di là da venire?
Lultima title-track, la catatonica e catacombale Faith,
chiude un album meraviglioso. Il giro di basso è depresso e sconsolato
quanto mai, la chitarra lo asseconda. La canzone dellesaurito,
del tossico in down dopo il viaggio in eroina, dellemarginato
cronico ed ipersensibile. Lelegiaco e solenne canto daddio
di chi se ne va da solo, senza che gli sia rimasto nulla, se non la
fede («I went away alone / with nothing left / but faith»). Laddio
di un disco che non ha più nulla da dire se non la perdita totale
di fiducia nel mondo, ed in se stessi. E qualunque aggiunta sarebbe
inutile.
Inutile sì, perché chi scrive
non ha intenzione di alimentare la polemica di chi afferma linferiorità
di questo titolo rispetto al suo predecessore, adducendone a motivazione
la sua maggiore omogeneità (eufemismo per monotonia) e leccessiva
autocommiserazione. Faith è un vero capolavoro, è stato il
disco che ha definitivamente incoronato i Cure re del dark. Perché
se il genere aveva avuto come padrino Ian Curtis con i suoi Joy Division
e come madrina Siouxsie Sioux con i suoi Banshees (con i PIL di Lydon
a guardare dalla finestra e bussare alla porta), in seguito fu Peter
Murphy dei Bauhaus ad inserirsi prepotentemente, a fare da terzo incomodo.
Ora, dopo la morte dellimmenso Ian Curtis, la corona da re il
buon Peter Murphy la doveva dividere con lui; con linstabile,
malinconico, geniale Robert Smith
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