3.8 The Birthday Party – Prayers on Fire

Che destino per gli ex ragazzi della porta accanto! Se l’Australia si era dimostrata freddina nei loro confronti, la simpatica ed ospitale Inghilterra sfoggiò addirittura un’aperta ostilità, truccata da ostentata indifferenza da parte della stampa. Cosa volevano questi amici dei canguri? Il loro rumoroso swamp-punk sembrava antiquato e fuori moda, un’inutile provocazione, tanto esotico da apparire più provinciale che interessante. Ma cosa stava facendo Ivo Watts-Russel, si era bevuto il cervello?
Fortunatamente il pubblico invece sembrava capirli… nostalgici del punk, insoddisfatti dalla scena industriale, desiderosi di un dark più selvaggio, a centinaia affollavano i loro concerti. Questo ebbe soprattutto due effetti: innanzitutto venivano identificati sempre più, loro malgrado (anzi, nella loro più totale indifferenza), con la scena gotica. In seguito, tutti questi mesi di inverno inglese, concerti succhia-energia ed eroina li avevano definitivamente esauriti.
Fu così che, dopo l’uscita di The Birthday Party, i cinque ex Boys Next Door fecero ritorno nella nativa Melbourne (ovviamente in Australia) per tirare un po’ il fiato. E qui notarono una cosa che, oltre a lusingarli un minimo, li fece anche parecchio incazzare: improvvisamente tutti li amavano, i loro fan si erano incredibilmente moltiplicati. Allora è vero che quella australiana era una scena ancora molto provinciale! In patria non erano riusciti ad emergere, ma con l’emigrazione divennero dei miti dalla lontana “capitale” Londra.
A ciò si aggiungeva il fatto che Keith Glass, nel frattempo, aveva pubblicato il nuovo Ep con il loro vecchio moniker (cioè Boys Next Door), senza nessuna autorizzazione, né sull’uso del nome sé sul cambiamento di copertina. Questo ovviamente fece esplodere una lite, ma i ragazzi dovettero anche darsi una calmata: non potevano inimicarsi l'unico benefattore, colui che aveva sempre creduto in loro ed ancora continuava a sostenerli. Nuova rabbia e nuove frustrazioni, quindi, ma anche nuovi concerti ed una nuova sicurezza sulla propria strada e sui propri mezzi. Con queste basi, oltre che con le immancabili droghe, i cinque si rinchiusero in sala d’incisione, sempre con Tony Cohen, a Melbourne. La festa di compleanno era cominciata e adesso doveva continuare. Ma come? Spingendo sul pedale dell’eccesso, ovviamente.
Nel mese di marzo del 1981 (ma in Inghilterra fu in aprile) uscì il primo vero e proprio Lp dei Birthday Party, l’ormai classico Prayers on Fire. Sulla copertina una loro immagine live mossa, che ripete un effetto già visto su Kaleidoscope di Siouxsie & the Banshees, sul retro il disegno in rosso, tra il macabro ed il buffo, di un teschio-polipo. Selvaggio e tribale quanto mai, iniziava Phil Calvert con le trascinanti percussioni di Zoo-Music Girl, un organo di sottofondo (Harvey) e la chitarra acida di Howard. Cave era ripetitivo, aspro e crudele, oltre che decisamente triviale. Entrano le trombe, l’orgia esplode e con essa le imprecazioni. Ipnotica, sgangherata e selvaggia, Zoo-Music Girl sarà una loro pietra miliare, sebbene forse amata più da loro stessi che dai fan.
Ma il ritmo rimane sostenuto per uno dei loro capolavori irresistibili: Cry, col verso ripetuto «no fish can swim». Un brano segnato dalle scale discendenti di chitarra e dal ritmo serrato, con intermezzo rallentato/sonico e finale catartico/gridato/esplosivo (ed assurdo: Cave gridava «fish cry!!»). Poi cambia tutto: la musica si fa paradosso e diventa quasi un’imitazione di ministrel-show. Si tratta dell’assurda Capers, con chitarre stridule a ritmo di cabaret e Cave che canta in una tonalità grottescamente bassa un testo pieno di neologismi. Un cabaret dell’orrido, da rimanere perplessi. Così vicino eppure così lontano dai Virgin Prunes…
I Birthday Party tornano ad ottimi livelli con il brano successivo: il capolavoro autobiografico (o autoparodistico) Nick the Stripper. Uno sputo, la chitarra in arpeggio, basso enorme che entra devastante. «Insect» ripete Cave, su una ritmica potente sulla quale entra una sezione di fiati a dir poco straniante. Nick lo squartatore è nascosto all’occhio, perché «fat little insect», ma il giro cambia ed il brano si arrota su se stesso, fino a tornare alla strofa. È la variante a creare quest’effetto che trascina e spiazza e ad introdurre il caratteristico pseudo-assolo di chitarra nella parte centrale del brano. Sezione ritmica pesante (su ritmo “stomp”), urla gutturali di Cave, o al limite testo nonsense, una chitarra in arpeggio e l’altra in fraseggio, sezione d’archi quasi classica e variante straziante. Tre minuti e 50 di capolavoro.
Molto bella anche la successiva Ho-Ho, una canzone che dava ragione a chi sosteneva che i Birthday fossero un gruppo gotico. Batteria lenta e percussiva, chitarra in arpeggio, voce bassa e quasi cavernosa (non di Nick, stavolta, ma di Rowland S. Howard). L’effetto è decisamente gotico, sebbene di un loro particolare ed originalissimo gotico, se non fosse per quel ritornello che faceva quasi coro di ubriachi. In effetti la canzone fu scritta da Genevieve McGuckin, la fidanzata di Howard. Con la successiva Figure of Fun si riprendevano i temi cari ai cinque ragazzi: tempo febbrile, chitarre lancinanti, urla gutturali, arricchite stavolta dallo stacchetto al rullante di Calvert ogni volta che veniva ripetuto il titolo. Il finale, manco a dirlo, è un indistinguibile delirio. L’effetto lascia attonito l’ascoltatore che, perplesso, volta il disco.
Purtroppo bisogna dire con onestà che il lato B non sarà all’altezza dell’a-side. Eppure comincerà con un altro dei loro capolavori assoluti: King Ink. Raschiamento di gola, ritmica pesantissima che ricorda molto (forse troppo) quella di Nick the Stripper. Come quello, il brano è lento ma potente, magmatico, con questo giro di Pew veramente ipnotico. Cave canta di questo personaggio terribile e poco definito, che tende ad identificarsi con un insetto (similmente a Nick the Stripper). King Ink, però, se possibile è ancora più trascinata e selvaggia, Cave ancora più straziato e gutturale, le sue urla informi culmineranno con il verso che forse più di tutti chiarisce la sua poetica: «Express yourself, say something loudly!» (esprimiti, grida qualcosa ad alta voce), seguito da grido devastante e liberatorio. Il terribile personaggio si rivela semplicemente (?) un matto rinchiuso in manicomio.
Segue la bella A Dead Song, dalla ritmica sostenuta e molto tribale (seppur con parecchie pause), che però purtroppo tende a risolversi in qualcosa di già sentito, per i deliri quasi parlati di Nick Cave. Finale loro solito. Con Yard la ritmica torna bassa e pesante. Un sassofono lontano ulula. Anche la voce è remota, un lamento lontano (prima di esplodere nelle grida disarticolate e melodrammatiche del nostro). Il testo è leggermente inquietante, anche se ancora nonsense. Un brano molto notturno, sebbene purtroppo sappia ancora di irrisolto. Ne recupereranno la ritmica, l'anno dopo, per comporre un capolavoro (She's Hit).
La successiva Dull Day sveglia decisamente fuori, con ritmica vispa e bel pianoforte. È la storia sghemba di uno che non sopporta la luce del giorno, forse un vampiro, col verso finale spiazzante «I’m drinking, I’m drunk». Nel finale torna la loro orgia sonora delirante. Molto bella, infine, l’ultima Just You and Me, di Mick Harvey. Viene recuperato il clima cabarettistico, sebbene in senso claustrofobico e di malattia mentale, con fiati marziali a scandire il tempo. Un brano obliquo ed inquietante, forse troppo breve, ma quasi in grado di nobilitare una b-side in tono un po’ minore.
A questo punto, di comune accordo, i cinque riconciliatisi con Glass decisero di far uscire un singolo, che risulterà essere la viscerale Nick the Stripper. Per promuovere il singolo c’era bisogno di un video e per girarlo organizzarono una grande festa collettiva nella desertica campagna australiana. Tra fan sbronzi e cameraman destinati a diventare famosi, Tracy Pew trovò molto buffo mettersi in testa un cappello da cow-boy. In effetti vedere la sua massiccia figura sempre un po’ stonata oscillare pericolosamente, vestito con una maglietta a rete e con sopra un copricapo simile, più che buffo sembrava tra l’inquietante ed il grottesco. Questa cappello da cow-boy sarà da allora il suo marchio di fabbrica. Se è per questo, anche Cave pensò bene di distinguersi indossando una maglietta con scritto "porca dio" (sì, con l'errore). Fortunatamente il buon senso (o il buon gusto?) impedì che anch'essa divenisse marchio di fabbrica.
Per tornare al singolo, sul retro furono inserite due canzoni inedite. La prima, Blundertown, nonostante il bell’avvio di piano, è un loro minore. Tuttavia l’atmosfera western ed il ritornello melodico, epico e, diciamolo, cinematografico, la renderanno un esperimento interessante. Più assurda e nel contempo più inquietante sarà l’altra, Kathy’s Kisses. Un inizio stonato per pianola e sax acuto, un ritmo sghembo e vaudeville, un testo veramente assurdo. Una sola frase ripetuta con fare sempre più disperato, che tradotta suona così: «i baci di Kathy, cadono fuori dalla sua bocca, sul pavimento, raccogli la polvere e spazzali sotto la porta». Insomma, una filastrocca dell’allucinazione. Entrambi i brani saranno raccolti nell'edizione su Cd di Prayers on Fire.

Tornati in Inghilterra i Birthday Party vollero sputare l’album addosso a quel paese che li aveva derisi (e/o ignorati), insieme con un carico di insulti e minacce, come si erano allenati a fare in Australia. Anche l’atteggiamento di Nick non fu mai così negativo ed ostile nei confronti di pubblico e stampa. Eppure dovettero rimanere sorpresi anche in questo caso. L’Inghilterra, infatti, si stava rivelando provinciale quasi quanto l’Australia.
Dopotutto i cinque venivano da lontano e con loro portavano un bellissimo album, corredato da un ottimo video che illustrava un brano veramente interessante. Carino, poi, questo loro atteggiamento riottoso, fa perfettamente pendent con questo loro genere nuovissimo… come si chiamava? Ah, swamp-punk, molto pittoresco!
Insomma, anche in Inghilterra, da reietti erano diventati divi.

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