3.7 Tuxedomoon – Desire

Fu così che, dopo l’uscita di Dark Companion, forse l’ultima canzone veramente dark del loro repertorio, i Tuxedomoon volarono a Londra a continuare la loro carriera in quello che sembrava il più naturale dei modi: gruppo gotico nella città della musica gotica per eccellenza. Loro erano nella formazione più classica e più amata dai fan: oltre ai due leader Steven Brown e Blaine L. Reininger (cantante/tastierista/sassofonista il primo e violinista/chitarrista il secondo), c’erano l’ipnotico basso di Peter Principle e la preziosa voce del performer d’origine cinese Winston Tong, finalmente tornato in pianta stabile.
Una lunga tournèe in Belgio, Olanda e Germania, oltre a qualche ovvia data a Londra, fu l’entusiasmante biglietto da visita del gruppo in Europa. Servì anche come necessaria preparazione per la registrazione del nuovo album, supportati dal loro grande fan John Foxx e con Gareth Jones al mixer, per la Pre Records. Le sessioni di registrazione furono interrotte una sola volta, per una fuggitiva data a Bologna nel novembre dell’80. Da allora nel gruppo nacque un amore incondizionato per il Bel Paese, che prosegue indisturbato fino al giorno d’oggi. Anzi, la calorosissima accoglienza che il gruppo ebbe non solo in Italia ma nel continente in generale, fece loro vedere la fredda e decadente Londra da un punto di vista molto diverso.
Tuttavia con l’anno nuovo uscì il nuovo Lp, Desire, ed il coro fu unanime: al capolavoro!
Ora… chi scrive non vuole negare l’estrema bellezza di quest’opera. Anzi, si può tranquillamente affermare che la coppia Half Mute / Desire costituisca probabilmente il vertice dell’arte dei Tuxedomoon, soprattutto dal punto di vista di un amante della goth-wave. Tuttavia questo nuovo lavoro, per chi ha amato il loro primo imperdibile album, non può non suonare molto più convenzionale, ed in più punti quasi ruffiano, definendo un’opera che si configura quasi all’opposto del titolo precedente. Sin dalla copertina: fredda ed intellettuale (pur con colori “caldi”) quella, così incentrata sull’alienazione; calda e sensuale (sia pur con colori “freddi”) questa, erotica quasi, nel suo modo di velare un’anatomia umana (un addome ed una gamba, forse maschili, sebbene non se ne distingua il sesso. Si sta parlando della più famosa copertina belga, quella della ri-edizione a cura della Crammed discs nel 1984). Così i suoni: sgraziati, ruvidi in quel disco, molto più morbidi ed accessibili in questo. Infine le canzoni stesse: monumento al vuoto in quell’occasione (addirittura Fifth Column è stata presentata nella versione non cantata, sembrando così uno strumentale), “piene” e ben arrangiate, quindi più convenzionali in questa.
Ciò che comunque ha fatto la gloria di Desire fu lo stato di grazia dei musicisti, ispirati come poche volte capita nella storia del rock. Si comincia con una lunga suite (un quarto d’ora) in quattro movimenti: East, Jinx, (proprio così: tre puntini di sospensione!) e Music #1. In effetti l’introduzione alla prima parte, lo strumentale East, sembra presa pari pari da Half Mute: un violino lontanissimo su un lungo e lento giro di accordi, quasi un tappeto remoto, nebbioso, funereo. Giro ipnotico di basso a sovrapporsi. Dopo un minuto e mezzo una tastiera enorme prepara la strada armonica ad un sassofono triste ed introverso quanto mai. Poi la percussione sintetica cambia il ritmo, seguita da basso e tastiera. Il violino adesso è presente e contappuntato da un violoncello, a comporre una melodia quasi balcanica: si tratta di Jinx, canzone bellissima, romantica, triste e, diciamolo, apotropaica. Ritmo vivace, sassofono e violino ad intrecciarsi, voce di Tong in tono dimesso, un capolavoro di classe e contrasti, insomma. Quando Jinx sfuma entra il terzo movimento, , una dissonanza per archi ed effetti elettronici, un terreno psicologico su cui innestare Music #1, altra cacofonia elettro-ipnotica. Qui i due leader danno sfoggio di ciò che hanno imparato nei loro corsi di musica elettronica, con effettacci, rumori e synth in libertà.
In effetti, arrivati a questo punto, il disco non appare né tanto dissimile né più accessibile del suo predecessore. Sarà la successiva Victims of the Dance a ridare alle composizioni quella morbidezza del resto preannunciata con Jinx. Si tratta di uno stranissimo pezzo scandito dal basso in scala discendente di Principle a supportare una strofa parlata, interrotta poi dallo scambio con una tastiera scherzosa. Il ritornello però si inserisce in modo più tradizionale con un cantato tragicomico e quasi grottesco sulle “vittime della danza” (il contrasto con le creature della notte è stridente). Un brano veramente assurdo, con le parole finali che recitano «just like Cassandra».
Poi, sorpresa: la drum machine entra danzereccia e ruffiana. Si tratta di Incubus (Blue Suit), un ballabile epico e scatenato, con vorticosi e trascinantissimi stacchi centrali di chitarra e tastiera sovrapposti. Un brano da discoteca, forse, ma bello e tragico come pochi ce ne sono stati. L’incubo surreale di un uomo venuto dal futuro che dà un’arma potentissima ad uno del nostro tempo, il quale si diverte a distruggere tutto. Subito a seguire il capolavoro Desire, la title-track dall’ingresso sintetico e percussivo. Un altro ballabile, meno scatenato ma ancora più stylée e raffinato, fino al ritornello delirante e scomposto «don’t think, go buy». Un capolavoro trascinante sui feticci moderni, sul consumismo, sulla frustrazione, con un verso immortale: «live a thousand lives by picture» (vivi mille vite in fotografia) a chiudere come un delirio ripetuto e trasognato, nella sua ossessività.
Poi tornano gli effetti elettronici già sentiti in brani come Midnight Stroll, ma qui utilizzati a far da sfondo ad una melodia vocale tristissima, quasi straziante. Sì tratta di Again, capolavoro di depressione cosmica che nulla ha da invidiare a maestri come i Joy Division o, prima di loro, Nick Drake e Leonard Cohen, per accompagnamento di suoni sintetici, tastiera, piano discendente e sassofono straziante. Ma le tastiere in chiusura vengono rallentate e distorte, fino al dissolvimento del brano nel nulla. Una breve pausa ed ecco un intro maestoso di tastiere e sassofono, con quest’ultimo sempre mesto, malinconico. Tong recita «what suffering, in the name of love» e fa capolino la chitarra: il brano esplode con una ritmica sintetica scatenata. Si tratta di In the Name of Talent (Italian Western Two) (sebbene non se ne conosca un “one”), un altro dei loro brani allegri ma epici, ballabili ma drammatici. Il sacrificio di chi vive per il suo talento, ma va inevitabilmente incontro alla sconfitta, con tanto di verso melodrammatico in italiano cantato in sottofondo sul finale: «non solo per il sesso, ma anche per l’amore». Un brano immortale che fa coppia con la title-track.
Poi degli archi pizzicati in una melodia da film: è la finale semi-strumentale Holiday for Plywood. Gli archi sono spezzati da basso e drum machine, un sax di sottofondo, poi la sezione d’archi entra completa e molto tradizionale. La voce è profonda e quasi indistinguibile, beffarda su una melodia che non si capisce se hollywoodiana o piuttosto disneyana. Un altro brano demenziale, dell’assurdo, dove le tastiere più sperimentali ed il basso più ossessivo si fondono armonicamente con la sezione d’archi, in un improbabile ma riuscitissimo matrimonio fra sperimentazione oltranzista e tradizione becera, il tutto sempre più allegro, sempre più scomposto e dissonante. Il finale interrompe con la melodia “pizzicata” iniziale.

Desire doveva presentare all’Europa un gruppo di emeriti sconosciuti (fuori dall’underground più attento), ed in questo senso è un capolavoro perfettamente riuscito. Ciò che in Half Mute era alienazione qui è tristezza, ciò che lì era ossessione e paranoia, qui è senso dell’assurdo. Più leggero, più spiritoso, quindi, sebbene il pessimismo più nero non manchi, e anche più tradizionale, d'una tradizione che si rifaceva ai Roxy Music più epici e disperati. Da un certo punto di vista questo disco li mantiene, quindi, vicini ad una certa scena dark-punk, ma in modo quasi artificiale, opportunistico. Dall’altra sarà un ulteriore passo verso una ricerca così evoluta ed originale da non essere più confrontabile con quello che nel frattempo stava diventando il genere gotico.
Non sarà casuale, infatti, il repentino abbandono di Londra da parte di un gruppo che, in effetti, con quella città aveva poco o niente a che fare. Tra lunghe tournèe, diversi pentimenti, occasionali ritorni a San Francisco o New York, i Tuxedomoon si stabilirono infine in Olanda, a Rotterdam, in una vecchia torre idrica, un acquedotto abbandonato chiamato Utopia dalla comune che lo abitava. Fu qui che venne composta la Suite en Sous-Sol che però, a causa di un brutto incidente capitato a Blaine (fu investito da un’automobile, rompendosi un’anca e, soprattutto, le dita della mano destra), non fu pubblicata prima dell’anno dopo.
Di quest’anno, tuttavia, fa ancora parte un curioso episodio, avvenuto in aprile. La Pre Records andò su tutte le furie quando visionò il video promozionale di Jinx, impedendo de facto la sua distribuzione televisiva. I suoi dirigenti, infatti, consideravano il video troppo coinvolto (e quasi poco rispettoso) nei confronti degli scontri e proteste che in quel periodo avvenivano con gli H-Block nell’Irlanda del Nord. Inoltre Reininger imbrattato di fango sembrò decisamente insozzato di una sostanza meno “neutra”. Questo chiuse definitivamente i rapporti con l’Inghilterra. E permise loro di spiccare il volo, sì, ma dove purtroppo noi non dovremmo, o forse neanche potremmo, più seguirli.
Tuttavia il nostro amore per la loro arte, manco a dirlo, non ci impedirà di farlo.

 

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