3.6 Virgin Prunes – singoli

Mentre tutto ciò di cui si è scritto finora stava avvenendo, ben pochi fuori dall’Irlanda si accorgevano di che cosa ferocissima stava devastando quell’isola. Nati nel 1977 i Virgin Prunes più che un gruppo rock erano una comune artistica multimediale (derivata a sua volta da un’altra comune di Dublino, la Lypton Village), similmente ai Tuxedomoon delle origini, ed esattamente come loro per lo più composta da gay.
Il nome gergale Prunes era quello che a Dublino, o forse solo nella Lypton Village, si dava ai reietti, ai derelitti, ai rifiuti della società, che forse proprio per questo risultavano più puri, più vergini rispetto ad altri. Portabandiera del Teatro del Dolore di Artaud in terra d’Irlanda, la comune metteva in scena una sorta di teatro estremo, fatto di grida, violenza, sopraffazione e pazzia, il tutto trasfigurato nelle forme di un allucinante cabaret dadaista. Di certo un cabaret surreale, così feroce che spesso neanche i componenti della comune stessa riuscivano a resistere alla portata iconoclasta di messinscene fatte di sangue, danze tribali, riti pagani, esplosioni di bestialità. Veri e propri riti catartici. Col tempo dalla comune fuoriuscirono molti elementi (mentre altri ne entravano), come ad esempio Paul Hewson e David Evans. Questi ultimi, con i soprannomi di Bono Vox e The Edge, conosceranno in seguito un certo successo commerciale con il gruppo pop/new wave degli U2.
Certo, l’Irlanda rimaneva impietrita di fronte alle loro performance, ma fuori dall’isola verde non erano veramente conosciuti da nessuno. Dal momento che i loro ferocissimi spettacoli erano spesso accompagnati da colonne sonore fatte di rumori disarticolati e distorti, che tuttavia talvolta assumevano la forma di quasi-canzoni, la comune artistica decise di tentare l’avventura discografica per favorire la “fruibilità” degli spettacoli stessi. Uno di questi spettacoli simili a concerti fu recensito nel marzo dell’80, mese in cui i Virgin Prunes fecero una data in appoggio ai loro amici U2 alla Acklam Hall. Dave McCullough su Sounds, li descrive così: "in parte glam-rock, in parte punk-shock, in parte pura rabbia innovativa... una forma musicale falciante, simile ai Banshees ma meno posata, meno consapevole della propria carica innovativa ma stilisticamente disinibita”. Insomma, una serie di eufemismi.
Nel 1980, cioè a tre anni buoni dalla loro formazione, tre anni fatti di sudore, tournée e spettacoli, gli elementi che si potevano distinguere erano sei: il chitarrista Dik (ovvero Richard Evans, fratello del David “the Edge” di cui sopra), il bassista Strongman (vero nome Trevor Rowan) ed il batterista Pod; a questi “musicisti” (in realtà rumoristi) si aggiungevano i tre cantanti/urlatori/performer Dave-id “Busaras” Scott (il paranoico, il minorato mentale, effettivamente affetto da meningite negli anni dell’infanzia), Guggi (la donna pazza, il bambino violato, vero nome Derek Rowan, fratello di Trevor “Strongman”) e Gavin Friday, dei tre il vero leader carismatico, capace di una voce che dalla più delirante follia arrivava ad un baritono melodrammatico come pochi.
Ovviamente nessuno voleva saperne di mettere su vinile le loro grida sguaiate ed inarticolate, i loro vagiti infantili e spettrali, ed il sordo rumore che li accompagnava. Fu così che, autofinanziatisi anche grazie alle entrate delle loro performance, i sei pazzi scriteriati fondarono una loro etichetta discografica personale: la Baby Records. La prima uscita sconcertante di quest’etichetta improvvisata (che tuttavia poteva contare su di un’efficientissima rete distributiva underground, nata in seguito alla “rivoluzione” del punk) vide la luce nel dicembre del 1980 sotto forma di un Ep a 45 giri quantomeno improbabile, tuttavia dotato di gustosissima copertina tra il bucolico e il fiabesco: sul lato A c’erano Twenty Tens e Revenge, mentre sul B l’allucinante The Children are Crying e …Greylight.
Sicuramente il brano migliore fu il primo, il cui titolo intero era Twenty Tens (I’ve been Smoking All Night Long): un post-punk patafisico ed esagitato, introdotto splendidamente dal basso di Strongman, poi devastato dalle tremende voci dei tre cantanti. Punteggiato di pause e scale discendenti di chitarra, di rullate folli della batteria di Pod, il brano riprendeva tra le grida di Guggi e Gavin Friday, per interrompersi bruscamente a neanche due minuti e mezzo. Tenebrosissimo, poi, l’incipit di Revenge, con tanto di voci e risate registrate al contrario, dall’effetto satanico. Poi una chitarrina malata, su una percussione da tenebra, fa da sfondo al canto lamentoso di Gavin, a comporre un brano che difficilmente avrebbe potuto essere più dark, con il verso «I’m hating myself», figlio tanto della depressione dei Joy Division quanto della follia di Fodderstompf dei PIL.
Un ritmo sintetico fa da intro a The Children are Crying, brano da lasciare perplessi. Sul ritmo della drum machine, Dik intreccia una melodia malata e spastica. Malata e spastica almeno quanto il canto di Dave-id «I hear the children crying, as they all die of fever», che segue fedelmente la linea melodica. L’effetto-unione melodia deficiente / voce demente diviene presto quasi insopportabile, in un esperimento psico-sonico che i Virgin Prunes assumeranno spesso nelle loro esagitate esplorazioni di stati mentali ai limiti della malattia. Cinque minuti e dieci secondi di follia delirante in puro stile Dave-id Busaras. Al confronto gli esperimenti rumoristi e percussivi dell’ultima …Greylight sono quasi una benvenuta pausa rilassante. Notevole, comunque, l’effetto delle voci distorte sul solenne tappeto di tastiere.
Portatori di quel filo rosso della follia così goticamente messo in musica dai Van der Graaf Generator, nelle tematiche i Virgin Prunes sono più figli dei PIL che di qualunque altro artista dark o new wave, Joy Division e Tuxedomoon compresi, per la loro attenzione stralunata nei confronti degli stati alterati e patologici della mente, benché interpretati in modo tanto originale quanto quasi indigesto. Saranno una delle sorprese più sconvolgenti di questa stagione 1980-81, nonostante il fatto che esistessero già da tempo, infatti meritano appieno il titolo di appartenenti alla primissima generazione dark. Per dimostrarlo i sei pazzi trovarono finalmente una vera casa discografica, la Rough Trade, e chiusero la stagione con un’opera che, in effetti, era la riedizione di loro vecchi brani.
Uscito nel luglio dell’81 il loro secondo singolo presentava sull’a-side Moments and Mine (Despite Straight Lines) che cominciava con una continua percussione come di latta, con voci trattate di sottofondo e una chitarra che sussurra fraseggi. Un incubo rumorista in cui, al secondo minuto, si inseriscono una chitarra ed un basso distorti ed il brano prende forma, impreziosito dalla graziosa scala di tastiera del nuovo entrante Haa-Laaka Bintii (nome che, tradotto dal gaelico e dallo swahili (?) suona “Regina della lacca per capelli”). Un brano veloce, scanzonato, a più voci, su un giro armonico semplice e piacevole. La cosa più orecchiabile offerta dai Virgin Prunes sino a quel momento.
Sul lato B, invece, l’apparente continuazione del discorso lasciato in sospeso sul singolo precedente: Into the Greylight, tuttavia, era un brano molto diverso da (anche perché, come già ricordato, filologicamente antecedente a) …Greylight. Dove là si trattava di un quasi strumentale per tappeto di tastiere, qui invece si ha a che fare con un altro brano post-punk veloce e disarticolato, basato su un fraseggio di chitarra sempre uguale, un drumming forsennato e le voci di Guggi e Gavin a sovrapporsi in modo psicotico e confusionario. Un pezzo insieme allucinato e feroce sulla pazzia, perfetta introduzione al successivo War, un frammento di due minuti, mesto, anzi tristissimo e decisamente paranoico, con giro sempre uguale di chitarra e canto/lamento di Dave-id Busaras. Insomma un brano che è sicuramente la radice malata di cose come Revenge e The Children are Crying. Da star male.

Di certo non prolificissimi, i Virgin Prunes esordirono in questa stagione con due singoli e sette brani. Alcuni strani, altri terribili, taluni trascinanti, tal’altri indigesti. Ma la loro era comunque una nuova idea di vedere il lato oscuro dell’animo umano, benché ora le tematiche (ma assolutamente NON le musiche) fossero ancora troppo simili a quelle affrontate dai PIL. Tuttavia, se questi ultimi mostravano la follia come bandiera del proprio dolore e del proprio stato di disadattati, qui l’accento è posto sulla violenza ed, assurdamente, su una reazione “religiosa”, quasi spirituale alla violenza stessa, che si configura in nuove forme di danza sfrenata, tribale e pagana.
Il loro cabaret assurdo e feroce, quindi, diventa meno estraneo e straniante. Diventa specchio canzonatorio della realtà che ci circonda, della normalità della sua violenza, della capillare diffusione del suo dolore. È la pazzia di tutti i giorni ad essere normale e queste “prugne vergini”, questi reietti, autoesclusi ed autoghettizzati della società, si limitano a celebrarne il lato sacro. Perché ogni visione folle ha qualcosa di profetico, in un rito orrido e parodistico, collettivo e sociale, che vedeva loro nel ruolo simbolico di vittime sacrificali.

 

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