3.4 Bauhaus – In the Flat Field

Chissà, probabilmente sono stati in molti a pensare che i Bauhaus fossero solo un fuoco di paglia. Esplosi dal nulla più di un anno prima, con l’incredibile Bela Lugosi is Dead, non riuscirono però a bissare un tale successo con i pur ottimi singoli successivi. La loro formula, poi, sembrava davvero troppo strana: ora reggae, ora boogie, ora impreziosita di eleganza dandy, ora infiammata di violenza punk, il tutto condito con massicce dosi di paranoia oscura che tanto li caratterizzava. Insomma, forse troppa carne al fuoco, ed il loro silenzio proseguiva ormai da prima dell’estate. Di certo il gruppo doveva dimostrare di valere sulla lunga distanza.
Nell’ottobre del 1980 uscì il loro primo album, In the Flat Field, per la 4AD, e fu il delirio.
Copertina nera, da nascondere ai genitori (forse per la prima volta, nella compassata Inghilterra, veniva mostrato un membro maschile su disco), un contenuto certo più nero della pece. Si comincia con la roboante chitarra di Double Dare, esattamente la stessa versione già ascoltata nelle John Peel sessions (“ne avevamo diverse versioni in studio, ma questa era in assoluto la migliore” avranno modo di dichiarare): prima scandita da una nota-tintinnio (di piano?), poi devastata da una batteria percussiva, dal brutale basso di David J, infine da una voce baritonale che dà una statura titanica, fino alla scala discendente dissonante. Il brano della perdizione: «I dare you to be proud!». Segue la title-track, su un tappeto percussivo trascinante, anche qui una chitarra allo spasmo, una sorta di voodoobilly epilettico ed epico, con “ritornello” gridato alla psicopatia: «I do get bored, I get bored, in the flat field!». E il demone si fa carne, si fa follia, con finale prima parlato poi urlato su coro lugubre. Inutili le parole, restano solo i brividi.
Finalmente le atmosfere sembrano rilassarsi, grazie all’arpeggio acido e sgangherato con cui comincia God in an Alcove, anch’essa già sentita da John Peel, ma qui presente nella versione studio: un boogie claustrofobico, con bridge contrappuntato di coretto beffardo e tiratissima coda sonico-devastante, prima della ricaduta finale. Meno sorprendente appare, in confronto, la successiva Dive, dove Daniel Ash sfoggia la sua abilità ad un sassofono quasi irriconoscibile, per un boogie à la T-Rex suonato in stile Bauhaus sui temi del suicidio kamikaze. Le atmosfere tornano torbide, e molto, per la successiva Spy in the Cab, un be-bop rallentato dove Peter Murphy comincia in tono sentimentale e dolente, per poi passare a epico, accompagnato da una chitarra torturata ed una sezione ritmica metronomica. Il brano diventa sempre più sofferto ma poi passa ad un distorto, sconvolgente crescendo, fino ad un desolato finale. Un riff chitarristico beffardo, la batteria di Kevin Haskins tappeto tribale, nugolo di voci registrate a confondere, comincia così la sarcastica Small Talk Stinks, un brano interessante soprattutto per l’orgia centrale di voci registrate, ma in effetti più un riempitivo che altro.
I Bauhaus riprendono a fare sul serio con il pesantissimo intro di batteria della successiva St Vitus Dance: la scatenata danza di un folle light jokey, tra pazzia e tarantolismo, fino alle finali grida inarticolate e gutturali, animalesche. Poi il silenzio. David J parte a scandire un riff di basso, i piatti di suo fratello segnano il tempo, poi la cassa, infine una chitarra, prima acidissima poi possente, anch’essa in riff. «In a crucifixation ecstasy» inizia il baritono più demoniaco della storia del rock, nella più delirante e nevrotica ode alle stimmate che si conosca: Stigmata Martyr. È una vera sarabanda demoniaca per chitarra e basso ed effetti sonici, in un ritmo dionisiaco, con blasfema invocazione della Trinità cristiana in latino, finita ovviamente in grido inarticolato e convulso.
L’ascoltatore ora è attonito, ma ancora regna il silenzio. I nervi si possono calmare, da lontano un rintocco di piano. Poi silenzio, poi un altro rintocco, rumore di oggetti metallici, una chitarra distorta. I rintocchi lontani, a morto, del pianoforte vengono infine sopraffatti dalla chitarra di Ash, circondata di echi e altri effetti, a introdurre un pezzo lento e magmatico, ma allucinantemente potente, soprattutto dopo l’ingresso deflagrante di Haskins. È Nerves, lungo delirio paranoico e a fior di pelle, l’ultimo brano del disco. La chitarra cede ancora il posto al pianoforte, ed il noto baritono luciferino si insinua fra le note. La nevrosi di Murphy è fredda e disincantata, ma presto la tensione prende il sopravvento e con essa esplode una cascata di suoni da piano e chitarra. L’atmosfera torna poi calma, ma la voce ora è più acuta e sardonica, una recita, una farsa. E i nervi esplodono ancora una volta e così il brano fra scariche soniche (sempre chitarra e piano), fino all’urlo ripetuto «nerves like nylon, nerves like steel!», sempre più epico e disperato, e poi un altro, esausto svuotamento. La consapevolezza prende fiato, ma è soltanto «sense of serenity shattered in the glint of splintered glass» (senso di serenità frantumato in un bagliore di vetro infranto), infatti poi il prezzo riprende potenza, il verso che prima era urlo si ripete ancora, sempre più veloce, sempre più febbrile, sempre più delirante, fino al brusco finale. Un brano senza tempo, dove la nevrosi è viva e onomatopeica, dove la complessa struttura fa pensare ad un’opera progressive, ma i riff la strappano via da Peter Hammill per darla a Marc Bolan, peccato che su entrambi vegli un diabolico e beffardo Peter Murphy, oltre ad un esagitato Daniel Ash.
Alla sua uscita In the Flat Field fu un vero e proprio evento, per il neonato genere dark, certo, ma anche per la storia del rock nel suo complesso. Eppure l’album fu stroncato da Dave McCullough su Sounds, così: “C’è un cantante che scrive brutta poesia (…) ed una band dietro di lui messa insieme per scambiare la versione doposcuola dei Joy Division con i Mountain (gruppo americano di robusto hard rock psichedelico, ndt)”. Anche il New Musical Express (NME) non fu tenero con loro; Andy Gill definì il disco “doom for doom’s sake” (più o meno traducibile come “dannazione/oscurità per amore della dannazione/oscurità”). Era ovvio che la critica storcesse il naso, dopotutto è anche il suo mestiere: li accusarono di troppe indulgenze tenebrose, di troppa autocompiacenza esoterica (neanche fossero i Black Sabbath o i Blue Öyster Cult), senza capire di essere di fronte ad un nuovo genere; anzi, ai re di un genere già nato, ma che appunto aveva un assoluto bisogno di simili campioni per affermarsi definitivamente.
E contemporaneamente all’Lp i Bauhaus fecero uscire un singolo-bomba (puntualmente stroncato dal “genio” Andy Gill, su Sounds questa volta): sul lato A la celebre (e già sentita) cover dei T-Rex Telegram Sam, nella loro versione più tirata e demoniaca. Come sorprendente contrasto però, sul lato B una dolcissima e disperata Crowds, un altro loro capolavoro assoluto. Si tratta di uno slow depresso per piano e voce, melodico ma derelitto, introverso ma con grido liberatorio finale, in un’altalena di stati d’animo, dove Murphy dà un ritratto di se stesso che ha dello straziante. Il singolo sarà poi rieditato in formato 12” nel mese di novembre, con l’aggiunta del potente e minaccioso Rosegarden Funeral of Sores, un’altra cover, di John Cale stavolta (quello dei Velvet Underground, certo, non è forse vero che tutto torna?). Ma con la sorprendente capacità di risultare geniali e non banali anche nel formato lento e melodico, i quattro avevano pienamente dimostrato al mondo il loro valore.

“Il re è morto, viva il re”, tradizionalmente si dice. Ian Curtis era dolorosamente scomparso. Pochi mesi dopo ecco Peter Murphy che ne prendeva il posto.
Avrebbero potuto lasciare perplessi, al limite, le successive mosse del quartetto: inebriati dal successo (ora anche americano) i Bauhaus passarono dalla consociata 4AD alla più forte Beggars Banquet e con essa pubblicarono un singolo decisamente molto più dance (e forse più ruffiano): Kick in the Eye / Satori, uscito nel mese di marzo dell’81. Ma neanche in questo caso sarebbe giusto parlare di tradimento: il brano è potente, un reggae trascinante e serrato, la voce melodrammatica come solo lui sa fare (con buona pace di Abbo degli UK Decay). Semplicemente a cosa serve essere il re di una scena se non si è presenti anche nelle discoteche underground della scena stessa? Non è stata una scelta, ma quasi un obbligo.
E dopotutto… noblesse oblige!

 

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