Chissà, probabilmente sono
stati in molti a pensare che i Bauhaus fossero solo un fuoco di paglia.
Esplosi dal nulla più di un anno prima, con lincredibile Bela
Lugosi is Dead, non riuscirono però a bissare un tale successo
con i pur ottimi singoli successivi. La loro formula, poi, sembrava
davvero troppo strana: ora reggae, ora boogie, ora impreziosita di
eleganza dandy, ora infiammata di violenza punk, il tutto condito
con massicce dosi di paranoia oscura che tanto li caratterizzava.
Insomma, forse troppa carne al fuoco, ed il loro silenzio proseguiva
ormai da prima dellestate. Di certo il gruppo doveva dimostrare
di valere sulla lunga distanza.
Nellottobre del 1980 uscì il loro primo album, In the Flat
Field, per la 4AD, e fu il delirio.
Copertina nera, da nascondere ai genitori (forse per la prima volta,
nella compassata Inghilterra, veniva mostrato un membro maschile su
disco), un contenuto certo più nero della pece. Si comincia con la
roboante chitarra di Double Dare, esattamente la stessa versione
già ascoltata nelle John Peel sessions (ne avevamo diverse versioni
in studio, ma questa era in assoluto la migliore avranno modo
di dichiarare): prima scandita da una nota-tintinnio (di piano?),
poi devastata da una batteria percussiva, dal brutale basso di David
J, infine da una voce baritonale che dà una statura titanica, fino
alla scala discendente dissonante. Il brano della perdizione: «I dare
you to be proud!». Segue la title-track, su un tappeto percussivo
trascinante, anche qui una chitarra allo spasmo, una sorta di voodoobilly
epilettico ed epico, con ritornello gridato alla psicopatia:
«I do get bored, I get bored, in the flat field!». E il demone si
fa carne, si fa follia, con finale prima parlato poi urlato su coro
lugubre. Inutili le parole, restano solo i brividi.
Finalmente
le atmosfere sembrano rilassarsi, grazie allarpeggio acido e
sgangherato con cui comincia God in an Alcove, anchessa
già sentita da John Peel, ma qui presente nella versione studio: un
boogie claustrofobico, con bridge contrappuntato di coretto beffardo
e tiratissima coda sonico-devastante, prima della ricaduta finale.
Meno sorprendente appare, in confronto, la successiva Dive,
dove Daniel Ash sfoggia la sua abilità ad un sassofono quasi irriconoscibile,
per un boogie à la T-Rex suonato in stile Bauhaus sui temi del suicidio
kamikaze. Le atmosfere tornano torbide, e molto, per la successiva
Spy in the Cab, un be-bop rallentato dove Peter Murphy comincia
in tono sentimentale e dolente, per poi passare a epico, accompagnato
da una chitarra torturata ed una sezione ritmica metronomica. Il brano
diventa sempre più sofferto ma poi passa ad un distorto, sconvolgente
crescendo, fino ad un desolato finale. Un riff chitarristico beffardo,
la batteria di Kevin Haskins tappeto tribale, nugolo di voci registrate
a confondere, comincia così la sarcastica Small Talk Stinks,
un brano interessante soprattutto per lorgia centrale di voci
registrate, ma in effetti più un riempitivo che altro.
I Bauhaus riprendono a fare sul serio con il pesantissimo intro di
batteria della successiva St Vitus Dance: la scatenata danza
di un folle light jokey, tra pazzia e tarantolismo, fino alle finali
grida inarticolate e gutturali, animalesche. Poi il silenzio. David
J parte a scandire un riff di basso, i piatti di suo fratello segnano
il tempo, poi la cassa, infine una chitarra, prima acidissima poi
possente, anchessa in riff. «In a crucifixation ecstasy» inizia
il baritono più demoniaco della storia del rock, nella più delirante
e nevrotica ode alle stimmate che si conosca: Stigmata Martyr.
È una vera sarabanda demoniaca per chitarra e basso ed effetti sonici,
in un ritmo dionisiaco, con blasfema invocazione della Trinità cristiana
in latino, finita ovviamente in grido inarticolato e convulso.
Lascoltatore
ora è attonito, ma ancora regna il silenzio. I nervi si possono calmare,
da lontano un rintocco di piano. Poi silenzio, poi un altro rintocco,
rumore di oggetti metallici, una chitarra distorta. I rintocchi lontani,
a morto, del pianoforte vengono infine sopraffatti dalla chitarra
di Ash, circondata di echi e altri effetti, a introdurre un pezzo
lento e magmatico, ma allucinantemente potente, soprattutto dopo lingresso
deflagrante di Haskins. È Nerves, lungo delirio paranoico e
a fior di pelle, lultimo brano del disco. La chitarra cede ancora
il posto al pianoforte, ed il noto baritono luciferino si insinua
fra le note. La nevrosi di Murphy è fredda e disincantata, ma presto
la tensione prende il sopravvento e con essa esplode una cascata di
suoni da piano e chitarra. Latmosfera torna poi calma, ma la
voce ora è più acuta e sardonica, una recita, una farsa. E i nervi
esplodono ancora una volta e così il brano fra scariche soniche (sempre
chitarra e piano), fino allurlo ripetuto «nerves like nylon,
nerves like steel!», sempre più epico e disperato, e poi un altro,
esausto svuotamento. La consapevolezza prende fiato, ma è soltanto
«sense of serenity shattered in the glint of splintered glass» (senso
di serenità frantumato in un bagliore di vetro infranto), infatti
poi il prezzo riprende potenza, il verso che prima era urlo si ripete
ancora, sempre più veloce, sempre più febbrile, sempre più delirante,
fino al brusco finale. Un brano senza tempo, dove la nevrosi è viva
e onomatopeica, dove la complessa struttura fa pensare ad unopera
progressive, ma i riff la strappano via da Peter Hammill per darla
a Marc Bolan, peccato che su entrambi vegli un diabolico e beffardo
Peter Murphy, oltre ad un esagitato Daniel Ash.
Alla sua uscita In the Flat Field fu un vero e proprio evento,
per il neonato genere dark, certo, ma anche per la storia del rock
nel suo complesso. Eppure lalbum fu stroncato da Dave McCullough
su Sounds, così: Cè un cantante che scrive brutta poesia
(
) ed una band dietro di lui messa insieme per scambiare la
versione doposcuola dei Joy Division con i Mountain (gruppo americano
di robusto hard rock psichedelico, ndt). Anche il New
Musical Express (NME) non fu tenero con loro; Andy Gill definì il
disco doom for dooms sake (più o meno traducibile
come dannazione/oscurità per amore della dannazione/oscurità).
Era ovvio che la critica storcesse il naso, dopotutto è anche il suo
mestiere: li accusarono di troppe indulgenze tenebrose, di troppa
autocompiacenza esoterica (neanche fossero i Black Sabbath o i Blue
Öyster Cult), senza capire di essere di fronte ad un nuovo genere;
anzi, ai re di un genere già nato, ma che appunto aveva un assoluto
bisogno di simili campioni per affermarsi definitivamente.
E contemporaneamente allLp i Bauhaus fecero uscire un singolo-bomba
(puntualmente stroncato dal genio Andy Gill, su Sounds
questa volta): sul lato A la celebre (e già sentita) cover dei T-Rex
Telegram Sam, nella loro versione più tirata e demoniaca. Come
sorprendente contrasto però, sul lato B una dolcissima e disperata
Crowds, un altro loro capolavoro assoluto. Si tratta di uno
slow depresso per piano e voce, melodico ma derelitto, introverso
ma con grido liberatorio finale, in unaltalena di stati danimo,
dove Murphy dà un ritratto di se stesso che ha dello straziante. Il
singolo sarà poi rieditato in formato 12 nel mese di novembre,
con laggiunta del potente e minaccioso Rosegarden Funeral
of Sores, unaltra cover, di John Cale stavolta (quello dei
Velvet Underground, certo, non è forse vero che tutto torna?). Ma
con la sorprendente capacità di risultare geniali e non banali anche
nel formato lento e melodico, i quattro avevano pienamente dimostrato
al mondo il loro valore.
Il re è morto, viva
il re, tradizionalmente si dice. Ian Curtis era dolorosamente
scomparso. Pochi mesi dopo ecco Peter
Murphy che ne prendeva il posto.
Avrebbero potuto lasciare perplessi, al limite, le successive mosse
del quartetto: inebriati dal successo (ora anche americano) i Bauhaus
passarono dalla consociata 4AD alla più forte Beggars Banquet e con
essa pubblicarono un singolo decisamente molto più dance (e forse
più ruffiano): Kick in the Eye / Satori, uscito nel
mese di marzo dell81. Ma neanche in questo caso sarebbe giusto
parlare di tradimento: il brano è potente, un reggae trascinante e
serrato, la voce melodrammatica come solo lui sa fare (con buona pace
di Abbo degli UK Decay). Semplicemente a cosa serve essere il re di
una scena se non si è presenti anche nelle discoteche underground
della scena stessa? Non è stata una scelta, ma quasi un obbligo.
E dopotutto
noblesse oblige!
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