Nati come gruppuscolo di reggae post-punk non geniale (erano meglio
i Clash), votati al suicidio finanziario da una politica commerciale
scriteriata (autoproducevano, autodistribuivano ed autopromuovevano
i loro dischi), con il singolo Wardance i Killing Joke sembravano
aver imboccato una strada preoccupantemente precisa. Quella di un
rock sonico e tribale, ripetitivo e claustrofobico, impegnato socialmente
ma minaccioso fino alla nevrosi. Il successo straordinario del singolo
(edito dalla loro etichetta personale, la Malicious Damage) li portò
a stringere un accordo vantaggioso con la EG ed abbandonare definitivamente
la Island, che fino a quel momento si era rivelata costosa e non così
efficiente. Insomma, la politica intransigente del rissoso leader
Jaz Coleman stava dando i suoi frutti.
Il primo lo si vide (ed ascoltò) con la pubblicazione del singolo
successivo: Requiem/Change, uscito appunto per la EG
nel mese di settembre del 1980. Anche questo prodotto furibondo contribuì
a lanciare i Killing Joke nell’ambiente delle discoteche undreground
più estremiste ed intransigenti ed aprì la strada al loro omonimo
primo album uscito da lì a breve.
In effetti, sin dalla copertina, il disco mostrava un’aria inquietante:
rigorosamente in bianco e nero, paesaggi tetri, immagini di scontro
sociale in silhouette. Un synth su nota monocorde apriva il primo
brano, con successivo riff di chitarra di Geordie minaccioso ma basso.
Si tratta di Requiem, il mortifero singolo. Il ritmo è cadenzato
e marziale, fa il suo ingresso la voce di Coleman, disperata ma minacciosa.
Il brano prosegue, bandiera monocorde ed ipnotica di istanze sociali,
sorta di danza narcolettica, effettata, elettronica. Segue Wardance,
molto più potente e certo non meno minaccioso, il singolo precedente.
Il disco dice subito su che coordinate ci si muove: un rock pesante
ed oscuro, dalle ritmiche marziali, anche se spesso veloci (Ferguson
era un metronomo febbrile), cadenzato da un basso oppressivo (Youth
era un vero post-punk dell’angoscia) e caratterizzato dall’elettronica
di Coleman che faceva saggio uso degli esperimenti tedeschi degli
anni 70. A tratti infatti sembra di ascoltare i Faust più oscuri o
i Neu più ipnotici. La chitarra di Geordie dava sciabolate di strazio,
a comporre un sound forse non esattamente né dark né gotico, ma di
certo figlio del punk e comunque claustrofobico ed inquietante come
pochi. Uno stile unico, lo stile Killing Joke.
Il terzo brano, devastantemente aperto dalla batteria di Ferguson,
era un terzo capolavoro: Tomorrow’s World dava inquietanti
scorci sul futuro aiutato da una chitarra sadica, un basso incalzante
ed un’elettronica spiazzante su tre note a scandirne il tempo. Una
base pesante e serrata, una variante dico una: la struttura delle
canzoni dei Killing Joke era semplicissima, ma tanto unica risultava
l’atmosfera creata che non suonavano mai prevedibili o (addirittura)
noiose. Per non parlare di un altro loro effetto tipico, perfettamente
evidenziato nella successiva Bloodsport: la suspence tesa e
insoddisfatta. Il brano infatti si apre su una loro base tipica, cupamente
ballabile e minacciosa, senza voce questa volta. Una base ed una variante,
molto semplici nella struttura e nelle partiture, tanto che sembra
che da un momento all’altro succeda qualcosa, DEVE
succedere qualcosa. E la tensione cresce, aiutata anche da grida da
stadio, ma il brano rimane sempre uguale, creando un effetto snervante,
fino a spegnersi tra grida ed effetti chitarristici.
Non meno inquietante sarà l’inizio elettronico di The Wait,
un altro capolavoro: una chitarra alla Bauhaus fa il suo ingresso
seguita da un’irresistibile (e devastante) sezione ritmica. Brano
potente e scatenato, più metallico e pesante che ballabile, sarà anche
quello con i testi più significativi: «My (tiv's) changing / Day to
day / The fiery kisses / Fast decay / I look up the river / My firm
thoughts down / The block they've poisoned / Gotta sit tight» (“la
mia (TV) sta cambiando, giorno dopo giorno, i baci feroci, veloce
decadenza, e guardo il fiume, spenti i miei forti pensieri, il mattone
che hanno avvelenato, deve mantenere la propria posizione”). Durante
il “ritornello” (sarebbe più giusto dire la variante) l’atmosfera
si distende, il basso è in linea ascendente, la batteria abbandona
i tom per un battito continuo di rullante, mentre una voce affettata
ed eterea ripete il titolo del brano. La poetica di Coleman, che dipinge
un mondo crudele, non funzionale all’uomo ed in perenne decadenza,
è ancora più chiara nel secondo verso: «Odd awakening / The silence
grows / Screams outside / Distortion shows / New jump force / Bad
bad billys / It's just another vine / Of distorted greed» (“brutto
risveglio, il silenzio cresce, urla di fuori, spettacolo di distorsione,
la forza di un nuovo salto, manganelli molto cattivi, è un’altra vigna,
di avidità distorta”), seguono pesanti e trascinanti distorsioni intrecciate
di chitarra e tastiera, poi il finale.
Un allegro basso (grazie Youth) riporta alla realtà l’ascoltatore
attonito. Si tratta di Complications, un post-punk certamente
in stile Killing Joke, ma più scanzonato, con bella melodia new wave,
come una boccata d’aria (e di normalità), sebbene abbellito dai preziosi
effetti elettronici di Coleman & co. Deve seguire qualcosa di
allucinante e mostruoso, è nell’aria. Una voce radiofonica tedesca
ed un effetto elettronico portano improvvisamente i Kraftwerk di Radioactivity
nel disco, ma presto la sezione ritmica di Youth e Ferguson ricrea
una bella atmosfera oppressiva. Si tratta di S.O. 36, titolo
enigmatico per un brano che rallenta i ritmi e proietta l’ascoltatore
in un ambiente da incubo per voci lontane ed effettate, mantenendo
sempre la struttura base/variante tipica loro, con un’inaspettata
accelerazione su quest’ultima (contenente il laconico verso “so dead”,
così morto). Un brano bellissimo, dall’atmosfera molto cupa e depressa,
forse la cosa più vicina al dark da loro composta fino a quel momento.
Scarica di batteria, poi un basso pompato, ripetitivo e pulsante (ricorda
da lontano i contemporanei Simple Minds, quelli di Empires and
Dance, disco con qualche punto di contatto con questo, sebbene
meno estremo), poi Geordie entra con una chitarra graffiante ma sempre
un po’ “sotto” (tipicamente dark), introducendo l’ultima Primitive:
un allucinante viaggio nell’involuzione della società umana. La voce
è sempre quella, angosciata ma appassionata, ricca di effetti, delay,
distorsioni. La variante è più complessa del solito, benché più breve,
in un assurdo funk dello straniamento. Alla seconda volta entrano
in gioco vocalizzi gutturali su tribali rullate di batteria, neanche
fossero i Boys Next Door di Nick Cave. Il finale è improvviso ed inaspettato.
Chiude un album forse un po’ troppo breve, ma quantomeno sconcertante.
Un album spietato e feroce, sebbene paradossalmente in più punti ballabile
(Wardance e Requiem saranno due must duri a morire nelle
discoteche alternative). Un album che ha dimostrato l’impossibile:
che rabbia e impegno politico erano perfettamente compatibili con
fantasia e contaminazione, che generi finora ritenuti incompatibili
(metal, funk, dub, elettronica) potevano armonizzarsi perfettamente,
che i generi più tosti del rock a venire (dal rumorismo alla techno)
avevano già una loro prima immagine, che un capolavoro assolutamente
nuovo ed inaspettato era nato in Inghilterra.
Purtroppo questo capolavoro fu il frutto di una combinazione irripetibile:
sarà uno dei dischi più influenti di tutti i tempi, ma paradossalmente
mai veramente imitato. Chi ad esso si ispirava, poteva comprenderne
solo una parte (più metallica, o più dark, o più dub), mai l’irripetibile
intero. Irripetibile, sempre e purtroppo, per i Killing Joke stessi.
Che nel frattempo si erano conquistati un ruolo di mito nel pantheon
del rock britannico e mondiale.
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