3.2 Killing Joke – Killing Joke

Nati come gruppuscolo di reggae post-punk non geniale (erano meglio i Clash), votati al suicidio finanziario da una politica commerciale scriteriata (autoproducevano, autodistribuivano ed autopromuovevano i loro dischi), con il singolo Wardance i Killing Joke sembravano aver imboccato una strada preoccupantemente precisa. Quella di un rock sonico e tribale, ripetitivo e claustrofobico, impegnato socialmente ma minaccioso fino alla nevrosi. Il successo straordinario del singolo (edito dalla loro etichetta personale, la Malicious Damage) li portò a stringere un accordo vantaggioso con la EG ed abbandonare definitivamente la Island, che fino a quel momento si era rivelata costosa e non così efficiente. Insomma, la politica intransigente del rissoso leader Jaz Coleman stava dando i suoi frutti.
Il primo lo si vide (ed ascoltò) con la pubblicazione del singolo successivo: Requiem/Change, uscito appunto per la EG nel mese di settembre del 1980. Anche questo prodotto furibondo contribuì a lanciare i Killing Joke nell’ambiente delle discoteche undreground più estremiste ed intransigenti ed aprì la strada al loro omonimo primo album uscito da lì a breve.
In effetti, sin dalla copertina, il disco mostrava un’aria inquietante: rigorosamente in bianco e nero, paesaggi tetri, immagini di scontro sociale in silhouette. Un synth su nota monocorde apriva il primo brano, con successivo riff di chitarra di Geordie minaccioso ma basso. Si tratta di Requiem, il mortifero singolo. Il ritmo è cadenzato e marziale, fa il suo ingresso la voce di Coleman, disperata ma minacciosa. Il brano prosegue, bandiera monocorde ed ipnotica di istanze sociali, sorta di danza narcolettica, effettata, elettronica. Segue Wardance, molto più potente e certo non meno minaccioso, il singolo precedente.
Il disco dice subito su che coordinate ci si muove: un rock pesante ed oscuro, dalle ritmiche marziali, anche se spesso veloci (Ferguson era un metronomo febbrile), cadenzato da un basso oppressivo (Youth era un vero post-punk dell’angoscia) e caratterizzato dall’elettronica di Coleman che faceva saggio uso degli esperimenti tedeschi degli anni 70. A tratti infatti sembra di ascoltare i Faust più oscuri o i Neu più ipnotici. La chitarra di Geordie dava sciabolate di strazio, a comporre un sound forse non esattamente né dark né gotico, ma di certo figlio del punk e comunque claustrofobico ed inquietante come pochi. Uno stile unico, lo stile Killing Joke.
Il terzo brano, devastantemente aperto dalla batteria di Ferguson, era un terzo capolavoro: Tomorrow’s World dava inquietanti scorci sul futuro aiutato da una chitarra sadica, un basso incalzante ed un’elettronica spiazzante su tre note a scandirne il tempo. Una base pesante e serrata, una variante dico una: la struttura delle canzoni dei Killing Joke era semplicissima, ma tanto unica risultava l’atmosfera creata che non suonavano mai prevedibili o (addirittura) noiose. Per non parlare di un altro loro effetto tipico, perfettamente evidenziato nella successiva Bloodsport: la suspence tesa e insoddisfatta. Il brano infatti si apre su una loro base tipica, cupamente ballabile e minacciosa, senza voce questa volta. Una base ed una variante, molto semplici nella struttura e nelle partiture, tanto che sembra che da un momento all’altro succeda qualcosa, DEVE succedere qualcosa. E la tensione cresce, aiutata anche da grida da stadio, ma il brano rimane sempre uguale, creando un effetto snervante, fino a spegnersi tra grida ed effetti chitarristici.
Non meno inquietante sarà l’inizio elettronico di The Wait, un altro capolavoro: una chitarra alla Bauhaus fa il suo ingresso seguita da un’irresistibile (e devastante) sezione ritmica. Brano potente e scatenato, più metallico e pesante che ballabile, sarà anche quello con i testi più significativi: «My (tiv's) changing / Day to day / The fiery kisses / Fast decay / I look up the river / My firm thoughts down / The block they've poisoned / Gotta sit tight» (“la mia (TV) sta cambiando, giorno dopo giorno, i baci feroci, veloce decadenza, e guardo il fiume, spenti i miei forti pensieri, il mattone che hanno avvelenato, deve mantenere la propria posizione”). Durante il “ritornello” (sarebbe più giusto dire la variante) l’atmosfera si distende, il basso è in linea ascendente, la batteria abbandona i tom per un battito continuo di rullante, mentre una voce affettata ed eterea ripete il titolo del brano. La poetica di Coleman, che dipinge un mondo crudele, non funzionale all’uomo ed in perenne decadenza, è ancora più chiara nel secondo verso: «Odd awakening / The silence grows / Screams outside / Distortion shows / New jump force / Bad bad billys / It's just another vine / Of distorted greed» (“brutto risveglio, il silenzio cresce, urla di fuori, spettacolo di distorsione, la forza di un nuovo salto, manganelli molto cattivi, è un’altra vigna, di avidità distorta”), seguono pesanti e trascinanti distorsioni intrecciate di chitarra e tastiera, poi il finale.
Un allegro basso (grazie Youth) riporta alla realtà l’ascoltatore attonito. Si tratta di Complications, un post-punk certamente in stile Killing Joke, ma più scanzonato, con bella melodia new wave, come una boccata d’aria (e di normalità), sebbene abbellito dai preziosi effetti elettronici di Coleman & co. Deve seguire qualcosa di allucinante e mostruoso, è nell’aria. Una voce radiofonica tedesca ed un effetto elettronico portano improvvisamente i Kraftwerk di Radioactivity nel disco, ma presto la sezione ritmica di Youth e Ferguson ricrea una bella atmosfera oppressiva. Si tratta di S.O. 36, titolo enigmatico per un brano che rallenta i ritmi e proietta l’ascoltatore in un ambiente da incubo per voci lontane ed effettate, mantenendo sempre la struttura base/variante tipica loro, con un’inaspettata accelerazione su quest’ultima (contenente il laconico verso “so dead”, così morto). Un brano bellissimo, dall’atmosfera molto cupa e depressa, forse la cosa più vicina al dark da loro composta fino a quel momento.
Scarica di batteria, poi un basso pompato, ripetitivo e pulsante (ricorda da lontano i contemporanei Simple Minds, quelli di Empires and Dance, disco con qualche punto di contatto con questo, sebbene meno estremo), poi Geordie entra con una chitarra graffiante ma sempre un po’ “sotto” (tipicamente dark), introducendo l’ultima Primitive: un allucinante viaggio nell’involuzione della società umana. La voce è sempre quella, angosciata ma appassionata, ricca di effetti, delay, distorsioni. La variante è più complessa del solito, benché più breve, in un assurdo funk dello straniamento. Alla seconda volta entrano in gioco vocalizzi gutturali su tribali rullate di batteria, neanche fossero i Boys Next Door di Nick Cave. Il finale è improvviso ed inaspettato.
Chiude un album forse un po’ troppo breve, ma quantomeno sconcertante. Un album spietato e feroce, sebbene paradossalmente in più punti ballabile (Wardance e Requiem saranno due must duri a morire nelle discoteche alternative). Un album che ha dimostrato l’impossibile: che rabbia e impegno politico erano perfettamente compatibili con fantasia e contaminazione, che generi finora ritenuti incompatibili (metal, funk, dub, elettronica) potevano armonizzarsi perfettamente, che i generi più tosti del rock a venire (dal rumorismo alla techno) avevano già una loro prima immagine, che un capolavoro assolutamente nuovo ed inaspettato era nato in Inghilterra.

Purtroppo questo capolavoro fu il frutto di una combinazione irripetibile: sarà uno dei dischi più influenti di tutti i tempi, ma paradossalmente mai veramente imitato. Chi ad esso si ispirava, poteva comprenderne solo una parte (più metallica, o più dark, o più dub), mai l’irripetibile intero. Irripetibile, sempre e purtroppo, per i Killing Joke stessi. Che nel frattempo si erano conquistati un ruolo di mito nel pantheon del rock britannico e mondiale.

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