3.3 Wire – AZ + Document and Eyewitness + exit

Fra tutti i gruppi di cui si è finora parlato, gli Wire sono stati senz’altro i più dotati. Tre Lp, tre record: con Pink Flag avevano innovato il punk, allargandone le prospettive; con Chairs Missing avevano fondato la new wave inglese (soprattutto quella più intelligente e determinata); con 154 avevano contribuito a delineare le sonorità del dark. Con il loro smisurato talento e la loro acuta intelligenza erano certamente destinati a dominare sulla scena musicale mondiale.
Eppure che qualcosa non stesse andando per il verso giusto era già emerso durante le registrazioni di 154. La EMI vedeva il gruppo come un indesiderato residuo della stagione punk, una presenza imbarazzante nel suo catalogo. Nella primavera del ‘79 era stata addirittura accusata dal British Market Research Bureau (palesemente avverso alla musica punk) di aver gonfiato le vendite del singolo Outdoor Miner.
Sempre più osteggiati dalla casa discografica, i quattro partiranno per una lunga tournée, che precederà di poco l’uscita di 154 (avvenuta, lo ricordiamo, nel mese di settembre 1979). Ma già durante le registrazioni del disco i quattro Wire avevano somatizzato le pressioni esterne, trasformandole in tensioni interne. Colin Newman (voce e chitarra) da un lato, Bruce Gilbert (chitarra) e Graham Lewis (basso) dall’altro, litigavano sempre più spesso sul suono da ricercare: pulito e con tastiere per il primo, sporco e cacofonico per i secondi. Al batterista Robert Gotobed l’arduo compito di paciere.
Purtroppo o per fortuna, all’uscita del disco l’aggressività da interna torna ad essere esterna: i quattro accusano apertamente la EMI di non promuovere adeguatamente un Lp molto ben recensito dalla stampa di settore. Un’ulteriore John Peel session (quella con il chilometrico inedito Crazy About Love: 15 minuti!) ed un ulteriore singolo, Map. Ref. / Go Ahead, ed il gruppo abbandonerà definitivamente la casa discografica, sbattendo la porta.
Ma sono Wire allo sbando quelli che nell’estate del 1980 cercano una nuova etichetta. La troveranno tuttavia nella Rough Trade, che nel mese di settembre pubblica il singolo Our Swimmer / Midnight Banhof Café. Il primo è il classico brano Wire solare: positivo ma intelligente, diciamo sinistramente scanzonato (c’è sempre una tensione strisciante…). Il secondo invece è in stile 154, ripetitivo e tetro, sebbene molto percussivo, un dark à la Wire con aperture più luminose. Ma, come si diceva, il gruppo era allo sbando, anzi era ormai praticamente sciolto.
Il primo ad approfittare della nuova situazione sarà il vulcanico Colin Newman, che riarrangerà il rimanente materiale del gruppo mettendo in pratica le sue idee in totale libertà. Per le incisioni chiamerà a sé il bassista Desmond Simmons ed il tastierista Mike Thorne (che curerà anche la produzione), comunque sempre accompagnato dall’amico Robert Gotobed alla batteria.
Fu così che il quarto Lp degli Wire fu invece il primo a nome Colin Newman, dal titolo A-Z, uscito nell’ottobre dell’80 per un'altra etichetta ancora, la Beggars Banquet. In effetti il suono elaborato dalla coppia Newman-Thorne a tratti non si distingueva molto da quello del vecchio gruppo, a tratti invece assumeva parvenze quasi di leggera bubble-gum (tutte quelle tastiere pulitine tanto anni 80), risultando invero un pochino schizofrenico. La principale mancanza che si avverte, tuttavia, è quella di Graham Lewis, la cui tenebrosa voce e fissità ritmica aveva tanto deliziosamente caratterizzato 154. Inutile dire che senza di lui A-Z risulterà dai contenuti dark molto più rarefatti. Tuttavia il genio di Newman non avrà più modo di esprimersi con uno stato di grazia simile, creando un'opera che in più punti fece gridare al capolavoro: ora pop, ora più seria, ora più intelligente, ora più flippata e pazzoide, in uno stile che pescava tanto dagli Wire quanto da Brian Eno o dal contemporaneo elettronico (e quasi omonimo) Gary Numan, e tanto da Syd Barrett quanto da Robert Wyatt. E qui s’è già detto più del dicibile...
Le canzoni memorabili quindi non mancano: dalla prima I’ve Waited Ages, con una chitarra distortissima e devastante ad accompagnare una voce seria su una melodia folle, molto in stile Chairs Missing, almeno finché voci mutanti e disturbate non la sconvolgano. Meravigliosa la terza, Alone, una melodia che arriva dritta all’anima, così orientaleggiante, così oscura, così derelitta, un capolavoro. Ma non sfigura neanche la successiva Order for Order, con tastiera triste e voce enfatica e sempre più ripetuta, alla Our Swimmer. O l’inizio di Image, dove prepotente torna certa catatonia dark, con voce sussurrata e bellissima, almeno fino alla dissonanza psico-strumentale che segue. Altro capolavoro sincopato (ricorda alla lontana “certi” Joy Division incrociati con “certi” PIL) sarà Troisieme: ossessionata ed ossessionante, voci sovrapposte, tempi ancora catatonici, anarchia musicale finale. Forse non è formalmente dark, ma di certo lo è intrinsecamente.
E, sempre in questo senso, che dire della quasi straziante Seconds to Last? Atmosfere rarefatte e malinconiche, inizialmente in contrasto col cantato (così tipicamente wireano), ma poi il lungo finale strumentale vira decisamente verso la solitudine cosmica interiore. Chiosa folle e claustrofobica del disco sarà l’ultima B, strumentale danza elettronica tra John Foxx e Numan, ma presto mutata in marchingegno per cacofonie ed urla liberatrici. E giù i brividi.
Nella successiva edizione su cd del 1988, la Beggars Banquet pubblicherà cinque extra-tracks provenienti dalle stesse sessioni. I brani più interessanti saranno una meravigliosa, dolcissima e a suo modo devastante versione strumentale di Alone per pianoforte (intitolata appunto Alone on Piano) ed un’inattesa Not Me, un brano dal cantato tranquillo, quasi pacato, ma dall’inedito arrangiamento post-punk molto movimentato. Insomma, un piccolo gioiello allora incompreso.
Definito dalla critica più intelligente “un Barrett tecnologico, la cui pazzia è ora prigioniera delle macchine e di un'alienazione ben più devastante e ben meno poetica”, Colin Newman, come si è detto, non toccherà più vertici simili. Sarà tuttavia in grado di riformare gli Wire nel 1986, con l’Ep Snakedrill, ma con loro riprenderà un discorso new wave brillante, intelligente, a tratti anche molto dolce (reinventerà una sorta di nuova estetica della dolcezza), ma purtroppo quasi mai oscuro. Sarà il solido bassista e tenebroso vocalist Graham Lewis a tentare strade più cupe e oppressive con il suo side-project He Said, autore di due album veramente notevoli nella seconda metà degli anni 80. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Allora, nell’inverno 80-81, restava solo la tristezza per una delle maggiori promesse del nuovo rock (ancor più che del dark), gli Wire appunto, così inspiegabilmente perduta. Tuttavia il gruppo non dirà addio al suo pubblico prima di un’ultima operazione discografica, a detta dei più decisamente discutibile, ma certo non priva di un innegabile valore documentaristico: il live Document and Eyewitness. Uscito per opera (ed iniziativa) della Rough Trade nel luglio dell’81, riportava in realtà l’ultimo concerto degli Wire, tenuto all’Electric Ballroom il 29 febbraio dell’80, più altro e precedente materiale live (soprattutto dal Notre Dame Hall).
In effetti il loro “normale” show vedeva uno strano gruppo scordato, patafisico e rumorista molto più che su disco, ma comunque curiosamente freddo, metronomico (più attento a rispettare il tempo che la partitura). I loro cavalli di battaglia Go Ahead, 2 People in a Room, Heartbeat, brevi schegge impazzite, sembrano come filtrati da un’aura di tecnologica e cacofonica freddezza che ne aumenta a dismisura un vago senso di disturbata alienazione. Molti gli inediti, a testimonianza delle numerose frecce al suo arco che aveva questa formazione, e che da sole valgono l’acquisto del disco. Certo le registrazioni potevano essere migliori.
In questo senso, allucinante campione della registrazione sbagliata ma contemporaneamente della documentazione indispensabile, sarà il cuore del disco, cioè il loro ultimo concerto all’Electric Ballroom di cui sopra. In effetti qui si tratta di una vera e propria performance multimediale, certamente più simile al cabaret dadaista che ad un concerto di post-punk. Il gruppo suonava dietro ad un lenzuolo di 6 metri per 12 che veniva portato in giro per il palco. Occasionalmente il “maestro di cerimonie”, il loro manager Mick Collins, cercava di presentare le canzoni in modo umoristico, scatenando l’ira del pubblico punkettaro e darkettone presente.
Ogni tanto faceva capolino una capra dotata di lampade, chiamata Jimmy, portando luce all’intera band, oppure due uomini con pastoia venivano “pascolati” da una bonazza, che nel frattempo si portava dietro un razzo gonfiabile, o Colin si copriva con un velo nero oppure lottava con un cappotto di cuoio o con una stufa a gas. Insomma cose così, mentre i suoni più angoscianti e psichedelici del momento invadevano un’audience a dir poco perplessa. I brani erano quasi tutti inediti (tranne 12XU, peraltro solo un frammento cui sono stati costretti “a furor di popolo”) e purtroppo la bassa qualità delle registrazioni, avvenute pure a livelli troppo alti, quindi in distorsione, non consente una comprensione corretta del livello “musicale” della serata. Underwater Experiences si era già sentita dal vivo in passato (è infatti riportata anche nella prima parte del disco), Everything Nice è una breve nenia catatonica parlata e oscura, Piano Turner è un tiratissimo voodoobilly punk a livelli di pazzia, We Meet under Tables una sorta di be-bop tecnocratico e alienante, manicomiale e monocorde. 
La serata proseguiva così, fra urla disarticolate e cavalcate scomposte, fra suoni psico-tecnologici ed improvvise, nere tetraggini. E indesiderate spiritosaggini di Collins. Bellissima e oscura Eastern Standard, demenziale ma aggressiva Eels Sang Lino (dopo è apparsa la capra), ska e di un ottimismo flippato Revealing Trade Secrets (molto wireana), ancora dark e paranoica la lunga e pazzesca And Then… (ah, Lewis, che voce!). La gente, sconcertata ed infastidita, gridava insulti e tirava bottiglie.

Insomma, al di là di perplessità e facili critiche, ciò che il disco testimonia (anche nel titolo) è l’incredibile vena creativa degli Wire e le loro coraggiose ambizioni. Dopo il suono oscuro ed introverso di 154 bisognava andare oltre. Alla cupa depressione segue la nera pazzia, similmente a quanto faranno i Cure (che dopo Faith pubblicheranno Pornography) e su una strada simile ma nel contempo molto diversa da quello che già avevano tentato i PIL (ed i Virgin Prunes, che però allora erano ancora misconosciuti). La solitudine, l’alienazione, la follia, l’urlo liberatore, la catatonia da sedativi. Il tutto in una cornice paradossale e surreale, come tale è la malattia mentale, e con la giusta ironia che evita la retorica.
Insomma, un gruppo troppo grande per poter durare. Tuttavia, perché i paradossi non arrivano mai da soli, tra i pochissimi gruppi qui recensiti ad essere ancora attivi. Peccato che purtroppo si tratti veramente di un’altra storia…

indice - avanti