Certo, tutti sapevano che
Lei, la divina, loscura sacerdotessa premonitrice di tutto il
rock gotico era ancora viva, tuttavia il suo mito allalba degli
anni 80 sembrava decisamente appannato. Tornata a vivere in Europa,
a Parigi esattamente, dove 15 anni prima fu modella di Coco Chanel
ed amante di Alain Delon, la sua figura sembrava volatile come quella
di un fantasma. Uno sguardo spiritato ed insicuro, un volto un tempo
splendido che andava disfacendosi, devastato dalleroina.
Eppure non si era completamente ritirata dalle scene. Talvolta, addirittura,
teneva ancora qualche sparuto concerto, accompagnata dal solo harmonium,
oppure da qualche musicista occasionale in cerca di fortuna. Dopo
una di queste serate ebbe modo di conoscere linglese Aaron Sixx,
intestatario della microscopica etichetta underground Aura Records,
e gli palesò lintenzione di tornare in studio di registrazione.
Ma la cosa sembrava finita lì. Disse successivamente di lei Sixx:
«Circa l80 per cento di tutto ciò che si legge su Nico potrebbe
essere falso. La maggior parte la mette lei, che direbbe qualunque
cosa pur di provocare una reazione. Ed i giornalisti giù a scrivere
».
Successivamente, chi dice nel 1978 chi nel 1980, incappò in un altro
di questi musicisti di fortuna, il bassista corso Philippe Quilichini.
Fu lui che, estasiato da questa figura quasi divina, dalla storia
così ricca e così incredibilmente importante, volle con tutte le sue
forze che lei tornasse a comporre nuovo materiale. I due lavorarono
insieme, creando sette canzoni nuove e riarrangiando due cover che,
secondo Nico, erano state scritte per lei stessa. Waiting for My
Man, celebre brano dei Velvet Underground, avrebbe dovuto essere
cantato da lei, ma alla fine Lou Reed impose la sua voce (dopotutto
la canzone era sua, no?). A proposito di Heroes, invece, affermò
che Bowie la scrisse per celebrare il loro incontro a Berlino: tutto
ciò di cui parlava la canzone sarebbe stato vero, tranne (ovviamente?)
le loro effusioni amorose
Con questo materiale i due volarono a Londra alla ricerca di Aaron
Sixx che, coerentemente, non si tirò indietro. Dal mese di aprile
a quello di maggio del 1981 fu registrato un disco incredibile, con
un vero cast di musicisti internazionali: al di là del corso Quilichini,
cerano il chitarrista mediorientale Mahammad Hadi, il sassofonista
Davey Payne, inglese, come il tastierista Andy Clarke, altro legame
con Bowie (fu il tecnico del suono di Scary Monsters). Americano
ma di evidenti origini ispaniche, invece, il batterista e percussionista
Steve Cordona. Era la prima volta dai tempi di The Velvet Underground
and Nico che la divina cantava con un complesso rock.
Ma Quilichini ci mise lo zampino: a missaggio non ancora completamente
terminato, insoddisfatto forse del risultato o forse della corresponsione
economica pattuita, rubò i nastri dallo studio di registrazione. Cominciò
così una lunga controversia legale con Sixx, che riuscì a recuperare
i nastri e a pubblicare il disco per la sua Aura Records solo nel
mese di luglio.
Ma
Drama of Exile era destinato a lasciare il segno, fin dal titolo.
«Ho chiamato così il disco dichiarò Nico perché ormai
la mia vita è un dramma dellesilio. Sono diventata completamente
estranea a me stessa». Copertina nera (poteva essere altrimenti?),
sguardo allucinato della nostra, suoni stranissimi, così rock eppure
così mediterranei, quasi mediorientali
Fu dunque la prima a
riscoprire questo tipo di sound in ambito dark, quindi a riconoscere
la grandezza profetica di Bowie e del terzo capitolo della sua trilogia
berlinese (ancora!!!), il poco amato dai gotici Lodger. E questo
poco prima del contemporaneo lavoro dellaltra regina del dark,
in parte sua imitatrice, Siouxsie Sioux, col meraviglioso Ju Ju.
Ed è veramente stranissimo ascoltare la stentorea voce di Nico sulla
potente apertura per batteria e chitarra di Genghis Khan, un
ritmo sfrenato eppur orientaleggiante, una voce gelida e teutonica
come allucinante contrasto. Un brano maestoso e corale, dedicato ad
un ragazzo inglese da lei conosciuto in Spagna, vera controfigura
immaginaria alla sua visione di Gengis Khan. Tuttavia chi ha amato
la Nico classica della trilogia oscura The Marble Index, Desertshore
e The End non può non rimanere stranito ad ascoltare tastiere,
batteria e sassofoni così rumorosi e squillanti.
Più consono e forse famigliare il dimesso incipit della successiva,
bellissima Purple Lips. Certamente un accompagnamento più adatto
alla lenta maestosità del brano, una ballata ben ritmata con chitarra
acuta e lamentosa, ma impegnata in arzigogoli arabeggianti. Una nenia
ripetitiva e dolcissima: « He reminds all the laughter / That has
left me going down / And my heart is falling silently / Into the driving
evening sound» (mi ricorda tutte le risate, che mi ha lasciato andando
giù, e il mio cuore cade silenzioso, nel suono guida della sera).
Chitarra acida in evidenza anche per la successiva One More Chance,
dalla ritmica potente ma sincopata, molto cadenzata, come le tastiere.
Una variante ricca di synth che è quasi grido liberatorio, un ritorno
ritmico che è nevrosi urbana, ovviamente di una città multietnica.
La danza rasenta lirresistibile. Nellarrangiamento di
questo brano cè tutta lunicità della band intercontinentale
messa in piedi da Quilichini e Sixx.
Apertura deflagrante e orientalissima per la successiva, quasi delirante,
Henry Hudson, celeberrimo marinaio, esploratore, avventuriero
inglese della fine del XVII secolo (colui che diede il nome al fiume
Hudson): una strofa ipnotica e sempre uguale, una variante improvvisa
e sgangherata, quasi patafisica alla Pere Ubu, per poi tornare alla
strofa. Un viaggio in territori inesplorati della mente.
E poi? Eccola, la canzone del tossico in scimmia, Waiting for the
Man (originariamente era Waiting for My Man). Eppure qui
i difetti del disco si fanno fin troppo evidenti: i nuovi musicisti
di Nico non sono i Velvet e questa scimmiottatura, benché in sé non
sia neanche male, tende ad impallidire se confrontata con il furibondo
originale. Insomma, ragazzi, coi mostri sacri non si scherza! Il gruppo
è stato un tentativo certamente coraggioso ed interessante di creare
un accompagnamento rock non banale, tentativo riuscito meglio in certi
brani e meno in altri, ma assolutamente non paragonabile alle sperimentazioni
soniche di uno pei più grandi ensemble di tutti i tempi! E lidea
stessa che stava dietro a questa formula, lunione di strumentazione
rock, voce teutonica e melodie orientali, se e quando non funzionava
faceva penosamente emergere tutta la sua irrisolta ambiguità. Non
solo in questo brano, ma ad esempio nella successiva Sixty-Forty
(o anche 60/40), bella sicuramente lapertura per rullante
marziale, ma vogliamo mettere come sarebbe riuscita mille
volte meglio se accompagnata solo da un gelido harmonium (come ai
tempi di The Marble Index)? Una stonatura al secondo minuto,
poi, non aiuta il brano.
Drama of Exile torna a ottimi livelli dalla successiva The
Sphinx: arrangiamento scatenato e arabo quanto mai, cantato gelido
e teutonico come ai vecchi tempi. Dedicata al terrorista tedesco Andreas
Baader ed alla sfinge in genere, metafora di incomunicabilità in ogni
uomo (proprio da lei, che alla sfinge fu così spesso paragonata in
passato!) a questa canzone manca solo la melodia vincente. Melodia
che verrà recuperata in uno dei capolavori dellalbum, la successiva
Orly Flight: atmosfere sospese, magiche come le mille e una
notte (un sitar?), un sassofono dritto al cuore, accordi inquietanti,
voce solenne e profetica. Il volo da Madrid a Parigi (aeroporto di
Orly, appunto) come cesura con un passato inconfessabile. «Close the
flight, prepare your sight, as if you'd never seen the light / Understand
the fortune spent, this crazy crime has no regret» (chiudi il volo,
e prepara la tua vista, come se non avessi mai visto la luce. Comprendi
la fortuna passata, questo crimine folle non conosce pentimento).
Degna chiusura di un disco sbalorditivo sarà la chiusura del cerchio
con la trilogia berlinese, quella Heroes che Nico pretese scritta
per loro due (lei e Bowie stesso) appunto durante gli oscuri giorni
passati a Berlino nel 77. Sembra che Bowie labbia pregata
in tutti i modi di lavorare insieme ma lei, fiera e sprezzante, non
si lasciò convincere (era abituata a trattare a ben altri livelli
).
Nota piacevole è che, al contrario della precedente cover, Heroes
funziona bene con questa band, che riesce a rendere al brano unatmosfera
rock (sebbene di rock orientale si tratti) che forse le
sperimentazioni soniche di Brian Eno gli avevano un po negato.
Un cameo, coronamento di un album cameo.
Dopo luscita del disco
alterne fortune, come sempre, attenderanno la teutonica regina oscura.
Certo, cerano mille nuove date, concerti, interviste, copertine
di riviste specializzate e non.
Ma nel mese di ottobre, ad esempio, la coppia (artistica, lui aveva
la sua donna) Nico-Quilichini diede alle stampe un 45 giri: Sãeta
(The Line) / Vegas, per unaltra, oscurissima etichetta
discografica indipendente, la Flicknife. Infatti la sua reperibilità
è stata per anni quasi impossibile, relegandone i brani a chicca per
collezionisti.
Sul lato A, Sãeta (ma poi ripubblicato come The Line)
inizia con un basso e funereo arpeggio di chitarra. Qui Nostra Signora
delle tenebre riesce ancora a sorprenderci, confezionando un pezzo
in perfetto stile Joy Division (dei più depressi) e risultando lei
stessa degna emula di Ian Curtis! Il ritornello sconsolato ma melodico
(«I give them voice, I give them choice»), lintermezzo musicale
funereo, insomma un piccolo e semplicissimo capolavoro! Vegas,
invece, riprende un tempo ed uno stile rock più sostenuto, ancora
più rock rispetto allalbum, proprio perché NON orientaleggiante.
Tranne il bellassolo centrale di chitarra acida e di sax, sembra
un brano tutto sommato trascurabile.
Nel frattempo la coppia era impegnatissima in un altro compito tanto
assurdo quanto incredibile: la totale ri-registrazione di Drama
of Exile, in aperta polemica con la versione incompleta (e, chissà
perché, insoddisfacente) dell'Aura. Ma fu il frutto di un lavoro affrettato,
per di più con altri musicisti. In seguito ad unaltra serie
di cause legali, questa seconda versione vide la luce solo due anni
dopo, in allucinante coincidenza con un fatale incidente dauto
in cui perse la vita Philippe Quilichini.
Ma, al di là del cambio di scaletta per i brani (con linclusione
di Sãeta e Vegas e lesclusione di Purple Lips),
il Drama of Exile targato 1983, oltre alla difficilissima reperibilità
(letichetta, guarda caso, fu lInvisible), forniva solo
unombra pallida di quello che era stato il forse incompleto,
ma certamente più riuscito fratello ufficiale (tranne
forse The Sphinx, che in effetti sembra migliorata).
Un disco forse non perfetto,
ma certamente epocale. Un mostro sacro del passato che risorgeva sulla
scena. Una scena che raggiungeva la sua maturità riscoprendo le sue
radici, e radici che tuttavia non vivevano di autocompiacimenti, ma
anzi erano sempre disposte ad evolversi, a contaminarsi.
Ad esse fu reso il dovuto omaggio.
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