3.14 Nico – Drama of Exile + Sãeta

Certo, tutti sapevano che Lei, la divina, l’oscura sacerdotessa premonitrice di tutto il rock gotico era ancora viva, tuttavia il suo mito all’alba degli anni 80 sembrava decisamente appannato. Tornata a vivere in Europa, a Parigi esattamente, dove 15 anni prima fu modella di Coco Chanel ed amante di Alain Delon, la sua figura sembrava volatile come quella di un fantasma. Uno sguardo spiritato ed insicuro, un volto un tempo splendido che andava disfacendosi, devastato dall’eroina.
Eppure non si era completamente ritirata dalle scene. Talvolta, addirittura, teneva ancora qualche sparuto concerto, accompagnata dal solo harmonium, oppure da qualche musicista occasionale in cerca di fortuna. Dopo una di queste serate ebbe modo di conoscere l’inglese Aaron Sixx, intestatario della microscopica etichetta underground Aura Records, e gli palesò l’intenzione di tornare in studio di registrazione. Ma la cosa sembrava finita lì. Disse successivamente di lei Sixx: «Circa l’80 per cento di tutto ciò che si legge su Nico potrebbe essere falso. La maggior parte la mette lei, che direbbe qualunque cosa pur di provocare una reazione. Ed i giornalisti giù a scrivere…».
Successivamente, chi dice nel 1978 chi nel 1980, incappò in un altro di questi musicisti di fortuna, il bassista corso Philippe Quilichini. Fu lui che, estasiato da questa figura quasi divina, dalla storia così ricca e così incredibilmente importante, volle con tutte le sue forze che lei tornasse a comporre nuovo materiale. I due lavorarono insieme, creando sette canzoni nuove e riarrangiando due cover che, secondo Nico, erano state scritte per lei stessa. Waiting for My Man, celebre brano dei Velvet Underground, avrebbe dovuto essere cantato da lei, ma alla fine Lou Reed impose la sua voce (dopotutto la canzone era sua, no?). A proposito di Heroes, invece, affermò che Bowie la scrisse per celebrare il loro incontro a Berlino: tutto ciò di cui parlava la canzone sarebbe stato vero, tranne (ovviamente?) le loro effusioni amorose…
Con questo materiale i due volarono a Londra alla ricerca di Aaron Sixx che, coerentemente, non si tirò indietro. Dal mese di aprile a quello di maggio del 1981 fu registrato un disco incredibile, con un vero cast di musicisti internazionali: al di là del corso Quilichini, c’erano il chitarrista mediorientale Mahammad Hadi, il sassofonista Davey Payne, inglese, come il tastierista Andy Clarke, altro legame con Bowie (fu il tecnico del suono di Scary Monsters). Americano ma di evidenti origini ispaniche, invece, il batterista e percussionista Steve Cordona. Era la prima volta dai tempi di The Velvet Underground and Nico che la divina cantava con un complesso rock.
Ma Quilichini ci mise lo zampino: a missaggio non ancora completamente terminato, insoddisfatto forse del risultato o forse della corresponsione economica pattuita, rubò i nastri dallo studio di registrazione. Cominciò così una lunga controversia legale con Sixx, che riuscì a recuperare i nastri e a pubblicare il disco per la sua Aura Records solo nel mese di luglio.
Ma Drama of Exile era destinato a lasciare il segno, fin dal titolo. «Ho chiamato così il disco – dichiarò Nico – perché ormai la mia vita è un dramma dell’esilio. Sono diventata completamente estranea a me stessa». Copertina nera (poteva essere altrimenti?), sguardo allucinato della nostra, suoni stranissimi, così rock eppure così mediterranei, quasi mediorientali… Fu dunque la prima a riscoprire questo tipo di sound in ambito dark, quindi a riconoscere la grandezza profetica di Bowie e del terzo capitolo della sua trilogia berlinese (ancora!!!), il poco amato dai gotici Lodger. E questo poco prima del contemporaneo lavoro dell’altra regina del dark, in parte sua imitatrice, Siouxsie Sioux, col meraviglioso Ju Ju.
Ed è veramente stranissimo ascoltare la stentorea voce di Nico sulla potente apertura per batteria e chitarra di Genghis Khan, un ritmo sfrenato eppur orientaleggiante, una voce gelida e teutonica come allucinante contrasto. Un brano maestoso e corale, dedicato ad un ragazzo inglese da lei conosciuto in Spagna, vera controfigura immaginaria alla sua visione di Gengis Khan. Tuttavia chi ha amato la Nico classica della trilogia oscura The Marble Index, Desertshore e The End non può non rimanere stranito ad ascoltare tastiere, batteria e sassofoni così rumorosi e squillanti.
Più consono e forse famigliare il dimesso incipit della successiva, bellissima Purple Lips. Certamente un accompagnamento più adatto alla lenta maestosità del brano, una ballata ben ritmata con chitarra acuta e lamentosa, ma impegnata in arzigogoli arabeggianti. Una nenia ripetitiva e dolcissima: « He reminds all the laughter / That has left me going down / And my heart is falling silently / Into the driving evening sound» (mi ricorda tutte le risate, che mi ha lasciato andando giù, e il mio cuore cade silenzioso, nel suono guida della sera). Chitarra acida in evidenza anche per la successiva One More Chance, dalla ritmica potente ma sincopata, molto cadenzata, come le tastiere. Una variante ricca di synth che è quasi grido liberatorio, un ritorno ritmico che è nevrosi urbana, ovviamente di una città multietnica. La danza rasenta l’irresistibile. Nell’arrangiamento di questo brano c’è tutta l’unicità della band intercontinentale messa in piedi da Quilichini e Sixx.
Apertura deflagrante e orientalissima per la successiva, quasi delirante, Henry Hudson, celeberrimo marinaio, esploratore, avventuriero inglese della fine del XVII secolo (colui che diede il nome al fiume Hudson): una strofa ipnotica e sempre uguale, una variante improvvisa e sgangherata, quasi patafisica alla Pere Ubu, per poi tornare alla strofa. Un viaggio in territori inesplorati della mente.
E poi? Eccola, la canzone del tossico in scimmia, Waiting for the Man (originariamente era Waiting for My Man). Eppure qui i difetti del disco si fanno fin troppo evidenti: i nuovi musicisti di Nico non sono i Velvet e questa scimmiottatura, benché in sé non sia neanche male, tende ad impallidire se confrontata con il furibondo originale. Insomma, ragazzi, coi mostri sacri non si scherza! Il gruppo è stato un tentativo certamente coraggioso ed interessante di creare un accompagnamento rock non banale, tentativo riuscito meglio in certi brani e meno in altri, ma assolutamente non paragonabile alle sperimentazioni soniche di uno pei più grandi ensemble di tutti i tempi! E l’idea stessa che stava dietro a questa formula, l’unione di strumentazione rock, voce teutonica e melodie orientali, se e quando non funzionava faceva penosamente emergere tutta la sua irrisolta ambiguità. Non solo in questo brano, ma ad esempio nella successiva Sixty-Forty (o anche 60/40), bella sicuramente l’apertura per rullante “marziale”, ma vogliamo mettere come sarebbe riuscita mille volte meglio se accompagnata solo da un gelido harmonium (come ai tempi di The Marble Index)? Una stonatura al secondo minuto, poi, non aiuta il brano.
Drama of Exile torna a ottimi livelli dalla successiva The Sphinx: arrangiamento scatenato e arabo quanto mai, cantato gelido e teutonico come ai vecchi tempi. Dedicata al terrorista tedesco Andreas Baader ed alla sfinge in genere, metafora di incomunicabilità in ogni uomo (proprio da lei, che alla sfinge fu così spesso paragonata in passato!) a questa canzone manca solo la melodia vincente. Melodia che verrà recuperata in uno dei capolavori dell’album, la successiva Orly Flight: atmosfere sospese, magiche come le mille e una notte (un sitar?), un sassofono dritto al cuore, accordi inquietanti, voce solenne e profetica. Il volo da Madrid a Parigi (aeroporto di Orly, appunto) come cesura con un passato inconfessabile. «Close the flight, prepare your sight, as if you'd never seen the light / Understand the fortune spent, this crazy crime has no regret» (chiudi il volo, e prepara la tua vista, come se non avessi mai visto la luce. Comprendi la fortuna passata, questo crimine folle non conosce pentimento).
Degna chiusura di un disco sbalorditivo sarà la chiusura del cerchio con la trilogia berlinese, quella Heroes che Nico pretese scritta per loro due (lei e Bowie stesso) appunto durante gli oscuri giorni passati a Berlino nel ’77. Sembra che Bowie l’abbia pregata in tutti i modi di lavorare insieme ma lei, fiera e sprezzante, non si lasciò convincere (era abituata a trattare a ben altri livelli…). Nota piacevole è che, al contrario della precedente cover, Heroes funziona bene con questa band, che riesce a rendere al brano un’atmosfera rock (sebbene di rock “orientale” si tratti) che forse le sperimentazioni soniche di Brian Eno gli avevano un po’ negato. Un cameo, coronamento di un album cameo.

Dopo l’uscita del disco alterne fortune, come sempre, attenderanno la teutonica regina oscura. Certo, c’erano mille nuove date, concerti, interviste, copertine di riviste specializzate e non. Ma nel mese di ottobre, ad esempio, la coppia (artistica, lui aveva la sua donna) Nico-Quilichini diede alle stampe un 45 giri: Sãeta (The Line) / Vegas, per un’altra, oscurissima etichetta discografica indipendente, la Flicknife. Infatti la sua reperibilità è stata per anni quasi impossibile, relegandone i brani a chicca per collezionisti.
Sul lato A, Sãeta (ma poi ripubblicato come The Line) inizia con un basso e funereo arpeggio di chitarra. Qui Nostra Signora delle tenebre riesce ancora a sorprenderci, confezionando un pezzo in perfetto stile Joy Division (dei più depressi) e risultando lei stessa degna emula di Ian Curtis! Il ritornello sconsolato ma melodico («I give them voice, I give them choice»), l’intermezzo musicale funereo, insomma un piccolo e semplicissimo capolavoro! Vegas, invece, riprende un tempo ed uno stile rock più sostenuto, ancora più rock rispetto all’album, proprio perché NON orientaleggiante. Tranne il bell’assolo centrale di chitarra acida e di sax, sembra un brano tutto sommato trascurabile.
Nel frattempo la coppia era impegnatissima in un altro compito tanto assurdo quanto incredibile: la totale ri-registrazione di Drama of Exile, in aperta polemica con la versione incompleta (e, chissà perché, insoddisfacente) dell'Aura. Ma fu il frutto di un lavoro affrettato, per di più con altri musicisti. In seguito ad un’altra serie di cause legali, questa seconda versione vide la luce solo due anni dopo, in allucinante coincidenza con un fatale incidente d’auto in cui perse la vita Philippe Quilichini. Ma, al di là del cambio di scaletta per i brani (con l’inclusione di Sãeta e Vegas e l’esclusione di Purple Lips), il Drama of Exile targato 1983, oltre alla difficilissima reperibilità (l’etichetta, guarda caso, fu l’Invisible), forniva solo un’ombra pallida di quello che era stato il forse incompleto, ma certamente più riuscito fratello “ufficiale” (tranne forse The Sphinx, che in effetti sembra migliorata).

Un disco forse non perfetto, ma certamente epocale. Un mostro sacro del passato che risorgeva sulla scena. Una scena che raggiungeva la sua maturità riscoprendo le sue radici, e radici che tuttavia non vivevano di autocompiacimenti, ma anzi erano sempre disposte ad evolversi, a contaminarsi.
Ad esse fu reso il dovuto omaggio.

indice - avanti