Nel paragrafo introduttivo a questa stagione del dark
si diceva dell’enorme influenza che la neonata scena gotica stava
avendo sul fenomeno new wave inglese (certo non su quello americano,
ormai ampiamente affermato). Quest’influenza la si poteva misurare
non solo in termini di nuove band che, potendo scegliere, nascevano
indirizzate verso ritmi funerei, ma anche e soprattutto in termini
di “vittime eccellenti”, ovvero campioni del nuovo rock inglese tramortiti
dal e convertiti al dark.
Certo, allora cosa dovesse ESATTAMENTE essere il dark non era ancora
molto chiaro. Si avvertiva giusto una ricerca, un’atmosfera, una propensione
verso il lato oscuro dell’animo umano, ma giustamente ogni artista
cercava di interpretare questa tendenza secondo il suo imprevedibile
talento. Sì, c’era la traccia dei primi esploratori, ma tutto era
ancora così nuovo… Tra le vittime illustri di questa che abbiamo chiamato
atmosfera, o propensione, ci sono stati innanzitutto i Cure, secondariamente
a non riuscire a sottrarsi furono i Simple Minds.
Che dire di questo gruppo? Nati in Scozia come Johnny and the Self
Abusers, autori di un bel singolo scanzonato (Saints and Sinners),
facevano parte di quel post-punk, anzi di quell’esigenza di post-punk
allegro, che era prepotentemente venuta a galla alla fine del '78.
Mutato il nome in Simple Minds, pubblicheranno Life in a Day,
in assoluto uno dei migliori album della nascente new wave inglese:
leggero ma mai superficiale, orecchiabile ma mai banale, con quel
pizzico di elettronica, idee ed intelligenza in più da farlo distinguere
ed emergere dal marasma di nuove band che il post-punk andava proponendo.
Certo, a questo punto i cinque ragazzi scozzesi potevano dirsi felici.
Avevano infatti ottenuto ciò che ogni giovane band si aspetta dalla
vita: uno stile vincente ma non ruffiano, un posto nell’avanguardia,
un album di successo. Ma Jim Kerr e soci erano troppo giovani ed ambiziosi
per accontentarsi, e fors’anche troppo intelligenti. Volevano dimostrare
di essere musicisti veri, seri e credibili, di appartenere a pieno
titolo alla migliore avanguardia del loro tempo. E lo fecero seguendo
le orme degli Wire più magmatici e oscuri.
Nel 79, infatti, il successivo Real to Real Cacophony stupì
tutti. Copertina scura e monocromatica, suono molto
più duro ed elettronico. Tuttavia si può definire un album di passaggio:
forse troppo spesso la squisita freschezza della giovane band emergeva
dai solchi dell’album. Certo, ciò non ne inficiava la qualità, che
anzi era altissima (il disco è fortemente raccomandato, soprattutto
a chi apprezza un intelligente suono-Wire), ma in parte ne pregiudicava
la piena appartenenza alla scena oscura. Comunque la freddezza di
un brano come Real to Real, o l’ossessiva marcetta di Citizen
rimarranno capisaldi del loro sound, per non parlare di Factory
o Premonition o Changeling o dell’ultima Scar.
Brani tosti, magmatici, frastagliati di elettronica, bombardati di
percussione ossessiva, oscurati da ombre psichiche, che lasceranno
il loro pubblico meravigliato e perplesso (il disco, infatti, conobbe
un esito commerciale abbastanza modesto).
Un album di passaggio, si diceva, ma verso dove? Verso lo stupefacente
capolavoro dark dei Simple Minds: Empires and Dance.
Uscito nel mese di settembre del 1980 per la Zoom/Arista, questo disco
di fatto aveva aperto la nuova stagione dark, in qualche modo suggellandone
lo status di principale nuova scena di tendenza. E scusate se è poco.
Charles Burchill ad una chitarra acida e ritmica, Michael McNeil ad
una tastiera ora astratta, ora tecnotronica, Derek Forbes ad un basso
ossessivo e pulsante, Brian McGee a dei tamburi oscuri, metronomici
ed industriali, ma soprattutto Jim Kerr ad una delle voci più calde
del regno unito, avevano fatto il colpaccio.
Impressionantemente stylée e decisamente ballabile il primo brano,
che fu anche il primo singolo tratto dall’album. I Travel,
infatti, era una sorta
di cavalcata elettronica da discoteca del futuro, sebbene un futuro
da incubo. Percussioni martellanti, cascate sintetiche reiterate,
i Kraftwerk che litigano con i Faust, un ritmo tanto pulsante quanto
irresistibile. Entrò di diritto nei must dei club alternativi dell’epoca.
Un ballabile, sì, ma forse anche il primo ed ultimo brano in qualche
modo “aperto”, comunicativo, dell’album. Dal successivo Today I
Died Again le cose cambiavano drammaticamente. Un ingresso percussivo
con aggiunta di tastiera orientaleggiante faceva da preludio ad una
voce bassa e minacciosa, poi una sincope, un repentino cambiamento
di ritmo e quindi un coro sinistro che intona il ritornello. E la
paranoia incombente della morte ripetuta prende forma, ma è una forma
tecnologica, sintetica, claustrofobica (sebbene non così sperimentale).
Meraviglioso il finale, tra oriente percussivo e tecnologico e delirio
vocale.
Un tenue raggio di luce sembra tornare nella successiva Celebrate,
non a caso l’altro singolo tratto dal disco. Un basso pennella quattro note potenti
di base, poi una percussione sintetica a doppia ripetizione interviene
a scandire il brano, caratterizzandolo per tutta la sua durata. Le
tastiere dipingono paesaggi oscuri, poi la voce ricca di effetti fa
la sua lugubre e minacciosa comparsa. Anche qui l’effetto è oppressivo
e straniante, nonostante l’invito a celebrare chissà che cosa. Quasi
ipnotico e delirante il breve intermezzo strumentale. Non è un assolo
quello che si crea, ma la sottolineatura di un’atmosfera psico-patologica
con la partecipazione equanime di tutti gli strumenti. Solo nel finale
la chitarra oserà qualcosa di più, sovrapponendosi meravigliosamente
agli echi della voce.
Il brano dopo è il capolavoro dark di un disco che è un capolavoro
dark. This Fear of Gods inizia con un tenue campanello. Poi,
violenta, una tastiera sintetica, marziale e ripetitiva scandisce
un ritmo di allarme. Infine, deflagrante, entra la sezione ritmica,
in una sorta di sabba stregonesco in salsa futurista, ma caratterizzato
da un sottile sassofono (probabilmente sintetico) che fa da beffardo
contrappunto al tutto. Ad incubo compiuto entra la voce, lontana,
sottoposta ad echi e riverberi. “Qualcuno canta nella doccia” recita
un testo straniante in un’atmosfera tanto claustrofobica quanto ipnotica.
Ripetitiva fino all’esasperazione (con lontani guaiti di sax e disturbi
elettronici) la strofa è un viaggio allucinante in una psiche malata,
finché assolutamente inattesa entra una variante in scala discendente:
«gods, gods, this fear of gods», fino al reingresso catastrofico sulla
base con i cigolii della chitarra e di una serie d’altri strumenti
di disturbo. E l’ipnosi ritmica ed alienante riprende, fino alla prossima
variante/ritornello, in un brano che è una catarsi infernale di oltre
7 minuti.
Al confronto la successiva Capital City, anch’essa iniziata
da basso ripetitivo e pulsante, fragoroso ingresso di batteria e minaccioso
arrangiamento di tastiere, sembra però una boccata d’ossigeno. Ma
è ancora ipnosi, ancora tecnologia, ancora voce tormentata, in un
incedere pesante e maestoso, quasi contr’altare oscuro alla retorica
pomposa dei più famosi album successivi. Con le sue tastiere futuribili,
le sue scale discendenti e le sue pause, Capital City sarà
un altro loro brano immortale. Forse più confusa sembra essere la
successiva Constantinople Line, nonostante una voce più sveglia
ed attiva, i suoi disturbi elettronici dissonanti ed una chitarra
effettata ed intrigante. Purtroppo l’impressione generale è quella
di una certa staticità. È un brano che comunque non sfigura.
Quasi in sordina entra la successiva Twist/Run/Repulsion, con
effetti vocali pesantemente distorti, ma poi travolti da un ritmo
forsennato, una voce femminile recitante in francese e sassofoni dissonanti.
Un brano assurdo, cabarettistico e affannoso, dalle percussioni a
martello. Un esperimento tecno/psichico senza eguali nella storia
della new wave inglese. Il disco torna a farsi marziale e minaccioso
con la successiva Thirty Frames a Second: inizio di basso impazzito
e metronomico, tastiera minacciosa, effetti elettronici da trip lisergico
finito male. La voce è ancora lei, quella del “nuovo” Jim Kerr, oscuro
e minaccioso. La variante è invece caratterizzata da un riff chitarristico
esplosivo in delizioso controtempo. Un altro ballabile, se a qualcuno
potesse mai venire in mente di ballare qualcosa di tanto febbrile
e paranoico. Finale di rigore da delirio, con distorsioni contorte
della chitarra e voce ripetitiva all’ossessione: indietro, trenta
fotogrammi al secondo.
Sfumata dagli ultimi effetti sonici di Thirty Frames fa il
suo ingresso l’unico “respiro” dell’album. Col suo inizio dimesso,
ecco lo strumentale Kant-Kino, uno scherzo sintetico di neanche
due minuti. Poi, seria, ma con un’introduzione stranamente melodica,
Room. Gli strumenti sono bassi, la precedente Kant-Kino
ha decisamente messo l'incubo a tacere. Qui gli effetti, anche quelli
percussivi, si fanno più acustici. L’atmosfera è sempre sinistra e
lievemente minacciosa, ma ora più melodica e rilassata. «I always
lived here, a fragile man» canta un Kerr più fatalista, ma in neanche
due minuti e mezzo il brano, e con lui il disco, si spegne.
Apparentemente i principali seguaci del suono Wire, i Simple Minds
sfoggiavano anche un’intensità ed un lirismo decisamente originali.
Con Empires and Dance avevano chiuso queste caratteristiche
nell’incubo allucinato e sabbatico di un occultista tecnocrate.
Una nuova frontiera del dark era nata. Riuscirà a trovare seguito?
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