3.1 Simple Minds – Empires and Dance

Nel paragrafo introduttivo a questa stagione del dark si diceva dell’enorme influenza che la neonata scena gotica stava avendo sul fenomeno new wave inglese (certo non su quello americano, ormai ampiamente affermato). Quest’influenza la si poteva misurare non solo in termini di nuove band che, potendo scegliere, nascevano indirizzate verso ritmi funerei, ma anche e soprattutto in termini di “vittime eccellenti”, ovvero campioni del nuovo rock inglese tramortiti dal e convertiti al dark.
Certo, allora cosa dovesse ESATTAMENTE essere il dark non era ancora molto chiaro. Si avvertiva giusto una ricerca, un’atmosfera, una propensione verso il lato oscuro dell’animo umano, ma giustamente ogni artista cercava di interpretare questa tendenza secondo il suo imprevedibile talento. Sì, c’era la traccia dei primi esploratori, ma tutto era ancora così nuovo… Tra le vittime illustri di questa che abbiamo chiamato atmosfera, o propensione, ci sono stati innanzitutto i Cure, secondariamente a non riuscire a sottrarsi furono i Simple Minds.
Che dire di questo gruppo? Nati in Scozia come Johnny and the Self Abusers, autori di un bel singolo scanzonato (Saints and Sinners), facevano parte di quel post-punk, anzi di quell’esigenza di post-punk allegro, che era prepotentemente venuta a galla alla fine del '78. Mutato il nome in Simple Minds, pubblicheranno Life in a Day, in assoluto uno dei migliori album della nascente new wave inglese: leggero ma mai superficiale, orecchiabile ma mai banale, con quel pizzico di elettronica, idee ed intelligenza in più da farlo distinguere ed emergere dal marasma di nuove band che il post-punk andava proponendo.
Certo, a questo punto i cinque ragazzi scozzesi potevano dirsi felici. Avevano infatti ottenuto ciò che ogni giovane band si aspetta dalla vita: uno stile vincente ma non ruffiano, un posto nell’avanguardia, un album di successo. Ma Jim Kerr e soci erano troppo giovani ed ambiziosi per accontentarsi, e fors’anche troppo intelligenti. Volevano dimostrare di essere musicisti veri, seri e credibili, di appartenere a pieno titolo alla migliore avanguardia del loro tempo. E lo fecero seguendo le orme degli Wire più magmatici e oscuri.
Nel 79, infatti, il successivo Real to Real Cacophony stupì tutti. Copertina scura e monocromatica, suono molto più duro ed elettronico. Tuttavia si può definire un album di passaggio: forse troppo spesso la squisita freschezza della giovane band emergeva dai solchi dell’album. Certo, ciò non ne inficiava la qualità, che anzi era altissima (il disco è fortemente raccomandato, soprattutto a chi apprezza un intelligente suono-Wire), ma in parte ne pregiudicava la piena appartenenza alla scena oscura. Comunque la freddezza di un brano come Real to Real, o l’ossessiva marcetta di Citizen rimarranno capisaldi del loro sound, per non parlare di Factory o Premonition o Changeling o dell’ultima Scar. Brani tosti, magmatici, frastagliati di elettronica, bombardati di percussione ossessiva, oscurati da ombre psichiche, che lasceranno il loro pubblico meravigliato e perplesso (il disco, infatti, conobbe un esito commerciale abbastanza modesto).
Un album di passaggio, si diceva, ma verso dove? Verso lo stupefacente capolavoro dark dei Simple Minds: Empires and Dance. Uscito nel mese di settembre del 1980 per la Zoom/Arista, questo disco di fatto aveva aperto la nuova stagione dark, in qualche modo suggellandone lo status di principale nuova scena di tendenza. E scusate se è poco. Charles Burchill ad una chitarra acida e ritmica, Michael McNeil ad una tastiera ora astratta, ora tecnotronica, Derek Forbes ad un basso ossessivo e pulsante, Brian McGee a dei tamburi oscuri, metronomici ed industriali, ma soprattutto Jim Kerr ad una delle voci più calde del regno unito, avevano fatto il colpaccio.
Impressionantemente stylée e decisamente ballabile il primo brano, che fu anche il primo singolo tratto dall’album. I Travel, infatti, era una sorta di cavalcata elettronica da discoteca del futuro, sebbene un futuro da incubo. Percussioni martellanti, cascate sintetiche reiterate, i Kraftwerk che litigano con i Faust, un ritmo tanto pulsante quanto irresistibile. Entrò di diritto nei must dei club alternativi dell’epoca. Un ballabile, sì, ma forse anche il primo ed ultimo brano in qualche modo “aperto”, comunicativo, dell’album. Dal successivo Today I Died Again le cose cambiavano drammaticamente. Un ingresso percussivo con aggiunta di tastiera orientaleggiante faceva da preludio ad una voce bassa e minacciosa, poi una sincope, un repentino cambiamento di ritmo e quindi un coro sinistro che intona il ritornello. E la paranoia incombente della morte ripetuta prende forma, ma è una forma tecnologica, sintetica, claustrofobica (sebbene non così sperimentale). Meraviglioso il finale, tra oriente percussivo e tecnologico e delirio vocale.
Un tenue raggio di luce sembra tornare nella successiva Celebrate, non a caso l’altro singolo tratto dal disco. Un basso pennella quattro note potenti di base, poi una percussione sintetica a doppia ripetizione interviene a scandire il brano, caratterizzandolo per tutta la sua durata. Le tastiere dipingono paesaggi oscuri, poi la voce ricca di effetti fa la sua lugubre e minacciosa comparsa. Anche qui l’effetto è oppressivo e straniante, nonostante l’invito a celebrare chissà che cosa. Quasi ipnotico e delirante il breve intermezzo strumentale. Non è un assolo quello che si crea, ma la sottolineatura di un’atmosfera psico-patologica con la partecipazione equanime di tutti gli strumenti. Solo nel finale la chitarra oserà qualcosa di più, sovrapponendosi meravigliosamente agli echi della voce.
Il brano dopo è il capolavoro dark di un disco che è un capolavoro dark. This Fear of Gods inizia con un tenue campanello. Poi, violenta, una tastiera sintetica, marziale e ripetitiva scandisce un ritmo di allarme. Infine, deflagrante, entra la sezione ritmica, in una sorta di sabba stregonesco in salsa futurista, ma caratterizzato da un sottile sassofono (probabilmente sintetico) che fa da beffardo contrappunto al tutto. Ad incubo compiuto entra la voce, lontana, sottoposta ad echi e riverberi. “Qualcuno canta nella doccia” recita un testo straniante in un’atmosfera tanto claustrofobica quanto ipnotica. Ripetitiva fino all’esasperazione (con lontani guaiti di sax e disturbi elettronici) la strofa è un viaggio allucinante in una psiche malata, finché assolutamente inattesa entra una variante in scala discendente: «gods, gods, this fear of gods», fino al reingresso catastrofico sulla base con i cigolii della chitarra e di una serie d’altri strumenti di disturbo. E l’ipnosi ritmica ed alienante riprende, fino alla prossima variante/ritornello, in un brano che è una catarsi infernale di oltre 7 minuti.
Al confronto la successiva Capital City, anch’essa iniziata da basso ripetitivo e pulsante, fragoroso ingresso di batteria e minaccioso arrangiamento di tastiere, sembra però una boccata d’ossigeno. Ma è ancora ipnosi, ancora tecnologia, ancora voce tormentata, in un incedere pesante e maestoso, quasi contr’altare oscuro alla retorica pomposa dei più famosi album successivi. Con le sue tastiere futuribili, le sue scale discendenti e le sue pause, Capital City sarà un altro loro brano immortale. Forse più confusa sembra essere la successiva Constantinople Line, nonostante una voce più sveglia ed attiva, i suoi disturbi elettronici dissonanti ed una chitarra effettata ed intrigante. Purtroppo l’impressione generale è quella di una certa staticità. È un brano che comunque non sfigura.
Quasi in sordina entra la successiva Twist/Run/Repulsion, con effetti vocali pesantemente distorti, ma poi travolti da un ritmo forsennato, una voce femminile recitante in francese e sassofoni dissonanti. Un brano assurdo, cabarettistico e affannoso, dalle percussioni a martello. Un esperimento tecno/psichico senza eguali nella storia della new wave inglese. Il disco torna a farsi marziale e minaccioso con la successiva Thirty Frames a Second: inizio di basso impazzito e metronomico, tastiera minacciosa, effetti elettronici da trip lisergico finito male. La voce è ancora lei, quella del “nuovo” Jim Kerr, oscuro e minaccioso. La variante è invece caratterizzata da un riff chitarristico esplosivo in delizioso controtempo. Un altro ballabile, se a qualcuno potesse mai venire in mente di ballare qualcosa di tanto febbrile e paranoico. Finale di rigore da delirio, con distorsioni contorte della chitarra e voce ripetitiva all’ossessione: indietro, trenta fotogrammi al secondo.
Sfumata dagli ultimi effetti sonici di Thirty Frames fa il suo ingresso l’unico “respiro” dell’album. Col suo inizio dimesso, ecco lo strumentale Kant-Kino, uno scherzo sintetico di neanche due minuti. Poi, seria, ma con un’introduzione stranamente melodica, Room. Gli strumenti sono bassi, la precedente Kant-Kino ha decisamente messo l'incubo a tacere. Qui gli effetti, anche quelli percussivi, si fanno più acustici. L’atmosfera è sempre sinistra e lievemente minacciosa, ma ora più melodica e rilassata. «I always lived here, a fragile man» canta un Kerr più fatalista, ma in neanche due minuti e mezzo il brano, e con lui il disco, si spegne.

Apparentemente i principali seguaci del suono Wire, i Simple Minds sfoggiavano anche un’intensità ed un lirismo decisamente originali. Con Empires and Dance avevano chiuso queste caratteristiche nell’incubo allucinato e sabbatico di un occultista tecnocrate.
Una nuova frontiera del dark era nata. Riuscirà a trovare seguito?

indice - avanti