2.8 Tuxedomoon – Scream + Half Mute

Dal punto di vista della musica oscura, quella che scava nei più tenebrosi recessi dell’animo umano, al di là dell’Atlantico la scena rimaneva alquanto statica. La grande tradizione che da Screamin’ Jay Hawkins portava, tramite i Greatful Dead, ai Doors e/o ai Velvet Underground, sembrava essere stata definitivamente abbandonata, forse proprio in segno di rispetto nei confronti di quei giganti apparentemente irraggiungibili. Con tre eccezioni: i “nuovi dinosauri” metal Blue Öyster Cult, che comunque qui non fanno testo, e qualche gruppo punk o simile che qui e là azzardava un brano mortifero, soprattutto in chiave sarcastica (a prescindere da nomi d’effetto, tipo i Dead Kennedys).
La terza eccezione era l’unico gruppo che si faceva cantore delle creature della notte, anzi famosi proprio per questo: i Tuxedomoon. L’ensemble di S.Francisco era da poco entrato in contatto con la Ralph records, l’etichetta dei pazzi devastatori mentali Residents. Ai tipi della Ralph dev’essere piaciuto questo gruppo assolutamente insolito, decisamente gay, costituito da un sassofonista pianista cantante ipersensibile come Steven Brown, da un chitarrista violinista cupo come Blaine Reininger, a cui da poco si era aggiunto il poderoso bassista Peter Principle, ripetitivo fino all’ipnosi. Capaci delle atmosfere più malinconiche ed introverse mai sentite fino ad allora (e di gusto squisitamente europeo), come di galoppate demenziali alla Pinheads on the Move, ma anche di poderosi post-punk come No Tears o di elettronica allucinante e sperimentale.
Assolutamente soddisfatti della loro partecipazione alla compilation Subterranean Modern, quelli della Ralph nell’agosto del ‘79 li scritturarono per l’incisione di un Ep da 12 pollici. Il batterista David Zahl per quella data si era già allontanato dal gruppo (ritornò quindi, e per sempre, la drum machine), ma il chitarrista e tastierista Michael Belfer aveva per il momento fatto ritorno. Il grande performer di origine cinese Winston Tong, che tanto li aveva assistiti durante i loro primi passi, questa volta non fu della partita. Il risultato fu comunque un altro capolavoro, per quella tarda estate, l’Ep Scream with a View.
Il disco cominciava con una pseudo-fisarmonica, contrappuntata dal violino tristissimo di Reininger, in un riff di quattro note pregno di desolazione. Una voce filtrata da effetti elettronici (probabilmente distorsore e flanger) introduceva la mesta melodia di Nervous Guy, una canzone che sembrava uscita da un archivio francese del dopoguerra e rimaneggiata da paranoici del futuro. Un elegantissimo sassofono chiudeva un brano senza tempo, un must forse persino troppo europeo.
Un battito della drum machine, sul quale si inserisce una chitarra di sottofondo, apre a Where Interests Lie, perfettamente scandito dal basso più ripetitivo del pianeta. Voci sottoposte a trattamenti ed echi emergono come da un manicomio o direttamente dalla psiche di un rinchiuso. Effetti elettronici disturbano e destabilizzano un capolavoro di angoscia, follia ed, un po’ a sorpresa, antiamericanismo. In seguito sarà una tastiera cupa ed effettata quanto mai ad introdurre l’atmosfera notturna di (Special Treatment for the) Family Man, tastiera su cui si inserisce un sassofono tristissimo. L’atmosfera della canzone rimane però tesa e minacciosa, seppur come si è detto molto notturna, sui temi della caccia al mostro (si trattava nel dettaglio di Dan White, assassino del liberal gay Harvey Milk, evento che provocò uno smorzarsi della scena a San Francisco). Le voci, anche in questo caso molto manipolate, cantano tuttavia una melodia piacevole alternata ad una sorta di parlato di sottofondo, tra effetti di tastiera e sassofono. Un pezzo bellissimo, una cosa mai sentita.
Meno sorprendente o entusiasmante il conclusivo brano strumentale, Midnight Stroll, ben scandito dalla drum machine e dalla ritmica di basso e tastiere, ma forse fastidiosamente sperimentale nelle soluzioni armoniche e melodiche. Un brano, tuttavia, che faceva capire l’amplissimo raggio di azione dei Tuxedomoon, gruppo troppo dotato di tecnica e talento per rimanere “imprigionato” fra le maglie del post-punk. Se fosse nato in Inghilterra, probabilmente oggi il dark sarebbe un genere molto diverso da come lo conosciamo.
Ma purtroppo il combo era americano e, come tale, troppo diverso, troppo sensibile per essere capito ed apprezzato dai suoi connazionali. Scream with a View passò praticamente inosservato ed i nostri dovettero inventarsi sistemucci furbeschi per sopravvivere, come la creazione di gruppi side-project più commerciali da far supportare al gruppo madre per poter suonare in giro. Comunque i ragazzi non si scoraggiavano, continuavano a comporre nuovi brani e a registrarli, ottenendo per il mese di dicembre 1979 un nuovo contratto con la Ralph. Belfer aveva di nuovo lasciato la band, che ora si ritrovava nella sua formazione classica e minimale: Brown, Reiniger e Principle.
Anticipato dal singolo What Use?, nel maggio dell’80 uscì il loro primo Lp, l’ormai classico capolavoro Half Mute, corredato dalla meravigliosa copertina di Patrick Roques: un’opera astratta metafora di solitudine, chiusura ed alienazione. In effetti What Use?, settimo del disco, era un brano decisamente spiazzante, fatto per lanciare l’album ma in contrasto con le sue atmosfere. Un energico ed intelligente post-punk, con batteria elettronica ed accompagnamento di sassofoni e tastiere, praticamente un ballabile intellettuale, che poteva ricordare alla lontana certe cose dei Talking Heads, meno funk e più angosciati/angoscianti.
Half Mute però cominciava con l’atmosfera straziante di Nazca: una serie di passaggi rarefatti di tastiera (con sottofondo di cassa elettronica), che dopo un giro faranno da contrappunto ad un sassofono depresso (sebbene a volte protagonista di strani guizzi dissonanti). Un brano per malinconie solitarie, per orizzonti desolati battuti dai venti del nord.
E non bisogna lasciarsi ingannare dall’inizio cronometrico e guizzante della successiva 59 to 1, basata su un poderoso giro di Principle. La voce, che quasi recita «59 seconds of every one – minute» allarma, innervosisce. Il brano prosegue pompato ma alienante, un sassofono dissonante disturba e destabilizza, eppur seduce. Altre voci trattate faranno il resto. Non meno alienata ed alienante sarà la successiva, serissima, Fifth Column. Una canzone triste e nervosa, tuttavia qui presentata nella versione strumentale. Perché? Cosa poteva avere una versione strumentale più di quella cantata? Semplicemente sottolineava le ragioni estetiche dell’album, rinforzandone la poetica. Successivamente proveremo a spiegarci meglio.
Nel frattempo Fifth Column si miscelava con un altro loro strumentale, uno dei più celebri, l’indemoniata Tritone (Musica Diablo). Similmente all’altra loro famosissima Litebulb Overkill, si trattava principalmente di un tour de force al violino di Reininger, anche se mai così furibondo e con tastiere così storte ed inquietanti. Una cosa alla Tartini, un moderno Trillo del Diavolo. Uno dei loro brani immortali.
Ad atmosfere più sommesse si tornerà con la successiva Loneliness: drum machine a morto, basso complicato ma ripetitivo, arrangiamento di tromba e voce depressa in tonalità Ian Curtis. Una piccola perla di depressione paranoica prima della campana sintetica con percussioni confuse di James Whale. Un pazzo violino entra piano da lontano, interpretando una melodia monotona e senza senso. Un brano senza senso, sebbene dall’estremo effetto gotico. Infatti, chi era James Whale? Uno dei più importanti registi di cinema gotico, realizzatore di alcuni tra i capolavori del genere negli anni 30, soprattutto sul mostro di Frankenstein. Come a sottolineare l’appartenenza ad un genere (e ad un’etichetta) a cui però, nei fatti, sembravano continuamente fuggire. Ma è vero che allora l’etichetta non esisteva ancora (negli USA), e le cose migliori erano ancora (quasi) tutte da inventare e da scoprire. LORO ERANO il gotico americano, gli altri dovevano adeguarsi.
Poi seguiva What Use?, ostica e strana ma, rispetto al resto del disco, ballabile e commerciale. Poi ancora Volo Vivace, un titolo italiano per un altro strumentale della desolazione e della paranoia, dominato da un basso ipnotico, ma soprattutto da un violino il cui virtuosismo sembrava voler mettere in discussione la precedente Tritone. Altro capolavoro cui seguiva altra depressione: la monotona 7 Years. Voce di Brown pulita ma statica, violino “totalizzante”, basso marziale. Un altro esempio di dark alla Tuxedomoon.
Poi il capolavoro di chiusura, di un album capolavoro. La suite in due tempi KM/Seeding the Clouds. Con KM un sax desolato e straziante cominciava il suo refrain nella solitudine più totale, solo in un secondo tempo il basso di Principle interveniva a sostenerlo. Effetti elettronici, in lontananza, a disturbare. E il basso procede, ripetitivo, paranoico, per chilometri. E con lui il sax, sempre protagonista con la sua mesta melodia. Poco, pochissimo per volta, ma il pezzo cresce, ed anche l’importanza dei sintetizzatori, contrappunto dissonante. Dopo quasi 7 minuti devastanti, il basso si fa più scandito ed il brano sembra svuotarsi: fa il suo ingresso il piano, mentre il sax sparisce. Ecco nascere la canzone Seeding the Clouds «today, watch!, nothing’s going to go your way». La stigmatizzazione beffarda e canzonatoria della sconfitta, con metafora di dipendenza televisiva, che felicemente recupera certi toni seri ma svegli, intelligenti, degli Wire. Lentamente il brano si spegne, lasciandoti distrutto con un meraviglioso piano. Poi, sintetizzate, le pale di un elicottero.
Album della solitudine, dell’angoscia, di immensi spazi desolati e vuoti. Sostanzialmente un album del vuoto: vuoto di voce (non si canta spesso), vuoto di suoni (le atmosfere sono rarefatte quanto mai), vuoto di certezze. Half-Mute è stato forse il lavoro più netto ed intransigente di tutta l’opera dei Tuxedomoon. Certo il più “gotico”, nel loro personale, particolare senso del gotico, e forse il migliore.

La festa di presentazione del disco, i primi di maggio, fu un incredibile successo, corredato dalla curiosa performance Urban Leisure. I commenti andavano dall’entusiasmo senza riserve di Winston Tong (la posizione dominante) al famoso commento sprezzante di Brian Eno (letteralmente "Well, doctor Sax never did perfect his invention, did he? Excuse me. I have to pee...”), che dimostra come anche un genio talvolta possa prendere una cantonata.
Il capolavoro Half Mute, col tempo, finalmente li fece notare al mondo. La Pre Records in Gran Bretagna e la Celluloid in Francia ne curavano la stampa e la distribuzione europea. Fu pure organizzata una grande tournée per il lancio del disco, come supporto all’unico altro gruppo capace di atmosfere dalla cupezza (vagamente) simile alle loro: i grandi Joy Division.
Purtroppo l’improvvisa morte di Ian Curtis pose un’inaspettata e tragica fine al progetto.
Ma ormai la cosa era andata troppo avanti: una minima fama internazionale, Tong tornato nel gruppo, con lui il partner di visuals Bruce Geduldig (che di fatto fece dei Tuxedomoon una performance band). Con le agenzie europee, vista la loro sensibilità così affine anche alla nascente scena dark, fu facile accordarsi per una tournée con loro come attrazione principale, e successivamente anche un altro album, da registrare a Londra. Sì, perché ormai Frisco era diventata troppo stretta (ricordiamo l’omicidio di Harvey Milk e il conseguente spegnersi di certi entusiasmi) e New York rimaneva in ogni modo troppo diversa e costosa (erano comunque ancora degli squattrinati).
Nel mese di giugno del 1980 uscì il loro ultimo prodotto discografico americano: il singolo Dark Companion. Una chitarra in riff di accordi, una tastiera ossessiva, una non-ritmica serrata, «an other round from my dark companion» cantava, anzi parlava ancora Steven Brown (il padre putativo / figliol prodigo Winston Tong era ancora titubante). Tra cacofonie di fiati e synth, un coretto sinistro riproduceva il riff delle tastiere, fino ad un finale dissonante e catartico. Un ballabile oscuro, psicotico ed ossessionante. Un post-punk senza batteria. Un piccolo capolavoro di dark alternativo.

Un’altra perla nera per salutare l’America. E ri-cominciare una delle carriere più affascinanti della storia del rock.

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