John Lydon in quei giorni
sembrava sempre un po in affanno. Passato il periodo del selvaggio
e ribelle Johnny Rotten, la sua personalità e statura artistica sembravano
aver segnato un po il passo: non più folle oceaniche ai suoi
concerti, non più avanguardia artistica ad oltranza. Anzi, il fenomeno
che aveva contribuito a creare, il post-punk appunto, stava evolvendo
verso soluzioni che lui non aveva previsto. Non solo, ma sembrava
che la scena in sé non tenesse molto conto della sua presenza (apparentemente
con una sola eccezione: i devastatori psico-sonici Virgin Prunes,
ma che allora conoscevano in pochi). Almeno fino alla pubblicazione
del capolavoro dark.
Con il singolo Death Disco, che tanto aveva fatto ballare nella
primavera-estate 79, il suo gruppo aveva definitivamente incorporato
nella ragione sociale la sigla Ltd (Limited, linglese per S.r.l.),
da allora la loro definizione più comune fu così lacronimo del
nome: PIL, per Public Image Ltd. Ma il principale problema della band,
in quei giorni, era il batterista. Walker infatti aveva abbandonato
il quartetto nel gennaio di quell'anno 1979 sbattendo la porta e la
sua sostituzione si rivelò cosa piuttosto complicata, con il succedersi
di almeno cinque persone al suo posto. Colui che resistette maggiormente
fu un certo Richard Dudanski, col quale il gruppo registrò gran parte
del nuovo materiale, ma spesso anche l'inesperto Levene dovette intervenire
ai tamburi. La formazione, infine, si stabilizzò col giovane Martin Atkins,
già batterista per Pete Jones.
Nel novembre dello stesso anno uscì il loro devastante capolavoro,
registrato quindi con almeno tre batteristi diversi (Dudanski, Levene
ed Atkins). Metal Box doveva il suo nome alla copertina metallica,
simile al contenitore delle pizze cinematografiche, che
conteneva la prima edizione composta, assurdamente, da ben cinque
45 giri!! Successivamente, visti i costi di una simile operazione,
il titolo fu ristampato come doppio Lp, con una copertina normale
dallimmagine distorta, i brani in una diversa sequenza e con
il poco fantasioso titolo di Second Edition.
Oltre al famoso (o famigerato) leader, erano sempre loro: lacidissimo
chitarrista Keith Levene (ora polistrumentista, anche ai synth) ed
il poderoso bassista dub Jah Wobble. E solo loro potevano confezionare
il lungo delirio di Metal Box, che porta alle estreme conseguenze
le intuizioni del precedente Public Image (First Issue), ovvero
le due canzoni più sperimentali ed oltraggiose di quel
titolo: la prima, devastante, Theme e lultima, sconcertante,
Fodderstompf. Anche in questo caso (stranamente, perché di
solito simili brani li si tiene verso il fondo) il disco comincia
con un brano lungo e sperimental-oltranzista: i dieci minuti e mezzo
di Albatross.
Ed era quel basso a cominciare Albatross, quel basso così esotico,
così caraibico, così poco inglese (Jah Wobble era, è, proprio un genio),
ma al contempo così opprimente, fino ai primi rintocchi di batteria
e ad una chitarra anche ora messa in secondo piano. «Slow motion»
si sente di sottofondo. Ed è un John Lydon che più dimesso e depresso
non si potrebbe, praticamente irriconoscibile, «getting rid of the
albatross» (qualunque riferimento alla celebre Ballata del Vecchio
Marinaio di Coleridge sembra tutt'altro che casuale). Sì, sono
proprio loro che tornano e in gran forma: un basso dub carro
armato, una chitarra straziata ed ipnotica in sottofondo, una
batteria precisa e funerea, un canto psicotico indefinibile: alla
cacofonia si era ora sostituita, ora semplicemente aggiunta, la depressione.
Dieci minuti e mezzo da incubo.
Il ritmo più veloce e il basso più normale della successiva
Memories (il singolo che accompagnava l'album) non devono ingannare.
Certo, al canto Lydon torna lui, ma la disperata depressione esistenzialista
(ed un pizzico auto-commiserativa) non viene certo meno. È vero che
si tratta forse dellultimo pezzo in cui si avvertono lontane
influenze punk, soprattutto nelle parti centrali, ampiamente compensate
però dai bellissimi arabismi chitarristici di Levene e comunque dallatmosfera
generale. Seguendo la sequenza di Second Edition,
si cambia facciata e riecco Death Disco, qui giustamente ribattezzata
Swan Lake. Un funk pesante e claustrofobico, due tipi di chitarre:
una in sottofondo atmosferica e una in primo piano distorta e ritmica.
Rispetto alle prime due si ha limpressione di trovarsi davanti
ad una canzone normale, con riffino chitarristico che richiama il
tema del Lago dei Cigni di Tchaikowski e voce che passa con
disinvoltura dal gridato punk alla cantilena muezzin. Insomma, anche
qui di normale cè ben poco
anche perché il
brano fu composto, sembra, per compiacere alla madre di Lydon, malata
terminale di tumore (
!).
Ma un devastante basso dub interrompe improvvisamente a disegnare
le linee ritmico-melodiche della successiva Pop Tones, uno
dei loro capolavori di alienazione. Il giro di basso è trascinante
e ricchissimo, la chitarra molto in sottofondo, la batteria (Levene)
quasi un accompagnamento ipnotico. La voce poi, così in sordina, così
dimessa, prima quasi un sottofondo parlato, poi una filastrocca sballata,
che lascia presto il posto al mirabolante basso. Parla di una ragazzina
rapita e stuprata da due tizi che tenevano nello stereo dellautomobile
sempre la stessa canzone. Alla fine la polizia riesce ad acciuffarli
perché lei riconosce il brano! La voce riprende straziante poco dopo
per accompagnarci con la sua sghemba melodia per una lunga strofa,
prima che una lunga parte strumentale, piena di imprecisioni ed errori
voluti, porti il brano a termine. Altri quasi 8 minuti esangui ed
esasperanti.
Più scanzonato il tempo che introduce Careering, ricca di effetti
elettronici, ma una nenia lamentosa fa capolino e rende il brano un
altro incubo metropolitano, stavolta sullalienazione del sistema-carriera:
«a face is raining / across the border / the pride of history / the
same as murder». Con un quasi insostenibile senso di oppressione il
primo vinile finisce.
Apparentemente molto diverse le atmosfere del secondo. Socialist
è uno strumentale quasi techno: moltissima elettronica (Levene è passato
dalla chitarra al sintetizzatore) e ritmo veloce e sincopato, una
sorta di pow-wow difficilissimo da ballare. Graveyard è più
andante, basso molto reggae, chitarra quasi monotonica,
batteria a seguire. Sembra più unimprovvisazione che un brano
vero e proprio. Si tratta di un altro strumentale danzereccio: Lydon
sembra sparito. Eppure Graveyard ricomparirà
come Another, la b-side del singolo Memories, questa
volta cantata dal nostro.
Ed eccolo, Lydon, fare capolino con una nenia sinistra e beffarda,
quasi parlata, su una reaggata al massimo di Wobble. The Suit,
questo il titolo, deride la sicurezza borghese: tennis il martedì,
sorbire champagne, calcio la domenica, casa sul treno, è la tua natura.
Ed una batteria pesante, col suo bel basso dietro, interrompe con
la successiva, ferocissima Bad Baby. Basso, batteria, voce
e basta, voce su una melodia sghemba e mongoloide, ma sinistra. Solo
occasionalmente una o due note di tastiera, in un prezzo senza armoniche,
ma talvolta con doppia voce, quasi una minaccia infantile. Il synth
poi riprende il suo ruolo e con una serie di note tra il dissonante
e il casuale accompagna il folle brano per un po, per poi lasciarlo
agli originari basso-batteria (e poi voce).
Lultima facciata del doppio Lp si apre con il veloce ritmo reggato
di No Birds (do Sing), batteria spesso tribale, laddove però
la voce tocca un apice di spasticità e solitudine (su un verso preso
in prestito da Keats), non aiutata da una chitarra acuta in
riff ipnotico. Una flippata rappresentazione della pazzia e dellalienazione,
dellillusione del tutto, uno psicodramma più allucinato che
drammatico. Occasionali inserti di piano, insomma uno dei loro capolavori,
se solo fosse più facile ascoltarlo.
Poi latmosfera cambia bruscamente, il tempo è un binario rallentato
(comunque si tratta sempre di un ritmo sostenuto), la chitarra si
fa più punk, dura e ossessiva. Una voce ripete ossessivamente quattro
monosillabi quasi incomprensibili (run, walk, steal,
hey?), ed unaltra intona crudelissima e spietata la sua
melodia sinistra. Si tratta di Chant, uno dei brani che li
ha resi immortali: capolavoro psicotico e minaccioso della desolazione
mentale. Finché unaperta nota dorgano interrompe bruscamente
questa sorta di scossa nervosa e ci porta allultimo rilassante
strumentale: Radio 4, composta esclusivamente da Levene, nonostante
un accenno di basso comunque in dub, tra laltro presto terminato,
è lestasi di pace dopo la tempesta, unoasi di relax interiore
dove la mente malata e torturata va a rifugiarsi per sfuggire alla
normale pazzia del mondo. Un balsamo, veramente, per i nervi ormai
a fior di pelle dellascoltatore. Eppure, poco prima della fine,
una sorta dinquietudine sembra tornare ad aleggiare minacciosa,
ma ormai è tardi ed il brano sfuma.
Con Metal Box John
Lydon ed i PIL, per utilizzare le parole dello Scaruffi, plasmano
la forma da camera del dark-punk. «Il nuovo sound ipnotico e danzabile,
costruito a strati di synth, a spasimi di basso, sostiene i ritorni
oltretombali ora demoniaci ora infantili del canto, puntellato dalle
fitte dissonanti della chitarra». Compongono sì un assoluto capolavoro
del dark, ma la loro, lungi dall'essere semplicemente "rock gotico",
fu una musica psicologica dilaniata da tormenti interiori, compiendo
anche loro, come tutto il dark e buona parte della new wave stava
facendo o cercava di fare, il cambiamento di prospettiva in direzione
diametralmente opposta rispetto al lavoro dei Sex Pistols: lì la rabbia
era usata come urlo verso il mondo esteriore, qui la pazzia è tutta
nella solitudine più desolata e intima. Come si è già detto, dall'alienazione
del popolo metropolitano verso l'angoscia individuale.
La paura non è quindi paura di morire. Ma è la molto più angosciante
paura di vivere.
Ritornato saldamente in testa
alla sperimentazione più di tendenza, finalmente ancora baciato da
pubblico e critica (benché i consensi da Sex Pistols erano ancora
lontani), Lydon riacquistò lantica sicurezza di sé. E forse
anche una certa arroganza. Le cui conseguenze non tarderanno a manifestarsi.
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