2.6 The Boys Next Door – Hee-Haw + Birthday

Certo, lo spettacolo dei Boys Next Door era sicuramente qualcosa di gotico, nonostante il deludente risultato dell’album Door Door. Vestiti di nero, con i capelli dritti in piedi o scarmigliati, sul palco i cinque erano una vera forza brutale della natura, degli Stooges con venature sinistre. Phil Calvert, biondo e allucinato, sembrava una macchina indemoniata ai tamburi, Tracy Pew, perennemente sotto l’effetto dell’eroina, imbracciava il basso ondeggiando inebetito e selvaggio, Mick Harvey, freddo e cerebrale, sembrava quasi non esserci: osservava il pubblico (o lo stesso spettacolo che i suoi compagni stavano mettendo in scena) con distaccata e allucinata ironia.
Ed i due leader? Rowland S. Howard, l’uomo-chiodo (per magrezza), perenne sigaretta in bocca, occhio a palla, si contorceva in modo inquietante emettendo i suoni più strazianti dalla sua chitarra, o eventualmente anche dal sax, mentre Nick Cave era un vero animale scatenato: saltava, ululava, assumeva a volte pose plastiche e a volte scimmiesche, con tutto il corredo di grida gutturali e gesti minacciosi. Per il pubblico un loro concerto era una via di mezzo fra estasi e tortura.
Per questo il loro manager, Keith Glass, proprietario del negozio di dischi Missing Link volle assolutamente che incidessero un nuovo Lp: Door Door non li rappresentava neanche da lontano. In effetti la produzione fu affidata alla micro-etichetta interna di Missing Link, che era però agguerrita, ben distribuita nell’underground australiano e con ottimi contatti nella lontana Inghilterra.
Richiamato il tecnico del suono Tony Cohen, con cui avevano già ottimamente lavorato per gli ultimi quattro brani del loro precedente album, i ragazzi si richiusero in sala di registrazione nell’autunno del ‘79, lasciando libero accesso alla droga e alla creatività.
Il risultato fu pubblicato a fine novembre di quell’anno: si trattava dell’Ep Hee-Haw, che suona come l’italiano “hi-oh”, il raglio dell’asino. La raffinata copertina a tinte pastello certo non poteva far immaginare il contenuto del disco, decisamente esplosivo per la tranquilla scena australiana di allora. Una sventagliata aperta di chitarra seguita dal ritmo pulsante del basso lasciato solo introducono A Catholic Skin, brano massiccio e dall’incedere quasi marziale. La voce di Nick rispetto a Door Door è più libera nei suoi gorgoglii malati, così le chitarre di Howard e Harvey sono più ficcanti e distorte nei loro riff beffardi. Effetti elettronici, echi e riverberi sulle voci, il brano però finisce un po’ presto.
I sassofoni di Harvey segnano la melodia sghemba della successiva The Red Clock, creando una strana atmosfera da paura. La voce, dopo la prima melodia, scende in una sorta di coro basso e minaccioso. Il brano, tuttavia, non è mai incombente o claustrofobico, ma con le sue scale irregolari e col suo tempo ben scandito dal giro di basso di Pew mantiene sempre una certa leggerezza. La parte finale attacca con pseudo-assolo di chitarra distorta e batteria frenetica e reintroduce i sassofoni che porteranno al termine. Però poi la chitarra beffarda come una zanzara intona uno strano giro frenetico, finché fragorosa non entra la sezione ritmica. Pausino, si ricomincia, poi entra anche una voce alta e a singhiozzo: si tratta della pazzoide Faint Heart, dove la voce si libra in tutte le direzioni della follia («alone in the dark» è il refrain) e il ritmo sotto è frenetico e incalzante ma spezzato e irregolare. Un punk folle che poi viene interrotto da suoni inarticolati e in libertà, in una sorta di pausa dalla ragione. Rumori patafici, suoni casuali, ma ecco, da lontano, la chitarra-zanzara e il brano riprende la sua folle corsa fino alla fine.
Sassofoni distorti e fuori scala con chitarra straziata introducono Death by Drowning, che però assume subito un tono basso e molto dark, con batteria marziale. La voce sussurrata, quasi suadente, parla di ricerca di aria e del dolore di una morte orribile, soprattutto quando il pezzo sale di tono e il sax acutissimo e distorto disegna un riff beffardo tipico loro. L’acuta distorsione del sax raggiunge il parossismo poi il pezzo torna tranquillo e minaccioso per un secondo giro. Ma in seguito la chitarra assume il suo ruolo e la voce spastica di Nick grida per poco i suoi deliri, poi tutto torna come prima, per l’ultimo, devastante giro. Bellissima!
L’ultima The Hair Shirt è il pezzo forte del disco: un inizio sostenuto ma quasi normale, finché il grido strozzato e inarticolato di Nick fa partire la terribile macchina ritmico-rumorista dei cinque in una cavalcata mozzafiato. Per un attimo la voce torna intonata e “appassionata” come nel precedente album, ma in un contesto diversissimo. Stacchetti, pause tattiche, non fanno che aumentare l’effetto trascinante del brano, soprattutto quando la chitarra è libera di sventagliare a piacere. Altre voci distorte e torturate si aggiungono, in un brano libero e selvaggio quasi un prototipo del marchio di fabbrica di Cave. Anche se l’allucinante parte di chitarra al terzo minuto è tutta opera di Howard…
Si può tranquillamente affermare che Hee-Haw stia a Door Door come la seconda parte di quel disco stava alla prima, anzi forse il contrasto è ancora maggiore. Finalmente i Boys Next Door erano riusciti ad esprimere compiutamente il loro devastante potenziale! Eppure la cosa non servì a molto. Il disco passò quasi inosservato, apprezzato con sufficienza dalla parte più radicale dell’underground australiano. Per i Boys la delusione fu grande. L’Australia non li amava particolarmente: ricca e benestante, con un’economia in continua espansione, sembrava proprio non avere bisogno di loro. Era l’eterno confronto fra apocalittici e integrati, che stavolta andava loro contro.
La decisione, con Glass, fu quindi presto presa: bisognava trovare il coraggio a due mani ed affrontare l’avventura in Inghilterra. Laggiù la musica era in pieno fermento, un posto per loro ci sarebbe sicuramente stato.
I Boys Next Door diedero il loro ultimo concerto nella terra natia il 16 febbraio 1980, al Crystal Ballroom. Per quella data avevano preparato anche il loro nuovo 45 giri, dato gratuitamente agli astanti. E fu ancora sorpresa. Il lato A, Happy Birthday, iniziava ancora con chitarre in libertà, fino all’ingresso devastante di un enorme Tracy Pew e dalla batteria precisa e scandita di Calvert. La voce sembrava ordinata anche se lievemente ossessiva («It’s a very happy day / We are at lots of fun fun fun / And it’s ice-cream and jelly / and a punch in the belly»), fino ad un vocalizzo allucinato in alto. Poi l’assurdo ritornello, con coro call and response irresistibile e grida scimmiesche del cantante. Poi la chitarra si perdeva in suoni inarticolati e psico-elettronici, mentre sotto Pew procedeva inamovibile col suo ipnotico giro. Una rullata di tamburi ed il brano riprendeva impetuoso fra grida gutturali e chitarre straziate, fino all’orgia vocal-tribale del finale «running round the house».
Happy Birthday era un vero esempio di musica selvaggia e rivoluzionaria, pur rispettando una struttura precisa (e a modo suo orecchiabile) e la tradizione del call and response. Fu uno dei loro capolavori, da allora immancabile dal vivo. Il pur piacevole retro, Riddle House, con chitarra in reggae distorto e voce adulta, non lasciò nessuna traccia di sé. Da notare comunque l’assolino centrale per oboe arabo, una chicca del bassista Pew, che una volta tanto prendeva il posto del polistrumentista Harvey.

Col cuore gonfio di una delusa amarezza, i cinque ragazzi abbandonarono l’Australia alla volta di Londra, con grandi speranze e nessun rimpianto. La storia saprà come ricompensarli.

indice - avanti