2.3 Wire - 154

Tra gli assoluti prime-movers della scena post-punk, con un eccellente album come Chairs Missing decisamente anticipatore di sonorità oscure, gli Wire rifecero capolino sulla scena musicale inglese (ed internazionale) con l’album 154, il loro capolavoro dark, anche loro nel settembre del ‘79.
In effetti i meritatamente celebratissimi quattro venivano dalla pubblicazione di un singolo avvenuta nel mese di luglio: A Question of Degree / Former Airline. Il primo brano partiva subito con una ritmica serrata su un tempo quasi ska e proseguiva con effetti elettronici e chitarrismi ritmici distorti. Il pezzo in qualche modo negava le ricerche più oscure di Chairs Missing, riportando il gruppo a certo punk-rock intelligente e un po’ surreale degli esordi; tuttavia, verso la fine, l’aggiunta di una tastiera in chiave minore dava come un senso di malinconia al brano, che andava terminando in una serie di crescendo tonici e catartici. Former Airline, invece, riprendeva una certa cacofonia elettronica loro tipica, certamente non meno patafisica, ma più sinistra ed inquietante. Sarà su questa falsariga, oltre che sulla ricerca più oscura dell’album precedente (si ricordino brani come Practice Makes Perfect o Heartbeat), che gli Wire fondarono 154, titolo corrispondente al numero di concerti finora sostenuti dai quattro.
Sì perché senza la ricerca cominciata su Chairs Missing e, inutile negarlo, l’influenza dell’atmosfera “notturna” che si respirava in giro (dalla trilogia berlinese in poi), 154 non avrebbe potuto essere così oscuro ed affascinante. Certo, influenzato nel mood dai Joy Division (che a loro volta erano stati influenzati dagli Wire), ma con suoni così all’avanguardia da essere più volte imitati dalle varie generazioni di musicisti dark che seguiranno. Ciò che purtroppo non verrà imitato è la loro ispirata ed ironica intelligenza, vero marchio di fabbrica del cantante (e chitarrista) Colin Newman, del chitarrista Bruce Gilbert, del bassista e cantante tenebroso Graham Lewis e del batterista Robert Gotobed.
154 si presenta con una bellissima copertina in cui, su sfondo bianco, appaiono tenui curve in colore pastello, contrastate da un duro angolo retto in nero, a comporre un arazzo astratto del senso di vuoto e di solitudine. Si comincia subito con un brano notturno, la bellissima I Should have known Better: un colpo di piatti, la cassa ripetuta, il giro di basso contrappuntato da una chitarra quasi reggae, la voce profonda di Lewis a cantare un testo di pentimento che muta in vendetta. Un pezzo dalla struttura complessa, sebbene il tono dimesso ed un ritmo invariato lo facciano sembrare tutto molto simile.
Poi il ritmo accelera e con esso aumenta la tensione, con 2 People in a Room: ritmo serrato sul rullante, la voce più alta e melodica di Newman, una chitarra ripetitiva e minacciosa, una back-voice gridata. Dopo questa scheggia sinistra, torna un po’ di serenità con The 15th, un brano melodico e quasi allegro. Ma la voce bassa e tenebrosa di Lewis torna presto, con l’apertura della successiva The Other Window, dotata di coretto quasi beffardo. Voce sola con effetti chitarristici di sottofondo, finché non entra una pesantissima sezione ritmica. Il senso di rassegnata claustrofobia ha dello straniante. Ma anche qui si tratta di una quasi-scheggia (i brani da pochi secondi di Pink Flag non ci sono più) prima dell’almeno altrettanto notturna Single K.O., cantata da Newman e dal bellissimo arrangiamento di chitarra. È un brano strano, che evolve in senso più arioso… anche la voce viene ad assumere strane assonanze punk, prima della chiusura.
Ma è un arpeggio oscuro e lugubre quello che apre la successiva A Touching Display, vero capolavoro dark del disco, oltre che uno dei brani più belli della stagione. L’arpeggio si accompagna ad altri strumenti effettati e diventa cacofonia, in crescendo fino ad uno stop, che svuota la canzone e fa ripartire l’arpeggio. Una nota continua di chitarra accompagna la voce bassa di Lewis che canta serena ma “sul chi vive”. Sventagliate di chitarra si sovrappongono e la batteria da tribale diventa ritmica, sul verso «will she save me, from what or who, I do not know». Poi la voce esce di scena, sostituita da una chitarra nera come la pece su una batteria tornata percussiva. Il tempo accelera e con esso la tensione, sempre crescente, a volte straziante, gotica all’inverosimile. Una cacofonia di chitarre distorte chiude un brano lungo e devastante.
Un’altra scheggia, tra il reggae-punk ed un intelligente divertimento, On Returning, fa da stacco prima della successiva A Mutual Friend. Anche qui un inizio notturno a due chitarre, una con una sua melodia malata, l’altra reiterata in sottofondo. Basso “a morto” e voce dimessa di Newman a comporre una nenia depressa sul tema della lontananza. Occasionalmente interrotta da stacchetti e minime varianti, anche A Mutual Friend sarà un loro must interiore, con finale epico «he might replace the old quite soon, he might replace the old with the moon». Più ariosa la successiva Blessed State, a ricordare che la ricerca musicale degli Wire è decisamente a raggio più ampio delle sole atmosfere funeree ed oscure. Bella, anche se un tantino ripetitiva, fino ad un finale quasi solare.
Una piccola distorsione chitarristica prima della cassa ripetuta e forsennata della successiva Once is Enough, brano forte e minaccioso. Punk eppure oscuro, semplice e complesso, patafisico ma umbratile, con a metà un urlo crescente e distorto da panico. Sono gli Wire più combattivi e ansiogeni, cacofonici (che finale!) ma sempre dietro una forte intellettualità. Che sospiro di sollievo le note melodiche della successiva Map Ref. 41°N 93°F, che qui su 154 ha la stessa funzione che I Am the Fly aveva su Chairs Missing: singolo gradevole e commerciale.
Uno stranissimo passaggio di chitarra introduce la successiva Indirect Enquires, laddove il parlato di Newman dà un senso oppressivo e marziale. Un coro lugubre fa capolino: sarà una delle cose più imitate del dark. Poi la voce, sempre declamando, sale di tono finché un altro coro la rimette a tacere. Poi comincia con «you’d been defaced» e la ripetizione diventa ossessione, paranoia, le voci si moltiplicano, l’angoscia esplode. Un altro must.
Una serena intelligenza illumina della sua calma l’ultima, 40 Versions, dove una melodia fa timidamente capolino fra le note di questo bellissimo disco. Una sorta di lieto fine, per non lasciare troppo attonito l’ascoltatore. Gli Wire, al contrario di molti appartenenti alla “chiesa” gotica, non amavano troppo effetti spettacolari fini a se stessi. Era altro ciò che volevano comunicare.

Opprimente, sinistro, spesso minaccioso, con l’uscita di 154 gli Wire misero a segno quattro colpi in uno:
1) Era il loro terzo capolavoro in tre anni, sempre al passo con i tempi, se non decisamente in anticipo.
2) Il passo con i tempi era segnato dall’oscurità dei loro suoni, sempre più curati, sempre più tenebrosi.
3) Avevano quindi creato un modello, più volte “saccheggiato” da musicisti e produttori, gotici e non.
4) La loro fama, di coseguenza, era cresciuta in maniera esponenziale.

Sembravano destinati a diventare il gruppo più celebre ed influente del rock inglese. Ma un destino avverso era in agguato. Il capolavoro 154, tuttavia, rimase immortale.

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