La morte di Ian Curtis è stata senz’altro l’evento che aveva segnato la (tarda) primavera del 1980. Questo gruppo dalle umili origini, i Joy Division appunto, nobilitati da un album capolavoro destinato ad influenzare generazioni di musicisti, con la scomparsa del loro frontman raggiunsero uno status che va oltre la fama, che sconfina nel mito. La notizia ebbe una tale eco che non solo un semplice gruppo, ma tutto un fenomeno underground, come la nascente scena gotica, emerse agli onori della cronaca intercontinentale. Ammutoliti dallo sgomento, fan, amici e musicisti più o meno “concorrenti” cominciarono a divorare ma soprattutto a diffondere a macchia d’olio Unknown Pleasures e la piccola manciata di singoli di cui il gruppo era titolare.
Certo, ammutoliti ed attoniti dallo sgomento, ma solo per pochi giorni. Alla fine di quello stesso mese di maggio testimone della tragica scomparsa, la Factory diede alle stampe e alla distribuzione il singolo Love Will Tear us Apart / These Days. Ed infuriò la polemica. C’è chi giustamente parlò di mossa cinica, chi di vergognosa speculazione sulla memoria di un grand’uomo. Per non parlare della copertina, sempre opera di Saville, che viste le circostanze non poteva non apparire di dubbio gusto: sembrava una lapide. Eppure l’interessato si affrettò a spiegare che altro non si trattava che di un pezzo di metallo rimasto ad ossidare sotto la pioggia.
Ma oltre all’attenzione morbosa per la recente scomparsa, ciò che rese Love Will Tear us Apart il brano in assoluto più venduto dei Joy Division furono le sue caratteristiche musicali. Si trattava di un brano molto melodico, con batteria danzereccia in 4/4 e pesante arrangiamento di synth sulla melodia dominante (orecchiabilissima). A ciò si aggiunga che suonava come (ed in effetti era) una canzone d’amore, e giù le ragazzine ad impazzire ed acquistarne migliaia di copie. Questo fu il disco che fece definitivamente emergere il “fenomeno dark” e probabilmente fece più lui per l’affermazione del new romantic di quanto i geniali primi Ultravox (in via di scioglimento) o gli ambigui Japan (che invece godranno un riconoscimento generale) finora erano riusciti a fare. Un po’ in tono minore il retro: These Days era un brano qualsiasi, insipido, mal arrangiato, con l’eccezione di un bell’assolo di synth in mezzo, purtroppo eccessivamente breve.
Tra la confusione delle voci, diverse erano le critiche: Love Will Tear us Apart era visto come troppo commerciale per essere stato scritto dagli autori di Unknown Pleasures, logico epilogo di una parabola discendente che, a detta di alcuni, aveva caratterizzato tutta la loro produzione di singoli, con forse l’unica eccezione di Atmosphere. Il 9 maggio doveva uscire il nuovo Lp, ma problemi con la copertina e con il missaggio ne ritardarono l’uscita a metà luglio. C’è da dire che, con la sua comparsa nei negozi, Closer, il nuovo Lp dei Joy Division, fece luce su tante questioni. E mise anche molte malelingue a tacere.
Ma contemporaneamente molte altre cominciarono a parlare, per polemizzare ancora una volta sull’immagine di copertina. E qui forse qualche ragione l’avevano pure: per quanto il concept fosse stato studiato precedentemente dal gruppo e da Saville, una tomba monumentale, dopo la morte di Curtis, è stata veramente una mossa di cattivo gusto. Tuttavia Closer fu un altro capolavoro assoluto del rock inglese, proprio nel momento in cui i Joy Division, in seguito alla tragica scomparsa del frontman, erano il gruppo più ascoltato della neonata scena dark.
Copertina poco felice, si diceva, e anche qualche piccolo errore nel missaggio, con il quale si erano un po’ ammorbiditi i suoni, un po’ troppo forse, dando così l’impressione di un Lp più fiacco e scialbo rispetto ad Unknown Pleasures. Nella realtà su questo disco le atmosfere si fanno meno rabbiose e più fataliste, aumentando considerevolmente la sensazione claustrofobica di sconfitta e rassegnazione.
Là per là non sembrava… Il primo brano, Atrocity Exhibition, comincia con un bel piglio aggressivo: batteria quasi tribale ed ipnotica, poi ingresso fragoroso di basso e una chitarra sferragliante e torturata come non mai. «This is the way, step inside» proclama una voce disincantata e quasi atonale, un Ian Curtis maturo a livelli decisamente impressionanti. Il pezzo si snoda, tra l’industriale ed il sonico per sei minuti di angoscia tribale ed ipnotica, come la batteria di Steve Morris. Un must, ma che dire di ciò che seguiva? Isolation sarà un altro loro capolavoro, per ritmo e tema affrontato, impreziosito da un raffinatissimo arrangiamento di synth. Forse la più bella canzone mai scritta sul tema dell’isolamento e del rapporto con la madre: tempo sostenuto, voce effettata e ancora più disincantata (ai limiti dell’ironico, o forse sarebbe meglio dire del sarcastico), synth reiterato ed accattivante, ma psichico e mai banale. Con un inizio simile Closer aveva già lasciato perfettamente intendere di che pasta era fatto.
Eppure dietro l’angolo ecco un terzo capolavoro: Passover. Qui il ritmo rallenta, l’atmosfera si fa più intima. Ian Curtis torna alla sua tonalità più depressa e sconsolata. «This is the crisis I knew had to come, destroying the balance I’d kept». Lui non affrontava mai problematiche sociali; irrompeva nel suo proprio privato e lo distruggeva attraverso un’autoanalisi spietata. «I know that I lose every time» è il suggello alla canzone e probabilmente al senso della sua arte.
In mezzo a simili capolavori, una canzone bellissima e straniante ma leggermente più scolastica come Colony, con il suo riff sincopato, dà un attimo di respiro all’ascoltatore. Poi entra fragoroso il basso pompato ed epico di A Means to an End, brano dai forti contrasti: una cavalcata depressa? La marcia trionfale del perdente? Comunque un inno rabbioso all’amicizia tradita, alla fine di ogni fiducia («I put my trust in you»). Era tempo che una chitarra così post-punk non faceva capolino fra i brani dei Joy Division.
Poi il pulsare basso di un synth, il rullante picchia veloce e sfuggente, una lunga introduzione musicale e poi… la voce! Quella voce così strana ed insolita per Ian. Disincantata eppure quasi ironica, distaccata, fatalista. Contrappunto straniante ad un brano che mano a mano si fa sempre più cupo, soprattutto con l’ingresso centrale della chitarra: un Bernard Albrecht al più depresso. Una serie di rullate di Morris e poi il brano riprende. Heart and Soul, cuore e anima, quale brucerà? Alla lunga e triste seppur sostenuta coda l’ardua sentenza.
Dopo quest’altro capolavoro le atmosfere sembrano tornare lente e sommesse. Ma è solo un’introduzione di Hook: il potente pompare della batteria dà nuova potenza al brano successivo, la meravigliosa 24 Hours. Ian torna alla tonalità bassa e depressa che l’ha reso immortale. Il pezzo da potente rallenta di colpo e dà modo al cantante di intonare una delle sue più lucide e sconcertanti visioni di sconfitta e premonizioni di morte. Il ritmo è altalenante, ora veloce ora lento, ma il tono, e con esso il senso di sconfitta, non cambia. «Got to find my destiny, before it gets too late». La forza di queste parole, soprattutto alla luce di quello che era GIÀ avvenuto, rasenta l’insopportabile.
Seguono e chiudono il disco due brani che hanno scritto la storia del dark. Due capolavori lenti di intimismo depresso, due punti di riferimento imprescindibili (come del resto era stata I Remember Nothing) per tutto il gothic d’atmosfera di là da venire.
La prima, The Eternal, inizia con un frinire di lontani sonagli di sabbia (ovviamente sintetici), poi Hook entra enorme, e scandisce. Un piano malato mette tutti a tacere, con la sua nenia lugubre, solo Morris lo accompagna in modo importante. La processione si muove, le grida sono finite, così comincia una delle linee vocali più depresse, ma ancora una volta disincantate, che si ricordino. Questo distacco nell’ineluttabilità del dolore evita a Ian l’accusa di autocommiserazione che talvolta era emersa su certi brani di Unknown Pleasures. Una sezione ritmica “a morto”, un synth a mo’ di coro lugubre, un piano lamentoso e corrotto, la voce di un profeta di follia, il tutto in salsa funeraria. Una ricetta sinistramente splendida e immortale.
Ma cos’è il suono che segue? Una serie di scontri metallici che vogliono essere percussivi? Sincopato il basso pennella il suo tempo, fino all’ingresso trionfale e quasi solare di un synth reggaeggiante, in un nuovo, straniante effetto depressivo. «Here are the young men, a weight on their shoulders; here are the young men, where have they been?». Ecco, oltre alla sua inesprimibile bellezza, il segreto di questa canzone, Decades, stava in queste parole. Il dolore, la sconfitta, la necessaria rassegnazione di Ian Curtis diventano il dolore, la sconfitta e la rassegnazione di una generazione intera. Quasi beffardo, il sintetizzatore pennella le sue tinte solari fra i vuoti ed i pieni del brano («where have they been?»), fino a rendere straziante ai limiti della tollerabilità un dolore che da collettivo torna a farsi privato, per colui che ascolta. È Decades, il capolavoro definitivo e finale dell’album, e fors’anche di un genere.

Questo è Closer, probabilmente il disco più importante fra quelli recensiti in quest’opera. Ma la sua impressionante bellezza lasciava aperto, fra gli altri, un altro interrogativo d’angoscia: che cosa, oltre?

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