2.1 Siouxsie & the Banshees – Join Hands

Che stagione di gloria, per la neo-incoronata regina del dark! Ebbene sì, proprio lei, Siouxsie Sioux, con i suoi Banshees prima aveva contribuito a fondare il dark, poi aveva dato alle stampe uno degli album più belli della stagione appena trascorsa, The Scream, ed infine, in primavera, aveva anche pubblicato un altro singolo un po’ ruffiano, quindi di successo, come The Staircase (Mistery).
Eppure neanche lei sembrava potersi sottrarre alla devastante e funerea influenza di un album come Unknown Pleasures, benché lei costituisse un esempio alternativo di dark. Infatti il genere, finora, si era concentrato su certo esistenzialismo depresso, sul senso di inadeguatezza e sconfitta, mentre la nostra parlava più di mostri e fantasmi (ricordiamo che le banshees erano figure spettrali femminili nella tradizione gaelica, soprattutto scozzese), nel senso di simbologie interiori. Se si occupava di drammi umani, lo faceva parlando di piccole prevaricazioni o grandi vizi, con un certo gusto per il macabro (come per il testo di Carcass). Solo i lontani Tuxedomoon affrontavano alla lontana, appunto, tematiche simili.
Certo, la musica era più o meno quella: un post-punk energico, anche se a tratti depresso e comunque a tinte cupe.
Preceduto ad inizio estate dal bel singolo Playground Twist, la fine di agosto vide l’apparizione dell’album Join Hands. I Banshees erano gli stessi: Siouxsie alla voce, il fido Steve Severin al basso, l’eccellente chitarrista-sassofonista John McKay (cui, fra l’altro, veniva attribuito il merito delle soluzioni musicali di The Scream) e Kenny Morris, batterista ossessivo ed un po’ tribale. Copertina bianca con 4 soldatini di piombo, eppure il contenuto non avrebbe potuto essere più nero. Join Hands sarà infatti l’album dai suoni più cupi ed oscuri, quindi più dark, della loro intera produzione; eppure non fu influenzato da Unknown Pleasures, come molta stampa erroneamente suppose. Infatti quell’album uscì alla fine del mese di giugno, quando ormai anche la registrazione di Join Hands era completata. Di cosa si trattava allora, di un’inquietante ma felice coincidenza? Forse fu proprio così, di quelle coincidenze capaci di dar origine ad un genere musicale, di far nascere un mito.
Si comincia con Poppy Day (“il giorno del papavero”) ed è una dichiarazione d’intenti: due angoscianti minuti di assoluto silenzio, rotti da una campana prima e dalla straziata chitarra di McKay dopo, seguita dal basso e da una batteria martellante. Un effetto oscuro e claustrofobico accentuato ulteriormente dalla voce effettata di Siouxsie che declama una sorta di filastrocca funebre dall’eloquente finale: «we are the dead». Un pezzo fortemente voluto da Severin, impressionato dalle manifestazioni per i caduti delle due guerre, infatti il brano dopo, Regal Zone, mantiene il tema bellico. Iniziato dalla chitarra distorta e dissonante, sarà presto il sassofono a dare la sua nota lugubre su un tempo molto ritmato. Una danza psicotica e perversa, per quasi quattro insostenibili minuti monocordi e devastanti. E così sarà per la successiva Placebo Effect: comincia con un riff chitarristico distorto accompagnato da charleston e basso, fino all’ingresso dell’inquietante voce di Sioxsie. Poi parte un’altra danza psicotica sullo stesso riff, con un testo sull’isteria che ripete ossessivamente il titolo.
Ma il meglio doveva ancora arrivare: anche Icon comincia con un riffino distorto di chitarra (con cassa a segnare il tempo), ma la voce è molto più soffusa e sofferta. Dopo due strofe la voce si alza di tono, la chitarra cambia riff ed un basso scatenato con una batteria tribale fanno da base ad un cantato dolente e straziato, «icons - feed the fires, icons - falling from the spires». Ora ed ancora la danza si scatena e proseguirà così fino alla fine. Il grido melodico ma sofferto di Siouxsie non può non lasciare impressionati.
La successiva Premature Burial, dal titolo che fa rabbrividire, ha un inizio molto in sordina. Sarà poi la batteria a scandire un tempo ripetitivo ed a sostenere la chitarra. Il cantato di Siouxsie è una delle sue migliori melodie tenebrose su temi catacombali, con coretto/controcanto ad aumentare, per paradosso, l’effetto funerario. Forse certi termini oggi possono suonare un po’ ingenui (“doing the zombierama”), ma nell’immaginario collettivo Premature Burial rimarrà una pietra miliare, anche per il coro tenebroso nel finale (poi altro marchio di fabbrica del dark) sull’invocazione a sorelle e fratelli.
Perla nera di bellezza sarà anche la successiva, il purtroppo breve singolo Playground Twist, dal ritmo sostenuto da campane e dalla chitarra compressa. “Impiccato, impiccato, fuggi dai tuoi nemici e cadi sulle ginocchia, in ginocchio, in ginocchio”, canta Siouxsie, poi un’altra strofa, prima che il tenebrosissimo sax di McKay faccia la sua comparsa a sottolineare la partitura dominante. Un must dell’estate 1979. Ma ecco che uno straniante carillon si fa spazio su quello che sembra il finale della canzone… ebbene sì, un riff di carillon (ma essendo tale, è necessariamente ripetitivo), ovviamente un po’ angosciante, fa da unico accompagnamento alla successiva Mother/Oh Mein Papa, una sorta di filastrocca allucinante con due parti vocali diverse sovrapposte. In una ci sono parole d’odio verso la madre (non sua madre, piuttosto verso un concetto universale di madre) nell’altra parole d’amore.
Sulla successiva ed ultima The Lords Prayer c’è effettivamente poco da dire. Il suono è duro e aspro, sembra di sentire i primi Banshees punk, degni e degeneri figli del Bromley Contingent ed autori delle prime allucinanti Peel Sessions. In effetti si tratta di un loro vecchio cavallo di battaglia live: quasi un quarto d’ora di improvvisazioni punkoidi e libere interpretazioni delle preghiere cristiane. Non esiste o forse non deve esistere un testo preciso, loro stessi non lo pubblicano fra le note del disco. Il pezzo è registrato volutamente in “low-fi”, proprio per dare l’impressione che si tratti di un live (e sicuramente un live in studio è) e per dare libero sfogo al flusso di coscienza, a volte religioso-represso, a volte sarcastico o iconoclasta. I vocalizzi funambolici e fors’anche un po’ sgraziati di Siouxsie sono l’epilogo di un vero capolavoro.

Join Hands è un disco dark come pochi ce ne sono stati, di certo il più oscuro dei Banshees. Non compreso da molti fan dei loro 45 giri, delusi dalle asprezze di quei suoni, il disco fu tuttavia il primo successo commerciale della nascente scena gotica, raggiungendo la tredicesima posizione nelle classifiche ufficiali. Non solo, ma nell’inconscio collettivo sembrerà il principale responsabile della definitiva morte del punk, essendone un riuscitissimo superamento. I Banshees sembrano il più forte ed indistruttibile gruppo oltre che del presente anche del futuro.
Pochi giorni dopo l’uscita del disco, "concessa" qualche data gloriosa, i quattro si ritrovarono ad Aberdeen in Scozia, in un negozio di dischi, per presentarlo in quella città. Purtroppo un malinteso fra il proprietario del negozio e la Polydor (cioè la disponibilità di un numero di copie molto inferiore a quello accordato) manderà su tutte le furie Morris e McKay, che se ne andranno sbattendo la porta.
I Banshees si troveranno quindi nella bufera: ridotti al 50% (cioè senza chitarra e batteria) non riusciranno a proseguire con le date previste, nonostante l’aiuto chiesto ai vecchi amici Marco Pirroni (ricordate? Altro ex-Bromley, ora Rema Rema) e Robert Smith, il chitarrista-cantante dei Cure. Sembrava la loro fine, sicuramente una formazione geniale era stata uccisa praticamente in culla.
Uscirono però alla fine del mese di settembre con un altro dei loro singoli ballabili (e lievemente ruffiani): una pazzesca versione in tedesco di Metal Postcard, Mittageisen, e come retro la scatenata Love in a Void, una sorta di rimanenza di registrazione che vedeva ancora Morris alla batteria. Un altro successo commerciale, certo, ma che sorte toccherà al gruppo?

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