1.2 Wire - Chairs Missing

Il primo dei “celebri gruppi punk sotto osservazione” a dare una svolta all’andazzo generale, e ad essere sensibile alla funerea Trilogia Berlinese di Bowie ed Eno, è stato quello dei gloriosi Wire.
Si dice che il cinema sia nato con una doppia faccia: da una parte i fratelli Lumiere, realisti ed istituzionali, dall’altra Meliés, fantasioso e sorprendente. Baciati da un successo che li rese immortali i primi, conoscitore di una buona stagione ma morto in miseria il secondo. Il quasi contemporaneo Edison, americano, è stato già la sintesi dei due estremi, ovvero la fiction più o meno realistica, cioè ciò che il cinema è tuttora.
Qualche similitudine con il punk la si può trovare, volendo. Per estremo paradosso i realisti ed istituzionali sono stati i Sex Pistols, perché arrabbiati (“proletari”) e gruppo in assoluto più imitato del punk, mentre senza dubbio il ruolo di fantasiosi ed imprevedibili tocca agli Wire. Come i Sex Pistols, sono stati titolari di un solo album, Pink Flag che, nel suo essere assolutamente punk in “filosofia” e propositi (21 brevissime canzoni incendiarie, musicisti entusiasti ed al limite dell’inettitudine), è stato ciò che di meno punk l’epoca aveva proposto: non solo per l’assoluta mancanza dei soliti corrivi ed elementari riff chitarristici, non solo per la totale assenza di qualsiasi forma di ramalama vocale, ma soprattutto per la genialità compositiva, per l’incredibile varietà di melodie ed umori. Con Pink Flag Colin Newman a voce e “seconda” chitarra, Bruce Gilbert alla prima chitarra, Graham Lewis al basso e Robert Gotobed alla batteria lasciarono allucinato e sorpreso il pubblico alternativo, riuscendo a dimostrare che il punk poteva essere fantasioso e creativo. Pure troppo: non riuscirono infatti a creare una “scuola” di proseliti solo lontanamente simile a quella dei più celebri antagonisti.
In quell’inizio di autunno 1978 gli Wire decisero di sorprendere ancora ed uscirono con un altro capolavoro: Chairs Missing, sempre per la EMI. Una copertina bellissima, con quelle tende nere e quella viola solitaria nel mezzo. Un'intuizione sorprendente e notevole, una vera opera proto-gotica.
Sin dal primo pezzo, Practice Makes Perfect si capisce subito che le cose sono cambiate. Una chitarra ripetitiva si sovrappone ad un ritmo opprimente, una voce allucinata comincia tranquilla tra rabbrividenti cambi di accordo ma verso la fine crescerà in volume ed angoscia fra beffarde risate e dissonanze di sottofondo. Un brano oscuro, quindi, dotato di una ritmica ripetitiva e tagliente, che scandiva uno dei capolavori proto-gotici di sempre. Più soffusa e tranquilla sembra cominciare la successiva French Film Blurred, trovando anche soluzioni più ariose e melodiche senza però abbandonare mai una sottile inquietudine. Si potrebbe definire una meditazione disincantata ed allarmata, con effetti oscuri.
Una tastiera nevrotica mescola le carte nei pezzi più veloci, fino ad arrivare, dopo qualche puntatina che ricorda il punk degli esordi (Men 2nd), alla soffusa e lievemente depressa malinconia di Marooned, così ben scandita da basso e chitarra. Un arpeggio apre il brano che poi, in chiave minore, porta alla voce fatalista di Newman. Depresso e nervoso insieme, il breve brano ha un effetto spiazzante.
Dopo un altro ricordo punk dal titolo provocatorio (Sand in My Joints), ed un brano rumoroso ma dall’intro quantomai sinistro (Being Sucked in Again) ecco un altro dei capolavori dell’album: il basso comincia pulsante il suo giro, poi entra la voce quasi sussurrata: “mi sento freddo, mi sento vecchio, sono sublime”, la tensione cresce, il volume degli strumenti pure, “mi sento vuoto e oscuro, come un battito del cuore”. È Heartbeat, brano in un crescendo teso e minaccioso, che imploderà epico e dimesso, un capolavoro di tensione. Altrettanto inquietante è l’incipit del successivo Mercy, che poi esplode senza però calare di tensione. L’atmosfera è cupa, la chitarra fragorosa, una rabbiosa filastrocca per bimbi cattivi, prima si calma poi esplode furente. Questa è la loro via al post-punk.
I Am the Fly e l’inno orecchiabile, fatto per vendere (bisogna pur campare) e piacere ai punk del riflusso, ma che classe! Le chitarre reiterate e distorte, la voce beffarda, il ritornello ripetitivo e “cockney”…
I Feel Misterious Today è una scheggia garrula e impazzita, la successiva From the Nursery ritrova la minacciosità corale dell’iniziale Practice, sebbene risulti più legata al loro assurdo punk stralunato. Più rappresentativa la successiva Used To: ancora un inizio in sordina, una tensione palpabile nascosta sotto una pseudo-melodia, un finale che è la ripetizione ad libitum dell’accordo. L’ultima Too Late, invece, recupera fragorose e beffarde attitudini punk, sebbene senza dimenticare un persistente ed oppressivo senso di minaccia.

Eleganti, rabbiosi, oscuri, il principale merito degli Wire è stato il mettere le cose in chiaro. Certo, in Chairs Missing non avevano ancora tagliato il cordone ombelicale con il punk, con il loro personalissimo, surreale e fantasioso punk. Ma in molti brani, Practice Makes Perfect, French Film, Heartbeat, Mercy e Used To su tutti, sono stati i primi che, autorevoli, avevano dato chiare indicazioni su quale avrebbe potuto essere la più interessante delle prossime evoluzioni del post-punk.
Certo, non si era ancora arrivati al gotico, ma con loro questo genere doveva essere una cosa seria: il cervello aveva la sua importanza, il suono era rabbioso e, perché no?, a tratti oscuro ed inquietante. Ed i testi cosa dovevano fare? Ma è ovvio: parlare della pazzia che ci circonda, delle nostre angosce, della fragilità del nostro sistema nervoso, sconquassato da un’ipersensibile percezione. Insomma, era il grande ritorno del lato oscuro! Ed era ora che qualcuno ne parlasse.
Il destino e l’intuizione hanno voluto che toccasse a loro.

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