1.3 Tuxedomoon - singoli

Nel frattempo qualche segnale arrivava anche dagli Stati Uniti. Un neonato ed assurdo gruppo dell’area alternativa/gay di San Francisco, i Tuxedomoon appunto, aveva fatto una scelta ben precisa.
All’inizio, più che di un gruppo vero e proprio, si trattava di una sorta di comunità musicale aperta, incentrata intorno ai due leader Steven Brown (voce, tastiere, sax) e Blaine L. Reininger (violino e chitarra): due ragazzotti chiusi, depressi e paranoici, che si erano conosciuti due anni prima alla scuola di musica elettronica. Appoggiati a gruppi di teatro e danza di ricerca locali, cominciarono a comporre nell’ambito di questi gruppi con il beneplacito dei loro “guru”: Gregory Cruikshank e Winston Tong in primis.
All’inizio del '78 un concerto come spalla ai demenziali Devo aprì loro la strada, comunque lunga e tortuosa, verso la produzione discografica. Per loro, stranamente, fu una strada post-punk new wave; stranamente perché in realtà la loro era una musica acustica (piano, sax e violino) e sperimentale dalla straordinaria sensibilità. Tuttavia il primo singolo Pinheads on the Move / Joeboy the Electronic Ghost risentiva moltissimo sia dell’influenza dei Devo (la a-side: una danza mongoloide di sassofoni pazzi e voci spastiche), sia di certe sperimentazioni anche orecchiabili delle comuni alternative (la b-side).
Ma presto una scelta fu fatta: appartenere ad una sorta di corrente post-punk seria e vagamente di ricerca. Arruolato un vero batterista, Paul Zahl (fino ad allora si erano serviti della drum machine) ed un chitarrista rumoroso come Mikel Belfer, rafforzarono la collaborazione con il performer d’origine cinese Winston Tong (alla voce) ed uscirono alla fine dell’estate ‘78 con l’Ep No Tears. E scelta fu. Copertina rigorosamente (e goticamente) nera, il prima New Machine era una canzone chiusa e dura molto elettronica, sebbene con un andamento scanzonato ed un ritornello melodrammatico. Effetti elettronici all’avanguardia prima di un pezzo quasi diametralmente opposto: la trascinante Litebulb Overkill in realtà era l’occasione di dimostrare il virtuosismo di Reininger al violino, preso nelle vorticose spire di una danza in crescendo insieme tzigana e modernista. Un capolavoro di squisita sensibilità europea.
Più modesto, anche se comunque elettronico, oppressivo e melodrammatico, il brano seguente, Nite and Day, un omaggio a Cole Porter. Un riff ripetitivo di tastiera faceva da tappeto ad un canto prima depresso poi angosciato alla nevrosi. Gli inserti elettronici come preziosi elementi di decorazione e disturbo. Il pezzo più rappresentativo, tuttavia, sarà il quarto ed ultimo, che dava titolo al disco: No Tears (for the Creatures of the Night). Un riff di chitarra entrava su una base di batteria elettronica, poi una batteria vera dirompeva con un tempo sostenuto. E ancora il riff/urlo di una tastiera ed una voce disperata che canta la mancanza di lacrime per le creature della notte. Un trascinantissimo pezzo di post-punk insieme orecchiabile e sperimentale, chitarristico ed elettronico, un must a tutt’oggi programmato nelle discoteche underground. Se non bastassero poi questi elementi, il solo fatto che si menzionassero le creature della notte fece in modo che questa canzone, anzi tutto questo disco, diventasse il fondamento, la pietra d'angolo di tutto il gotico americano (contribuendo comunque anche a quello europeo).

In seguito la “comune musicale” passò un breve periodo di turbolenze, perdendo in rapida successione Tong, Belfer e Zahl, ma guadagnando un poderoso bassista: Peter Dachert. Quest’ultimo, con il soprannome di Principle, sarà destinato a diventare una colonna portante dei Tuxedomoon.
Per la fine del ‘78 / inizio ‘79, ricuciti i rapporti con Tong, uscì un altro singolo del gruppo in collaborazione col grande performer, accreditato appunto a Winston Tong with Tuxedomoon. E fu ancora capolavoro. Stranger, infatti, era ispirata dall’omonimo romanzo di Albert Camus, anzi iniziava proprio con i versi del celebre autore esistenzialista. Poi proseguiva insieme drammatica e straziante, un brano dalla vibrazione intensissima e col disperato ritornello (“non è colpa mia, sono uno straniero”) contrappuntato da un meraviglioso violino in scala discendente. Non esattamente un brano gotico, benché le tematiche fossero quelle e la sensibilità non avrebbe potuto essere più estrema. Il retro Love/No Hope riprendeva esasperandole certe cacofonie angosciose già sentite in altre occasioni.

Infine, nel febbraio del '79, contattati dalla Ralph Records, l'etichetta dei folli anarco-sonici Residents, i ragazzi furono invitati a partecipare alla compilation Subterranean Modern. La compagnia era delle migliori: gli stessi Residents ed un altro gruppo sonoco-futurista, i pazzeschi Chrome di Helios Creed. Per l'occasione i nostri incisero una versione di I Left my Heart in San Francisco, un vecchio standard, una cover di rigore per quel progetto discografico (sebbene assurdamente suonata con fisarmoinica su sfondo di telefonata per la prenotazione di biglietti: l'assurdità di poco più di un minuto). Ad essa affiancarono Waterfront Seat, una delle loro più bestiali cacofonie elettroniche, dagli accenti struggenti e romantici (ah, quel sax!). Entrambi questi brani, per quanto piacevoli, stranianti e sinistri, rimangono in linea col loro livello.
La sorpresa del disco, tuttavia, sarà la trascinante Everything you Want, presto un loro classico dal vivo. Inizio elettronico, drum machine a scandire un tempo ballabile ma contraddetto da tastiere depresse. «Everything you want is not the way you wanted», canta un paradossale Brown, poi distorsioni chitarristiche angoscianti di Belfer ed effetti sonici opprimenti. Ma il pezzo prosegue vispo e ballabile, fino al finale in cui ripete «on every street corner». Un brano veramente spiazzante, uno psycho-dance-punk depresso del futuro. Suggellerà la stagione di una delle band in assoluto più promettenti della scena underground americana.

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