Nel frattempo qualche
segnale arrivava anche dagli Stati Uniti. Un neonato ed assurdo gruppo
dellarea alternativa/gay di San Francisco, i Tuxedomoon appunto, aveva
fatto una scelta ben precisa.
Allinizio, più che di un gruppo vero e proprio, si trattava
di una sorta di comunità musicale aperta, incentrata intorno ai due
leader Steven Brown (voce, tastiere, sax) e Blaine L. Reininger (violino
e chitarra): due ragazzotti chiusi, depressi e paranoici, che si erano
conosciuti due anni prima alla scuola di musica elettronica. Appoggiati
a gruppi di teatro e danza di ricerca locali, cominciarono a comporre
nellambito di questi gruppi con il beneplacito dei loro guru:
Gregory Cruikshank e Winston Tong in primis.
Allinizio del '78 un concerto come spalla ai demenziali Devo
aprì loro la strada, comunque lunga e tortuosa, verso la produzione
discografica. Per loro, stranamente, fu una strada post-punk new wave;
stranamente perché in realtà la loro era una musica acustica (piano,
sax e violino) e sperimentale dalla straordinaria sensibilità. Tuttavia
il primo singolo Pinheads on the Move / Joeboy the Electronic
Ghost risentiva moltissimo sia dellinfluenza dei Devo (la
a-side: una danza mongoloide di sassofoni pazzi e voci spastiche),
sia di certe sperimentazioni anche orecchiabili delle comuni alternative
(la b-side).
Ma presto una scelta fu fatta: appartenere ad una sorta di corrente
post-punk seria e vagamente di ricerca. Arruolato un vero batterista,
Paul Zahl (fino ad allora si erano serviti della drum machine) ed
un chitarrista rumoroso come Mikel Belfer, rafforzarono la collaborazione
con il performer dorigine cinese Winston Tong (alla voce) ed
uscirono alla fine dellestate 78 con lEp No
Tears. E scelta fu. Copertina rigorosamente (e goticamente)
nera, il prima New Machine era una canzone chiusa e dura molto
elettronica, sebbene con un andamento scanzonato ed un ritornello
melodrammatico. Effetti elettronici allavanguardia prima di
un pezzo quasi diametralmente opposto: la trascinante Litebulb
Overkill in realtà era loccasione di dimostrare il virtuosismo
di Reininger al violino, preso nelle vorticose spire di una danza
in crescendo insieme tzigana e modernista. Un capolavoro di squisita
sensibilità europea.
Più modesto, anche se comunque elettronico, oppressivo e melodrammatico,
il brano seguente, Nite and Day, un omaggio a Cole Porter.
Un riff ripetitivo di tastiera faceva da tappeto ad un canto prima
depresso poi angosciato alla nevrosi. Gli inserti elettronici come
preziosi elementi di decorazione e disturbo. Il pezzo più rappresentativo,
tuttavia, sarà il quarto ed ultimo, che dava titolo al disco: No
Tears (for the Creatures of the Night). Un riff di chitarra entrava
su una base di batteria elettronica, poi una batteria vera dirompeva
con un tempo sostenuto. E ancora il riff/urlo di una tastiera ed una
voce disperata che canta la mancanza di lacrime per le creature della
notte. Un trascinantissimo pezzo di post-punk insieme orecchiabile
e sperimentale, chitarristico ed elettronico, un must a tuttoggi
programmato nelle discoteche underground. Se non bastassero poi questi
elementi, il solo fatto che si menzionassero le creature della notte
fece in modo che questa canzone, anzi tutto questo disco, diventasse
il fondamento, la pietra d'angolo di tutto il gotico americano (contribuendo
comunque anche a quello europeo).
In seguito la comune
musicale passò un breve periodo di turbolenze, perdendo in rapida
successione Tong, Belfer e Zahl, ma guadagnando un poderoso bassista:
Peter Dachert. Questultimo, con il soprannome di Principle,
sarà destinato a diventare una colonna portante dei Tuxedomoon.
Per la fine del 78 / inizio 79, ricuciti i rapporti con
Tong, uscì un altro singolo del gruppo in collaborazione col grande
performer, accreditato appunto a Winston Tong with Tuxedomoon. E fu
ancora capolavoro. Stranger, infatti, era ispirata dallomonimo
romanzo di Albert Camus, anzi iniziava proprio con i versi del celebre
autore esistenzialista. Poi proseguiva insieme drammatica e straziante,
un brano dalla vibrazione intensissima e col disperato ritornello
(non è colpa mia, sono uno straniero) contrappuntato da
un meraviglioso violino in scala discendente. Non esattamente un brano
gotico, benché le tematiche fossero quelle e la sensibilità non avrebbe
potuto essere più estrema. Il retro Love/No Hope riprendeva
esasperandole certe cacofonie angosciose già sentite in altre occasioni.
Infine, nel febbraio del
'79, contattati dalla Ralph Records, l'etichetta dei folli anarco-sonici
Residents, i ragazzi furono invitati a partecipare alla compilation
Subterranean Modern. La compagnia era delle migliori:
gli stessi Residents ed un altro gruppo sonoco-futurista, i pazzeschi
Chrome di Helios Creed. Per l'occasione i nostri incisero una versione
di I Left my Heart in San Francisco, un vecchio standard, una
cover di rigore per quel progetto discografico (sebbene assurdamente
suonata con fisarmoinica su sfondo di telefonata per la prenotazione
di biglietti: l'assurdità di poco più di un minuto). Ad essa affiancarono
Waterfront Seat, una delle loro più bestiali cacofonie elettroniche,
dagli accenti struggenti e romantici (ah, quel sax!). Entrambi questi
brani, per quanto piacevoli, stranianti e sinistri, rimangono in linea
col loro livello.
La sorpresa del disco, tuttavia, sarà la trascinante Everything
you Want, presto un loro classico dal vivo. Inizio elettronico,
drum machine a scandire un tempo ballabile ma contraddetto da tastiere
depresse. «Everything you want is not the way you wanted», canta un
paradossale Brown, poi distorsioni chitarristiche angoscianti di Belfer
ed effetti sonici opprimenti. Ma il pezzo prosegue vispo e ballabile,
fino al finale in cui ripete «on every street corner». Un brano veramente
spiazzante, uno psycho-dance-punk depresso del futuro. Suggellerà
la stagione di una delle band in assoluto più promettenti della scena
underground americana.
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