Forse
consapevole di aver parzialmente deluso con il primo singolo, quell’Hong
Kong Garden che tanto aveva venduto quell’estate, Susan Ballion
in arte Siouxsie Sioux, con il compagno di scorribande, ex Bromley
Contingent, Steven Bailey in arte Severin al basso, diede un colpo
decisivo alla scena underground del post-punk inglese. Reclutati il
chitarrista-sassofonista John McKay ed il batterista Kenny Morris,
i nuovi Banshees diedero alle stampe, nel novembre del ‘78, uno dei
dischi epocali per la fondazione del genere dark, non si sa quanto
influenzati dall’improvvisa “serietà” degli avanguardisti Wire e/o
dalla Trilogia Berlinese del novello tenebroso Bowie.
The
Scream, primo album di Siouxsie and the Banshees, è stato
infatti anche il primo vero Lp di post-punk decadente. Copertina su
sfondo nero, il basso angosciante che apre il disco è già una dichiarazione
d’intenti: brano strumentale minimale, con profonde percussioni e
lontane grida, Pure introduce subito un’atmosfera incompatibile
con il primo singolo. Poi, in crescendo, la scarica d’energia chitarristica
di Jigsaw Feeling. Un’idea geniale: batteria potente ai limiti
del tribale, basso punk e pulsante, chitarra reiterata e continua
praticamente su una nota sola, voce profetica, non distante da come
sarebbe stata Nico se avesse cantato in un’ottava superiore, anzi
ancora più monocorde (anche perché, bisogna dirlo, meno dotata). Forse
il paragone più adatto, di rigore quando si parla di voce femminile
in ambito punk, è quello con la profetessa del genere: Patti Smith,
soprattutto nella sua versione più “evocativa” e demoniaca. Poi
ancora la chitarra ripetuta, e la tensione cresce. Energia e paranoia
magicamente insieme.
Segue un altro capolavoro: il bolero debosciato di Overground,
dove il giro di chitarra inizia giusto accennato e dopo il primo “ritornello”
esplode con la sezione ritmica. Scandito, pulsante, irresistibile
(e a modo suo anche romantico) il giro di accordi di Overground
rimarrà una delle loro pietre miliari.
La meno indispensabile Carcass fa tuttavia da ponte energico
e danzereccio ad un altro di quei brani che giustamente incoronarono
Siouxsie regina del rock perverso: la sua interpretazione da brivido
di uno dei classici (cosa strana invero) del rock apocalittico, l’altrimenti
scanzonata Helter Skelter dei Beatles. Una nota di basso. La
sua ripetizione, tipo campana “a morto”. Una chitarra distorta e gemente.
Poi la lenta, trascinata e perversa voce che comincia i celebri versi
«when I get to the bottom, I go back to the top of the slide», ma
entra la batteria ed il ritmo generale accelera, cresce e cresce ancora
e così la tonalità della voce, e così la tensione, fino alle scansioni
elettro-tribali che anticipano il ritornello, a sua volta ritmato
da una chitarra punk. Ancora scariche di chitarra, scandite da una
sezione ritmica ormai senza freni e Siouxie che canta minacciosa e
quasi afona. I piatti della batteria interrompono la prima delle più
sorprendenti cover di un nuovo genere.
Ma fanno solo da introduzione ad un altro brano coinvolgente e trascinante:
Mirage, un must per le discoteche alternative dell’epoca per
ritmo ed energia. Assolutamente irresistibile. La successiva e più
lunga Metal Postcard recupera una certa atmosfera viziosa,
con riff ritmico, batteria tribale e, successivamente, voce decadente.
Un altro di quei brani che lascia attoniti. Davvero, quello che colpisce
fino a questo punto è l’efficacissima semplicità delle composizioni:
ritmate, taglienti, bellissime, confezionano un disco-capolavoro.
Giustamente spezzato dalla successiva Nicotine Stain, dove
Siouxsie torna per un attimo ad atmosfere più leggere e scanzonate,
consentendo anche all’ascoltatore di tirare il fiato.
Ed è importante farlo, prima dello strazio neurale della successiva
Subterrnean Relapse. L’atmosfera torna a farsi torbida, la
batteria percussiva, entra devastante e lugubre il sax di McKay, su
di una sezione ritmica (compresa la chitarra) perfettamente scandita,
ma mai così ripetuta e monocorde. Il canto si fa sconnesso e demoniaco,
il ritmo cresce, la chitarra graffia, in un generale sabba dalla tensione
altissima e tiratissima. Solo un finale sconvolto e scomposto riuscirà
a scioglierla, anzi, a farla a pezzi.
Poi un arpeggio malinconico di chitarra. È l’introduzione di Switch,
altro brano che accelera fino ad un ritmo sostenuto, senza però mai
raggiungere la furia punk di altri, anzi godendo ancora delle atmosfere
torbide del sax. Poi una chitarra quasi-reggae, ma comunque lugubre
ed ipnotica, cambia completamente atmosfera e la voce torna a farsi
profetica ed allucinata. Percussioni tribali introducono di nuovo
il sinistro sax ed i muscoli si contorcono ancora. Fatalista, romantica,
senza speranza, la voce di Siouxsie porta a termine una canzone quasi
dolorosa e conclude un album-rivelazione.
Lei più volte giustamente accostata a Nico (la grande chanteuse funerea),
loro ai Velvet Underground (per la sordida viziosità di certe atmosfere),
in realtà Siouxsie & the Banshees seppero reinterpretare la grande
tradizione hard-rock oscura ma non particolarmente ostica originata
dai Black Sabbath. Il loro merito principale, soprattutto per opera
di McKay, fu di adattarla al punk, creando de facto un nuovo suono.
Come Chairs Missing dei Wire, The Scream
è un album ambivalente: acerbo, entusiasta ed inetto da una parte,
ma bellissimo, oscuro e profetico dall’altra. Anzi, ancora più di
quello, quest’album ha saputo puntare su atmosfere torbide e, sebbene
come quello ancora molto legato al punk, ha “inventato” ciò che giustamente
prima è stato definito post-punk decadente. Non ancora dark o gothic allora,
per lo meno non fino in fondo, ma la strada era stata presa e le coordinate
c’erano già tutte.
Questo è stato il grande merito della giovane regina oscura. La primavera
successiva aveva addirittura potuto raccogliere i ricchi frutti di
un altro singolo un po’ ruffiano (ma dall'angosciosa copertina), quindi
di successo, come The Staircase (Mistery) senza sentirsi in
colpa e, soprattutto, senza dover più dimostrare niente a nessuno.
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