1.5 Public Image – Public Image (First Issue)

Che titolo poteva proporre per il primo album un gruppo che si chiamava Public Image e che già era uscito con il 45 giri Public Image?
John Lydon era rimasto indietro e questo non poteva sopportarlo. Abituato all’avanguardia più estrema ormai da un paio d’anni, cioè da quando si chiamava Johnny Rotten, aveva costituito questo supergruppo con Levene e Wobble solo per rimediare l’accusa di rappresentare la retroguardia della scena musicale inglese (nonostante la collaborazione all'immagine di Jeanette Lee). Certo, questo dava sicurezza al suo pubblico oceanico, basito e deluso dalla carriera pop che avevano intrapreso gli altri Sex Pistols Cook e Jones. Ma non era da lui diventare dinosauro di se stesso. Certo, il brano Public Image l’aveva confermato punk, seppure leggermente evoluto, e la scena post-punk fino a quel momento aveva fatto a meno di lui. Ma a tutto c’era rimedio.
Fu così che sotto i riflettori della stampa mondiale, dopo il brano Public Image, il supergruppo Public Image fece uscire l’Lp – sorpresa – Public Image! Era il mese di dicembre 1978.
Dalla copertina nulla sembrava essere cambiato: sotto il titolo e la piccola scritta “first issue” c’era lui, grande accentratore, con i suoi occhi strabuzzati, solo stranamente ripulito. Ma dal primo solco si capiva che qualcosa di veramente nuovo stava bollendo in pentola. Theme, sebbene pienamente figlia del genio pazzo del punk, era tuttavia qualcosa di estremamente straniante e mai sentito, che esprimeva appieno le capacità del nuovo supergruppo. Un grido lontano ed un basso enorme, devastante, introducono una pesantissima batteria ed una chitarra distorta e spastica. L’impressione generale è di atmosfera disarticolata ma opprimente, soprattutto a causa di quel basso onnipotente. Ogni tanto un grido sgolato di Lydon ci ricorda la sua presenza, ma il brano prosegue senza voce per un po’, sul suo pesantissimo giro. Quando poi la voce entra stabilmente, si rimase sorpresi. Niente anthem, niente ramalama, ma il lamento di un muezzin disperato e pazzo che piagnucola «I wish I could die». Il brano prosegue solido, monocorde e paranoico, ma sconvolgente e meraviglioso, per almeno 8 minuti buoni, fino all’epigrammatica frase “terminal boredom”, noia terminale, che lo interrompe.
Una chitarra lontana e stridula, una batteria pesante ed ossessiva, un basso “enorme”, schiacciante in un giro in sé quasi dub o reggae, ma dall’effetto oscuro, ed infine una voce lamentosa e senza speranza, costituiscono la nuova e allucinante ricetta di John Lydon. Ricetta che in parte sarà adottata da tutto il nascente genere dark, soprattutto nel nuovo rapporto che hanno basso e chitarra nel missaggio del brano, col primo preponderante sulla seconda.
Ma dopo la devastante Theme la tradizione cercava ancora di fare capolino. Una voce senza accompagnamento recita i versi della successiva Religion. Anche qui il basso è “grosso” e reggato, anche qui la voce è lamentosa, ma l’effetto-inno del testo lo rende più consono alla tradizione punk, aiutato da una chitarra troppo compiacente in tal senso. L’effetto generale, comunque, non è privo di una notevole suggestione e di una tensione sinistra certamente inedite nella produzione dei Pistols. Peggio ancora in quella direzione farà la successiva Annalisa, canzone decisamente bella e coinvolgente, ma troppo somigliante ad una sorta di perverso miscuglio tra punk e rock’n’roll, con quel beat ripetitivo di batteria, la chitarra in riff e la voce in quasi-ramalama. Bella e coinvolgente sì, con testo sulla costrizione sociale (parla di una bambina fatta morire di fame dai genitori perché convinti fosse posseduta dal demonio), ma non innovativa. Segue Public Image, di cui si è già detto. Ma purtroppo la metà del disco è già abbondantemente passata e la sua carica innovativa irrimediabilmente compromessa.
Che dire della successiva Low Life? Qui addirittura John ha esagerato e torna a farsi chiamare Rotten, con quello che il senno di poi farà catalogare come l'ultimo inno in ramalama della sua carriera. Anche la chitarra: non sembra nemmeno l’acido ed atmosferico Levene, ma il rozzo debuttante Jones di un paio d’anni prima. Solo il testo affronta tematiche leggermente diverse, con un punto di vista più intimo e sconfitto certamente nuovo: non più inno alla lotta contro il potere, ma urlo angosciato del perdente (nel dettaglio il perduto amico Sid Vicious) senza speranza.
Ma quando si è già pronti ad un album di punk dalle tematiche alternative, intervengono con funzione nobilitante i due brani conclusivi. Il primo, Attack, apparentemente punk come il predecessore, dopo la “raschiata” iniziale esprime una rabbia demenziale e psicotica, con la voce che urla in ossessionante delay la sua pazzia delirante e inquietantemente claustrofobica. Una scheggia, perché ancora più claustrofobica e ossessiva sarà la finale Fodderstompf: una danza demente e mongoloide, con una sezione ritmica assurdamente profonda ed una chitarra farcita di disturbi sonici ed elettronici acutissimi. Insomma mancano completamente le tonalità medie, mentre delle voci da manicomio gridano scomposte «we only wanted to be loved!». Un viaggio allucinante nella parte più malata della coscienza collettiva, dove un potente basso dub ed una batteria tutta uguale scandiscono i limiti della follia umana e del suo isterico delirio. Da far rabbrividire, quando non ridere.

Campione di incassi ma assolutamente non dark (tranne, forse, il primo e l'ultimo brano), anzi perfetta via di mezzo tra il punk più ortodosso e “qualcosa di là da venire”, quest’album è riuscito almeno a dimostrare quattro cose:
1) Che il signor Lydon era tremendamente serio prima (non stava scherzando, al contrario di molti dei suoi compagni e di gruppo e di scuderia) e rimane allucinantemente serio adesso.
2) Che il post-punk, nel suo prediligere il cervello, poteva aprirsi ad orizzonti insospettabili.
3) Che la sconfitta e la follia umana avevano una dignità artistica pari a quella delle “creature della notte” o delle varie viziosità.
4) Che comunque il re del punk era ancora in grado di confezionare dischi bellissimi.

Da qualche parte, fra le note di copertina, dopo la ragione sociale (è proprio il caso di dirlo) il signor Lydon aveva aggiunto le tre lettere Ltd: limited, la nostra Srl. La sua era una nuova azienda, certo con una nuova immagine. La ribellione brada e selvaggia dei Sex Pistols, che già celava un terrore cosciente e impotente, era divenuta delirio paranoico e profezia di apocalisse. Così la violenza verbale contro il potere ora era denuncia di un angoscioso futuro tecnologico, un potere ben più minaccioso.
La sceneggiata pubblica (il divismo e lo scandalo) dei Sex Pistols viene sostituita dai Public Image con una maniacale indagine della psiche collettiva. Invece che procedere dall’interno verso l’esterno (dalla rabbia individuale verso l’oltraggio pubblico) la loro operazione procede dall’esterno verso l’interno (dall’alienazione del popolo metropolitano verso l’angoscia individuale). Lydon recupera la sua "immagine pubblica" per un arduo e doloroso cerimoniale privato (Scaruffi).

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