I miei ultimi Depeche
Mode risalgono a qualche anno fa. Non molti, in
effetti, ma un’eternità a ben vedere, se
consideriamo tutto ciò che è successo da quel tour
nei palazzetti del 2018. E non ci riferiamo alle
note vicende socio politiche, ma più
specificatamente al micro cosmo (così iniziamo a
richiamare un po’ di parole dei più recenti DM)
della storica band inglese. Notizia ultra (e ci
ricasco con parole molto DM) nota quella della
prematura dipartita di Andrew Fletcher, di un
album in cui il tema della morte diventava un
compagno fedele (a cominciare dal titolo) e il
solito mega tour, prima negli stadi e ora nei
palazzetti. Quindi i DM sono rimasti un gruppo
composto da Martin Gore e Dave Gahan, oltre a
Christian Eigner e Peter Gordeno, turnisti
indispensabili per la resa live del progetto.
Presso il più importante palazzetto dello sport di
Torino, già sede dei Giochi
Olimpici, i DM si preparano a suonare di fronte al
solito gruppo eterogeneo di appassionati; non
sorprende certo vedere persone di mezza età,
qualcuno ancora più attempato, ma molti giovani
tra essi, a testimoniare come la band sia stata
capace, negli anni, di costruire un discorso
musicale senza tempo, divenuto colonna sonora per
ogni playlist in cui ci si dimena tra il tamarro e
l’oscuro. L’apertura è tutta per “Memento
mori”, ultima fatica della ditta, e con quel brano
che fu anche apripista dell’album i Depeche Mode
entrano in scena da navigati professionisti. “My
cosmos is mine” accende ma non infiamma ancora, un
po’ come partire con il freno a mano tirato e poi
con “Wagging tongue” si continua celebrando il
lavoro del 2023 (non la loro vetta artistica, per
chi scrive). I primi veri sussulti arrivano con il
successivo poker in cui “Walking on my shoes”,
“It’s no good”, “Policy of truth” e “In your room”
iniziano a trasformare il palazzetto piemontese in
una gigantesca sala da ballo. Dave Gahan è il
solito uomo palco, uomo spettacolo, frontman
irriducibile … insomma scegliete voi. Un cantante
che non si limita a fare il cantante, ma anche un
uomo che ha elevato ad arte la capacità di
trasformare in ego ogni sillaba che pronuncia e
ogni gesto creato ad arte; lui lo sa e la cosa lo
diverte pure un sacco, come è facile intuire dalle
sue espressioni e dalle sue perpetue mosse,
ovviamente accompagnate dalle ovazioni dell’intero
palazzetto. Mi immagino fare soltanto una delle
sue celebri piroette per cascare inesorabilmente
al suolo, mentre lui con maestria gira e gira e
gira, quasi fosse un trottola impazzita per il
palco. Arrivano anche i regali di compleanno;
stasera tocca a Francesca che, inchiodata alle
transenne, riceve un Happy Birthday direttamente
dalla voce di Dave Gahan. Poi i maxischermo del
palazzetto olimpico proiettano il viso di Andrew
Fletcher, mentre Gahan dice che “Behind the wheel”
è per lui, per il compagno di squadra morto
prematuramente. I pezzi i cui Martin Gore
diventa protagonista non sono affatto un
riempitivo. “Strangelove”, soprattutto, è dolcezza
allo stato puro capace di mandare in trance un
pubblico, altrimenti troppo carico di adrenalina.
Che il main set si debba chiudere con qualcosa di
travolgente, è praticamente scritto. I due
estratti da “Black Celebration”, ovvero uno degli
imprescindibili album del gruppo sono cosa di rara
bellezza e coinvolgimento, mentre “Enjoy the
silence” è il brano più rappresentativo della
ditta, una processione collettiva in cui tutti
danno il massimo. C’è un divertito Gore che
accompagna i cori, c’è un Gahan che trova il suo
massimo momento di esaltazione e c’è, soprattutto,
il pubblico; basta guardare il parterre per capire
cosa voglia dire partecipazione collettiva durante
un concerto. Il rientro porta a uno dei momenti
più alti del concerto quando i due DM cantano
vicini “Waiting for the night” per poi
abbracciarsi a conclusione del pezzo. C’è ancora
lo spazio per “Just can’t get enough”, “Never let
me down again”, e “Personal Jesus”, omaggio a un
pubblico ormai tutto in piedi. Ci sono concerti
che rimangono leggermente al di sotto delle
aspettative … Non con loro.
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