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di Gianmario Mattacheo

THE HEAD ON THE DOOR

1985. Sesta fatica discografica per la banda di Smith. E si ritorna a respirare il clima di una vera band, dopo che “The top” aveva rappresentato, sostanzialmente, il frutto del lavoro del solo leader.
Infatti, nonostante Smith firmi tutte le canzoni (testi e musiche),e i Cure riformano un organico compatto, composto da vere e proprie parti e non da sessionmen, semi/improvvisati per il disco o per i concerti.
“Per la prima volta da “Seventeen seconds” ho sentito veramente
di far parte di una band”: le parole di Robert Smith chiariscono, meglio di qualsiasi discorso, il rinato clima che caratterizzava le registrazioni di “The head on the door”. Di fatto, si apre un nuovo corso.
Porl Thompson che timidamente aveva fatto il suo ritorno con l’album precedente, svolgerà da “The head on the door” un ruolo di assoluto primo piano; Boris Williams sostituisce, alla batteria, il licenziato Andy Anderson (dopo un litigio con Robert Smith, a conclusione del tour di “The top”); Lol Tolhurst … beh! C’è sempre (o, meglio, ancora); ma, soprattutto, “The head on the door” vede il ritorno di Simon Gallup, riappacificatosi con il leader, dopo gli scontri che seguirono a “Pornography”.
Il rientro del bassista in seno al gruppo rappresenterà una forza vitale per i cure e soprattutto per l’amico Robert Smith, il quale non nascose quanto la richiesta fattagli di tornare nella band fosse la cosa migliore realizzata per il complesso.
Lo spirito di gruppo si può già intravedere dalla copertina dove, seppur sfocate, si scorgono alcune mani levate in cielo, intente a sorreggere una fiaccola (o a liberare una colomba?), a simboleggiare, comunque, un ritorno ad un agire “insieme” (l’immagina riprodotta, in realtà, è una fotografia distorta di Janet Smith, sorella di Robert).
“The head on the door” si può definire come l’album pop dei cure, che ritrovato lo spirito di gruppo, favorisce composizioni più immediate e luminose. Tuttavia, nelle dieci tracce, non sarà difficile scorgere alcuni momenti più caratteristici (o se si vuole “oscuri”), richiamanti le sonorità degli album precedenti.
A confermare, comunque, che “The head on the door” è l’album più fruibile della banda Smith, l’ascolto si apre con “Inbetween days”, pop song per eccellenza del gruppo inglese.
La chitarra acustica, la tastiera un po’ pomposa ed un ritornello immediatamente a presa rapida fanno del brano d’apertura di “The head on the door” un successo mondiale, destinato a durare nel tempo.
Una tastiera semplice e malinconica e l’ottima intesa della sessione ritmica caratterizzano il sound di “Kyoto song”, un viaggio in oriente in cui la voce di Robert Smith torna ad essere sofferta e nostalgica.
“The blood” ci porta, invece, all’interno di una corrida, dove fra citazioni di Cristo e del suo sangue, non si capisce se il ruolo di Smith sia più quello di toro o di torero (memorabili le acustiche del leader e di Porl Thompson).
Ancora leggerezza (e molta atipicità) con l’arrangiatissima e carica di suoni “Six different ways”, che precede “Push”, tipica rock song di casa cure.
Il brano, semplice per liriche e trama musicale, rappresenta uno dei momenti di massima esplosione di “The head on the door”, una canzone che fa presagire future partecipazioni nelle arene.
Nell’urlo del bambino di “Baby scream”, domina il basso ipnotico del ritrovato Gallup, mentre in “Close to me” si mettono a riposo le chitarre esaltando le tastiere, per concedere una tra le più celebri canzoni commerciali del loro repertorio. In questo caso, però, a differenza di “Inbetween days”, spicca un’originalità non certo comune (si pensi anche al video claustrofobico che ritrae i componenti del gruppo all’interno di un armadio precipitato in fondo al mare), unita ad una buona dose di pazzia.
Verso l’epilogo, troviamo “A night like this” (un ripescaggio di una canzone del 1976, scritta da Smith e mai pubblicata), dove le chitarre potenti di Thompson e del leader regalano uno dei momenti più alti del lavoro e, dopo “Push”, la seconda vera rock song dell’album. Rispetto alla precedente, tuttavia, “A night like this” ha una struttura più complessa ed un valore superiore, tanto da assurgere a classico della band (ospite al sax Ron Howe).
In conclusione, dopo la sconcertante “Screw” che, quasi funkeggiante, sembra strizzare l’occhio a Prince, troviamo “Sinking”, dove il ritmo viene rallentato e si riapre la porta a casa malinconia (“I am slowing down, as the years go by”) .
Qui, Robert Smith torna ad uno dei temi più cari della sua poesia, cantandoci la frustrazione per l’inarrestabile scorrere del tempo.

Anche il sound cambia toni e la band torna al top, scegliendo il dark. Basso e tastiere in primissimo piano per un pezzo d’atmosfera assoluta in cui la voce di Smith canta l’insofferenza da artista inarrivabile, per un brano ipnotico che sa catturare, e toccare nella sua delicatezza.

 

 

ANNO: 1985

STUDIO DI REGISTRAZIONE: ANGEL, TOWN HOUSE, GENETIC – (LONDRA).

ETICHETTA: FICTION

PRODUTTORE: DAVE ALLEN, ROBERT SMITH

FORMAZIONE: Robert Smith (voices, guitars, keyboards); Laurence Tolhurst (keyboards); Porl Thompson (guitars, keyboards); Simon Gallup (basses); Boris Williams (drums, percussions)

 

TRACKSLIST:

1. Inbetween Days


2. Kyoto Song

3. The Blood

4. Six Different Ways

5. Push

6. The Baby Screams

7. Close to Me

8. A Night Like This

9. Screw

10. Sinking