TRILOGY
A
due anni dalla pubblicazione di “Bloodflowers” (2000), dopo
aver concluso splendidamente il dream tour, Robert Smith affermava
che l’ultimo lavoro in studio dei Cure doveva essere posto
a conclusione di una trilogia dark, avviata con “Pornography”
e proseguita con “Disintegration”.
Partendo
da questo assunto ed invogliato dalle ottime performances
tenute dalla band nel corso degli ultimi concerti, il leader
dei Cure voleva concretizzare dal vivo un progetto assolutamente
straordinario: riunire i tre album ed eseguirli davanti ad
un pubblico; “Trilogy” appunto.
Il
primo punto di riflessione è se tra i tre album esista
davvero un leit motiv o se, invece, si debbano considerare
capitoli separati ancorché straordinari della loro
discografia.
Certamente
“Pornography”, “Disintegration” e “Bloodflowers” hanno in
comune l’essere album fortemente intimisti ed introspettivi.
I primi due, inoltre, sono considerati praticamente all’unanimità
come i migliori della banda Smith, mentre “Bloodflowers” è
indubbiamente un’opera eccezionale che ha solo il “difetto”
di essere molto più giovane dei suoi predecessori e,
probabilmente, solo fra qualche anno potrà essere apprezzato
appieno per il suo reale valore.
La
città scelta per questo evento è Berlino; l’arena
il Thermperdon.
Poteva
essere Londra, ma i nostri avrebbero giocato troppo in casa;
poteva essere Parigi, capitale amata profondamente dal sig.
Smith; non sicuramente gli Stati Uniti, meno legati al versante
più propriamente dark dei cure e, comunque, già
omaggiati con il live di show; la scelta, invece, ricadde
sulla capitale tedesca, da sempre permeata da un fortissimo
alone gotico.
La
copertina ritrae il padrone della “cura” davanti ad un microfono
e, in basso, gli altri membri della band, tutti impegnati
durante l’esibizione in oggetto.
Il
formato prevede due dvd (in realtà venne anche distribuito,
successivamente, in vhs). Il primo disco è riservato
agli album del 1982 e del 1989, mentre il secondo è
riservato a “Bloodflowers”, oltre che alle interviste di rito.
Le
immagini sono impeccabili e ritraggono i protagonisti in forma
e determinati. Le riprese non sono eccessivamente caotiche,
scongiurando così il rischio di quelle immagini in
stile MTV, pensate appositamente per ragazzini ultra agitati.
Poco,
invece, deve essere dedicato alla scaletta che, come già
anticipato, rispecchia fedelmente quella dei lavori in studio.
La
band è quella già ampiamente rodata dal 1995:
Robert Smith (chitarra e voce), Simon Gallup (basso), Perry
Bamonte (chitarra e tastiere), Roger O’Donnell (tastiere)
e Jason Cooper (batteria).
Poche
sorprese, allora, per l’inizio dello show. E’, ovviamente,
“One hundred years” che apre con assoluto tempismo. La band
è al massimo; conosce alla perfezione ogni singolo
istante di un pezzo troppo importante per non essere vissuto
con trasporto collettivo. Anche a distanza di anni, “One hundred
years” rimane un delizioso pugno nello stomaco, uno sputo
in faccia ad ogni tipo di compromesso e di perbenismo di qualsiasi
genere.
In
generale tutta l’esecuzione di “Pornography” spicca per particolare
vigore ed intensità. Non un accenno di flessione; mai
un momento di calo. Nessun pezzo (ma questo già lo
sapevamo) è un riempitivo e nulla è superfluo.
Una
nota a parte merita “Cold”, forse l’interpretazione più
alta di “Pornography”. Emozioni altissime, azzeramento di
ogni tipo di speranza, l’inizio di un viaggio pessimista e
di non ritorno.
La
traccia omonima, infine, chiude la prima parte dello spettacolo
e, tra gli applausi, Robert Smith promette al pubblico che
ci si rivedrà fra sette anni. È tempo della
disintegrazione.
È
la Canzone semplice che riapre lo show berlinese e,
anche in questa occasione, si raggiunge una delle vette più
alte di un concerto cure.
È
poi il momento di “Pictures of you” con il consueto duetto
Robert/Simon, rispettivamente alla chitarra e al basso, durante
l’intro strumentale. Le immagini riescono ad immortalare le
occhiate che i due si scambiano e, credetemi, da sole valgono
il prezzo del biglietto (o del dvd, se preferite).
Gli
altri pezzi scorrono senza intoppi con rinnovata grande intensità.
Segnaliamo, in “Lullaby”, l’altrettanto consueto mimo di Robert
che, tra la folla in ovazione, simula lo spiderman della canzone.
“Disintegration”
si avvia, così, verso l’epilogo e Robert Smith è
pronto per eseguire l’ultimo capitolo. È tempo di regalare
al suo pubblico fiori di sangue.
“Out
of this world” rappresenta la dolce premessa di “Bloodflowers”,
l’introduzione di un album che autori e pubblico conoscono
già perfettamente.
I
pezzi, anche per l’album del 2000, si susseguono con puntuale
impeccabilità secondo la fedele scaletta del vinile
(per l’esame dei pezzi si rimanda, anche per questo caso,
alla scheda del lavoro in studio).
Una
nota a parte, probabilmente, merita 39, in cui il capobanda
ritrova energie ulteriori per eseguire il pezzo migliore di
“Bloodflowers”. Potenza e suggestione, rabbia e malinconia,
cantate e suonate al massimo.
Il
gruppo, per i bis, decide di fare due autentici regali, ripescati
entrambi dal “kiss me album” del 1987: “If only tonight we
could sleep” e “The kiss”.
Tanto
la prima è perfetta nella sua atmosfera dark e nelle
sue liriche, tanto “The kiss” risulta essere ineguagliabile
per potenza e carica, quasi a rappresentare un pugno nello
stomaco a tutte quelle “belle” nuove band che dopo un’oretta
di concerto sono pronte per il saluto.
L’intensità
dei protagonisti; Robert ripiegato su se stesso durante l’interminabile
acido assolo della sua chitarra elettrica; Simon a schizzare
da una parte all’altra del palco; il resto del gruppo intento
a non perdere nemmeno un colpo ………. Questo e anche di più!
Si
può essere fan, o semplicemente detestare, quel grosso
ragazzo/uomo in nero, ma è anche vero che “Trilogy”
dovrebbe essere visto da chi ascolta e segue le band da “un’ora
e via”. Eh! già, questa è proprio un’altra storia.