LIVE
IN ORANGE
È
difficile per un fan dei cure dire quale capitolo discografico
si possa considerare imprescindibile e quale, invece, sacrificabile.
Di
certo, almeno per ciò che attiene alle produzioni live,
è imprescindibile “In Orange”, un film concerto realizzato
il 9 agosto 1986 e pubblicato l’anno successivo.
Perché
tanta importanza intorno a questo live, pubblicato nelle vecchie
amate VHS?
Innanzitutto
la location.
Fondata
nel 40 a.C., l’arena transalpina si presenta come uno dei
teatri romani meglio conservati al mondo: la facciata antica
del teatro, le colonne superstiti e la statua di Augusto contribuiscono
a rendere speciale il luogo. I sostenitori dei Cure dovettero
aspettare il 2005 per vedere superare il fatato anfiteatro
francese, quando il gruppo di Robert Smith scelse un luogo
ancor più suggestivo per realizzare presso il Teatro
Antico di Taormina un evento probabilmente irripetibile e
magico (ma questa è un’altra storia).
Vi
era, inoltre, l’intenzione da parte di Robert Smith di celebrare
l’attività concertistica dei cure, in un periodo che
il leader ricorda come il più fertile della propria
carriera artistica: “Volevamo filmarlo perché ogni
concerto che facciamo adesso raggiunge un livello che sembrava
irraggiungibile in passato, e volevo catturarlo per sempre,
prima che cambiamo o smettiamo”.
In
cabina di regia i Cure assoldarono, ancora una volta, quel
Tim Pope che aveva già iniziato (così bene)
a firmare i videoclip di Smith e soci e, per chiarire ancor
meglio le intenzioni dei cure, ci vengono in soccorso le parole
del leader: “Avremmo potuto assoldare un buon regista per
fargli riprendere il concerto, ma non avrebbe saputo niente
della band, mentre io voglio che questo sia un film dei cure
sui cure”.
Belle
intenzioni, ma il budget si presentava piuttosto limitato.
Per ovviare a questo non indifferente inconveniente, si scelse
di riprendere lo spettacolo in due momenti diversi: le riprese
del concerto da un lato e, dall’altro, i primi piani (con
registrazioni effettuate il giorno successivo). Se avesse
piovuto in un solo dei due giorni, il progetto di “Cure live
in Orange” sarebbe naufragato!
L’intenzione
di rendere speciale l’evento si percepisce già dal
soundcheck, quando i cure intendono creare un legame con il
passato, realizzando “Set the controls for the heart of the
sun”, ovvero uno dei brani migliori del periodo psichedelico
dei Pink Floyd. La cover del brano (che fu uno dei momenti
più alti del “Live at Pompei”) di Gilmour e Waters
venne realizzata (a detta di quanto abbiamo appreso negli
anni) in maniera impeccabile!
Ma
prima di iniziare con il vero e proprio racconto del concerto,
è bene menzionare di come “In Orange” sarà per
sempre ricordato come il live dei Cure in cui Robert Smith
compare con i capelli corti.
Questo
new look del cantante e chitarrista si presenta, peraltro,
nella copertina della VHS. Su uno sfondo nero, l’immagine
in negativo di Robert Smith che canta al microfono è
appena sovrastante al titolo del lavoro (ovviamente in arancione):
un artwork semplice, ma più che riuscito.
Mentre
si sente il vociare del pubblico, la band entra sul palco
e possiamo subito notare il cantante con una folta e lunga
chioma di capelli: ma è l’ennesimo gioco della band
inglese. Infatti, dopo pochi passi Simon Gallup si avvicina
al leader per togliergli la parrucca e, tra lo stupore generale,
il cantante e chitarrista mostra il suo nuovo aspetto al pubblico
francese.
La
line-up di questo 1986 è un quintetto (quello che da
lì a breve avrebbe registrato le canzoni del doppio
“Kiss me kiss me kiss me”): ai già citati Robert Smith
(voce e chitarra) e Simon Gallup (basso) si uniscono Porl
Thompson (chitarra, tastiera, sax), Boris Williams (batteria)
e Lol Tolhurst (tastiere).
Quando
il sole non è ancora completamente tramontato, arriva
il prorompente pezzo d’apertura di “Shake dog shake”; un ottimo
inizio secondo uno dei più classici schemi della band.
Band
che, impeccabile, si presenta in comodi vestiti neri. Solo
Boris Williams, più defilato ed impegnato ai tamburi,
si permetterà un abbigliamento più informale
(avrà un piccolo ventilatore puntato perennemente addosso)
e Porl Thompson che, a concerto avviato, lascerà la
giacca per restare con una magliettina smanicata.
Sotto
il palco, il movimento del pubblico crea un effetto onda;
una sorta di pogo al rallentatore con il quale i fan più
accaniti intendono vivere la musica dei cure.
Per
“Piggy in the mirror” sono moltissimi i primi piani dedicati
a Robert Smith, mentre con “Play for today” arriva il primo
vero scossone della serata. Tante braccia alzate per salutare
quel “It’s not a case of doing what’s right …..“ con il quale
si apre il celebre pezzo di “Seventeen seconds”.
Già
durante i primi brani, è possibile notare Porl Thompson
abbandonare la chitarra per venire in sostegno di Lol Tolhurst,
non in grado di suonare le parti più complesse di tastiera.
“A
strange day” inizia con una breve chiacchierata tra Smith
e Gallup, mentre l’energia ed il ritmo di “Primary” richiedono
tutte le chitarre on stage.
È
un inizio folgorante.
Si
apre, successivamente, lo spazio per due canzoni di atmosfera
pura: “kyoto song” (il primo brano in cui Robert Smith non
suona il suo strumento) è una delle migliori esecuzioni
di “In Orange”, e in “Charlotte sometimes” le doppie tastiere
di Thompson e Tolhurst creano una suggestione unica, in brano
nato per incantare.
Per
il primo momento pop del concerto, una telecamera di Tim Pope
è posta direttamente sulla chitarra di Smith, mentre
esegue “In between days”, brano d’apertura di “The head on
the door” e “The walk” rimane quell’incantevole funk ballabile
che conquista ascolto dopo ascolto.
“Push”
(tutta la platea salta all’unisono) e “A night like this”
(Tim Pope ad immortalare il virtuoso Porl Thompson nell’assolo
chitarristico) anticipano il capolavoro “One hundred years”;
le luci diventano soffuse, mentre Robert Smith canta con trasporto
un brano dalla bellezza terrificante.
Per
vedere finire il main set ci mancano ancora “A forest” e “Sinking”.
Siamo nel 1986, ma l’inno di “Seventeen seconds” è
già il cavallo di battaglia per eccellenza degli inglesi
(tutto il pubblico risponde ad ogni nota del singolo, targato
1980) e “Sinking”, invece, è uno dei pezzi migliori
di “The head on the door”, con il suo ritmo rallentato e quel
grande senso di malinconia.
Per
i rientri Robert Smith è l’ultimo a salire sul palco.
Sorridendo e ballando alla sua maniera, si diverte sulle note
della gemma pop “Close to me”. Finge di strozzarsi con il
microfono, gioca con il cameraman e si accarezza i capelli
(divenuti corti); è show allo stato puro che continua
nel medesimo clima di festa per “Let’s go to bed”.
“Three
imaginary boys”, anticipata da “Six different ways”, riporta
un clima profondo nell’anfiteatro; Robert Smith, concentrato
sulla sua chitarra, smette di sorridere per dare voce alla
migliore canzone dell’album d’esordio.
“Boys
don’t cry”, invece, concede prima della conclusione della
seconda parte dello spettacolo, un ritorno al pop più
puro e brillante.
Con
“Faith” arriva l’ultimo rientro in scena: il momento è
catartico.
Tutti
e cinque i Cure sono immobili come la statua di Augusto posta
in cima al teatro, mentre dagli strumenti e dalla inconfondibile
voce di Robert Smith arriva un momento di raccoglimento totale.“Give
mi it” (Thompson al sax) ha un ritmo frenetico ed incalzante.
Suggeriamo di tenervi ber saldi al divano di casa vostra perché
Tim Pop (conoscendo bene il brano) usa le proprie telecamere
in maniera altrettanto frenetica. I cameraman si muovono a
cassaccio per il palco, senza ordine e senza un attimo di
tregua, passando da un primo piano ad una inquadratura più
larga, ma rispettando il caos che la musica produce a livello
sonoro.
“10.15
sarurday night” (magnetico il sorriso che il leader concede
sul finale) e “killing an arab” sono il commiato (ma quante
sarebbero stati, negli anni, gli episodi in cui Robert Smith
e soci avrebbero chiuso il proprio spettacolo con questa storica
doppietta) per un concerto che ha fatto epoca.
Per
i saluti finali la band sale fino in cima al teatro per raggiungere
l’imponente statua dell’Imperatore Augusto. Si sbracciano,
si salutano, ridono e giocano tra la folla in completo delirio.
Quando
tutti escono, Robert Smith concede un ultimo buffo rientro
in scena: avvicinatosi nuovamente alla statua di Augusto,
si cimenta nel suo tradizionale balletto, regalandoci un ultimo
impagabile sorriso.
1. Shake
Dog Shake
2. Piggy
in the Mirror
3. Play
for Today
4. A
Strange Day
5. Primary
6. Kyoto
Song
7. Charlotte
Sometimes
8. Inbetween
Days
9. The
Walk
10. A
Night Like This
11. Push
12. One
Hundred Years
13. A
Forest
14. Sinking
15. Close
to Me
16. Let's
Go to Bed
17. Six
Different Ways
18. Three
Imaginary Boys
19. Boys
Don't Cry
20. Faith
21. Give
Me It
22. 10:15
Saturday Night
23. Killing
an Arab
ANNO:
1987
ETICHETTA:
FICTION
PRODUTTORE:
GORDON LEWIS
FORMAZIONE:
Robert
Smith: chitarra, voce
Simon
Gallup: basso
Porl
Thompson: chitarra, tastiere, sax
Boris
Williams: batteria
Laurence
Tolhurst: tastiere