THREE
IMAGINARY BOYS
È
il 1979 quando tre ragazzi inglesi pubblicano il loro primo
album, con una più che insolita copertina: tre elettrodomestici,
uno per ciascuno degli elementi della band.
The Cure, così si chiama il gruppo (da quando, prima
della pubblicazione dell’LP, uscirono i singoli “Killing an
arab” e “Boys dont’t cry”) risulta composto dal cantante e chitarrista
Robert Smith (che rappresenterà la lampada della copertina),
dal batterista Laurence Tolhurst (l’aspirapolvere) e dal bassista
Michael Dempsey (il frigorifero).
Il periodo è quello del primissimo post punk nell’Inghilterra
della lady di ferro Margaret Thatcher, quando erano ancora freschissime
le emozioni per gli sconvolgimenti creati dai Sex Pistols e
da moltissime altre band nate sulla scia del successo del gruppo
di Rotten & co.. Un movimento musicale e sociale sorto all’improvviso
e, altrettanto repentinamente, crollato. Ma questo già
bastava per creare l’embrione di una nuova ondata musicale.
“Three
imaginary boys” risentirà moltissimo, come vedremo, del
periodo storico musicale in cui fu scritto. Tuttavia, anche
dalle canzoni più simili ad un certo punk rock, la band
farà intravedere alcuni elementi distintivi e tipici,
che saranno, successivamente, il marchio di fabbrica del loro
suono, che nel maggio 1979, si presentava ancora grezzo e lontano
dalla tipica musicalità degli anni a venire: quel dark
crepuscolare che i cure contribuirono a creare ed esaltare a
partire dagli anni ottanta non c’è ancora (sebbene alcune tracce
si possano già intravedere), ma già si delinea
un gruppo di sano rock minimale esaltato dal classico trittico
fatto da chitarra, basso e batteria.
Pur essendo disco d’esordio, non trovarono posto nella track
list sia “Killing an arab, sia “Boys don’t cry”. La prima, infatti,
venne ritenuta troppo pericolosa per possibili fraintendimenti
razziali (anche se in realtà la canzone si ispirò
a “Lo straniero” di A. Camus) e neppure “Boys don’t cry” (la
primissima perla pop dlla band inglese) venne ritenuta meritevole
di essere inserita nell’esordio sulla lunga distanza.
Solo
nel febbraio dell’anno successivo, attraverso l’album “Boys
don’t cry” (in sostanza la riedizione di “Three imaginary boys”
per il mercato americano) i due storici brani trovarono finalmente
alloggio all’interno di un LP.
Si apre con “10.15 saturday night” che fu, l’anno precedente,
b-side di “Killing an arab, primo singolo della band.
Il brano, geniale nella sua semplicità, si caratterizza
per l’incisività della chitarra del leader e per un suono
grezzo ed essenziale.
“Accuracy” è dominata dal basso di Dempsey mentre “Grinding
halt” è una delle tracce più veloci e punk di
tutto il lavoro: con la sua musica essenziale e con il semplicissimo
testo, è praticamente impossibile restare immobili.
Con “Another day” e “Subway song”, invece, il ritmo si rallenta,
e si ascoltano due delle migliori composizioni di ”Three imaginary
boys”.
La prima è chiaramente un inizio prezioso del suono che
verrà, mentre la seconda (dominata ancora dal basso)
si può considerare un primissimo incubo del signor cure;
la voce di Robert Smith è solo un sussurro e lascia l’ascoltatore
con un urlo agghiacciante degno del più pauroso film
dell’orrore.
“Object”, “It’s not you” e “So what” riportano un suono veloce,
immediato ed estremamente giovanile, anche se risultano essere
le canzoni che hanno patito di più il passaggio del tempo.
“Foxy lady” merita una considerazione particolare. La cover
della celebre canzone di Jimi Hendrix viene assolutamente reinterpretata
dal gruppo che non si impigrisce in una mera riproposizione
della chitarristica canzone originale, ma realizza una versione
con una personalità già propria: elemento non
trascurabile per un gruppo all’esordio.
“Meat hook” è un brano gradevolissimo in cui sembrano
divertirsi un sacco (e la voce di Robert Smith inizia ad assomigliare
a quella ben più navigata degli anni a venire) e “Fire
in Cairo” è uno dei brani più celebri dell’esordio.
Il riff di chitarra è diventato, insieme a quello di
“Killing an arab” uno degli elementi più riconoscibili
dei cure anni settanta.
Con l’ultima traccia, l’ascoltatore riceve un forte segnale.
È decisamente il brano migliore, ma soprattutto è
quello che ci fa capire le intenzioni di Robert Smith per le
future composizioni. Sembra che il suono anticipi dolci malesseri
( … “Can you help me, can you help me”) che solo Robert Smith
sarebbe stato capace di cantare, facendoci capire perché
il suono dei Cure abbia saputo arrivare tanto lontano.
ANNO:
1979
STUDIO
DI REGISTRAZIONE: MORGAN, LONDRA.
ETICHETTA:
FICTIONPRODUTTORE:
CHRIS PARRY
FORMAZIONE:
Robert Smith (voice, guitar); Lol Tolhurst (drum); Michael Dempsey
(bass)
1. 10:15
Saturday Night
2. Accuracy
3. Grinding
Halt
4. Another
Day
5. Object
6. Subway
Song
7. Foxy
Lady (Jimi Hendrix)
8. Meathook
9. So
What
10. Fire
In Cairo
11. It's
Not You
12. Three
Imaginary Boys
13. The
Weedy Burton (ghost track)
Appendice:
BOYS
DON’T CRY
Inizialmente
per il solo mercato americano, il primo album venne distribuito
con qualche ritocco nei primi mesi del 1980.
Cambia veramente poco rispetto a “Three imaginary boys”.
La prima e più evidente diversità sta, oltre al
titolo dell’album, proprio nella copertina.
A quella (odiata dai Cure perché non scelta da loro)
degli elettrodomestici, seguì un disegno un po’ infantile
che riproponeva una piramide, palme, sole, ecc. Le copertine
memorabili sarebbero dovute ancora arrivare!
Per ciò che concerne il discorso musicale, possiamo constatare
come la maggior parte dei brani di “Three imaginary boys” sia
presente anche su “Boys don’t cry” (con alcune indolori rinunce,
se si eccettua “Foxy lady” di Jimi Hendrix) e qualche brano
che nell’esordio non riuscì a trovare alloggio.
È il caso di “Killing an arab”, primo singolo dei Cure,
divenuto un inno con le inconfondibili atmosfere arabeggianti,
ma anche “Boys don’t cry” e “Jumping someone else’s train”.
Quest’ultima canzone (scelta per aprire l’album) divenne anche
singolo e si ricorda per essere l’ultima pubblicazione dei cure
con il primissimo bassista Michael Dempsey. Dalla fine del 1979,
infatti, entrò quello che sarà ricordato come
l’unico bassista dalla band, ovvero Simon Gallup, il grande
amico di Robert Smith.
Dalla mutata line up, dalle brevi ma importanti esperienze fatte,
iniziavano a esserci tutti gli elementi che avrebbero portato
a generare i capolavori degli anni a venire. I Cure erano finalmente
pronti per entrare negli anni ottanta.
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