CONCERT
1984.
dopo cinque album pubblicati, la band dà alle stampe
il primo album live.
Le
esibizioni del gruppo inglese hanno rappresentato e rappresentano
uno dei momenti più alti della loro vena artistica.
Gli spettacoli non sono mai uguali agli altri; sempre oltre
le due ore di show (quando non addirittura tre, elemento ormai
straordinario nell’attuale mondo musicale); l’energia trasmessa
ai fan è qualcosa capace di andare oltre le trame sonore
già fissate sul disco.
Ripercorrendo
la carriera del gruppo di Robert Smith, si comprende come
questo album live sia stato pubblicato a conclusione di una
prima fase artistica dei Cure.
C’era
stato l’esordio e, successivamente, erano giunti i tre imprescindibili
album dark di “Seventeen seconds”, “Faith” e “Pornography”,
ma era anche arrivata la rinascita pop di “Japanese whispers”,
cui fece seguito “The top”. Questo primo album live del gruppo
celebra, pertanto, in dieci tracce l’evoluzione artistica
avviata solo un lustro prima.
“Concert”
riprende alcune tappe dell’ultima parte del tour inglese,
seguito alla pubblicazione di “The top”, con una copertina
più simile a un bootleg prodotto con poche lire (ops!
strerline) piuttosto che a un disco ufficiale (una delle loro
poche copertine non propriamente azzeccate).
La
formazione vede Robert Smith (voce e chitarra), Porl Thompson
(chitarra, sax e tastiere), Phil Thornelley (basso), Andy
Anderson (batteria) e Lol Tolhurst (tastiere).
Il
concerto comincia con il pezzo di apertura dell’ultimo album
in studio.
Si
sente nitido il saluto di Robert Smith ed il vociare del pubblico
mentre partono le note di “Shake dog shake”, brano riproposto
in una versione assolutamente impeccabile che trova nell’apertura
di show la sua naturale collocazione (almeno fino al 1984)
.
Con
“Primary”, singolo sui generis dell’album “Faith”, ascoltiamo
la band abile a non perdere incisività rispetto alla
prova in studio e con “Charlotte sometimes” Smith e soci regalano
la migliore esecuzione di “Concert”.
“Charlotte
sometimes”, singolo che non trovò mai collocazione
all’interno di un album di inediti, rappresenta uno dei pezzi
più “Cure” dell’intera discografia: le tastiere e la
voce inconfondibile di Robert Smith ci portano un’atmosfera
malinconica che difficilmente altri pezzi sono capaci ad emulare.
In
scaletta c’è spazio per “The hanging garden”, tribale ed eseguita
in maniera più veloce rispetto a “Porbography”, mentre
“Give me it”, con il sax impazzito di Porl Thompson, è
il brano di “The top” che per irruenza e forza più
assomiglia all’apripista “Shake dog shake”.
“The
walk” è il momento dance dell’album, rappresentandone
l’elemento di rottura sonoro; collocato a metà concerto,
il singolo del 1983 è il naturale momento di distensione
prima degli irrinunciabili ed intramontabili hit finali.
“One
hundred yars”, pietra miliare dei Cure d’ogni tempo è
un brano che non riesce mai ad essere qualunque o a passare
inosservato: è sempre spaventosamente bello. Tuttavia,
l’esecuzione che la band ne dà in “Concert” risulta
essere troppo veloce rispetto a quella tradizionale e l’appassionato
dovrà attendere il 1993 (“Paris”) per ascoltare una
versione ufficiale che ne esalterà ancor di più
la bellezza.
“A
forest”, invece, è interpretata al meglio da Robert
Smith e soci che, attraverso l’inno di “Seventeen seconds”,
regalano 7 minuti di suggestione assoluta: imprescindibile.
La
“serata” si chiude nel passato di “10.15 saturday night” e
“Killing an arab” che mettono la parola fine al primo ufficiale
disco dal vivo.
Il
ritmo si velocizza ulteriormente e ci riporta al primo periodo
post punk dei Cure. Risulta impeccabile l’esecuzione di “Killing
an arab”, momento di gioia e trasporto collettivo che surclassa
la prima incisione del 1978 e che conferma la vitalità
di un pezzo tra i più amati dai fans.
Un
lavoro senza dubbio riuscito. La prova del primo live viene
superata agevolmente da Smith e soci, anche se l’assoluta
consacrazione arriverà soltanto qualche anno dopo,
attraverso l’apoteosi di successive, sognanti, note future.
ANNO:
1984
ETICHETTA:
FICTION
PRODUTTORE:
DAVE ALLEN, THE CURE
FORMAZIONE:
ROBERT SMITH (voice, guitar), PORL THOMPSON (guitar, keyboard,
saxophone), ANDY ANDERSON (drums), PHIL THORNALLEY (bass),
LAURENCE TOLHURST (keyboard)
APPENDICE:
CURIOSITY,
THE CURE ANOMALIES
Nel
solo formato musicassetta, la versione di “Concert” prevedeva
il lato B dedicato ad alcune rarità del primissimo
periodo.
Il suono delle otto tracce che ritroviamo in queste anomalies
è ancora grezzo e sporco, ancor più diretto
ed immediato rispetto all’esordio discografico di “Three imaginary
boys”.
L’interessante
progetto si apre con l’inedita punk song di “Heroin face”
che ci porta un gruppo decisamente agli esordi (in formazione
ancora Porl Thompson) e ci fa conoscere una voce di Robert
Smith non ancora rodata e adolescenziale.
Un’altra
chicca per appassionati è la seconda traccia di “Curiosity”,
in cui si ascolta il demo di “Boys don’t cry” registrato al
Chestnut studio (una sala d’incisione del Sussex). Il suono,
seppur ancor diverso dalle celebre versione ufficiale, è
quello di un gruppo con chiare intenzioni di fare sul serio:
come dire “i Cure cominciavano a prendere forma”.
“At
night” (registrata in una radio francese), “In your house”,
“The drowning man” (viaggio etereo) e “The funeral party”
sono ottime esecuzioni del classico repertorio cure, eseguite
da un gruppo ormai abituato a calcare i palchi.
Invece,
“All mine” e “Forever”, poste a conclusione del lavoro, rappresentano
un altro regalo per gli appassionati, costituendo due preziosi
inediti.
La
prima, registrata nel maggio del 1982, non si caratterizza
per un’ottima qualità audio ed è una canzone
in linea con le sonorità di “Faith”, forse soltanto
un po’ più grezza.
“Forever”,
invece, è un pezzo che ha un valore superiore. È
minimale, è tetro e coraggioso. Il brano prende ritmo
con il passare dei minuti, diventando ancor più caotica
grazie al sax impazzito di Porl Thompson, facendoci immaginare
un viaggio folle verso una meta oscura.