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di Gianmario Mattacheo

CONCERT

1984. dopo cinque album pubblicati, la band dà alle stampe il primo album live.
Le esibizioni del gruppo inglese hanno rappresentato e rappresentano uno dei momenti più alti della loro vena artistica. Gli spettacoli non sono mai uguali agli altri; sempre oltre le due ore di show (quando non addirittura tre, elemento ormai straordinario nell’attuale mondo musicale); l’energia trasmessa ai fan è qualcosa capace di andare oltre le trame sonore già fissate sul disco.
Ripercorrendo la carriera del gruppo di Robert Smith, si comprende come questo album live sia stato pubblicato a conclusione di una prima fase artistica dei Cure.
C’era stato l’esordio e, successivamente, erano giunti i tre imprescindibili album dark di “Seventeen seconds”, “Faith” e “Pornography”, ma era anche arrivata la rinascita pop di “Japanese whispers”, cui fece seguito “The top”. Questo primo album live del gruppo celebra, pertanto, in dieci tracce l’evoluzione artistica avviata solo un lustro prima.
“Concert” riprende alcune tappe dell’ultima parte del tour inglese, seguito alla pubblicazione di “The top”, con una copertina più simile a un bootleg prodotto con poche lire (ops! strerline) piuttosto che a un disco ufficiale (una delle loro poche copertine non propriamente azzeccate).
La formazione vede Robert Smith (voce e chitarra), Porl Thompson (chitarra, sax e tastiere), Phil Thornelley (basso), Andy Anderson (batteria) e Lol Tolhurst (tastiere).
Il concerto comincia con il pezzo di apertura dell’ultimo album in studio.
Si sente nitido il saluto di Robert Smith ed il vociare del pubblico mentre partono le note di “Shake dog shake”, brano riproposto in una versione assolutamente impeccabile che trova nell’apertura di show la sua naturale collocazione (almeno fino al 1984) .
Con “Primary”, singolo sui generis dell’album “Faith”, ascoltiamo la band abile a non perdere incisività rispetto alla prova in studio e con “Charlotte sometimes” Smith e soci regalano la migliore esecuzione di “Concert”.
“Charlotte sometimes”, singolo che non trovò mai collocazione all’interno di un album di inediti, rappresenta uno dei pezzi più “Cure” dell’intera discografia: le tastiere e la voce inconfondibile di Robert Smith ci portano un’atmosfera malinconica che difficilmente altri pezzi sono capaci ad emulare.
In scaletta c’è spazio per “The hanging garden”, tribale ed eseguita in maniera più veloce rispetto a “Porbography”, mentre “Give me it”, con il sax impazzito di Porl Thompson, è il brano di “The top” che per irruenza e forza più assomiglia all’apripista “Shake dog shake”.
“The walk” è il momento dance dell’album, rappresentandone l’elemento di rottura sonoro; collocato a metà concerto, il singolo del 1983 è il naturale momento di distensione prima degli irrinunciabili ed intramontabili hit finali.
“One hundred yars”, pietra miliare dei Cure d’ogni tempo è un brano che non riesce mai ad essere qualunque o a passare inosservato: è sempre spaventosamente bello. Tuttavia, l’esecuzione che la band ne dà in “Concert” risulta essere troppo veloce rispetto a quella tradizionale e l’appassionato dovrà attendere il 1993 (“Paris”) per ascoltare una versione ufficiale che ne esalterà ancor di più la bellezza.
“A forest”, invece, è interpretata al meglio da Robert Smith e soci che, attraverso l’inno di “Seventeen seconds”, regalano 7 minuti di suggestione assoluta: imprescindibile.
La “serata” si chiude nel passato di “10.15 saturday night” e “Killing an arab” che mettono la parola fine al primo ufficiale disco dal vivo.
Il ritmo si velocizza ulteriormente e ci riporta al primo periodo post punk dei Cure. Risulta impeccabile l’esecuzione di “Killing an arab”, momento di gioia e trasporto collettivo che surclassa la prima incisione del 1978 e che conferma la vitalità di un pezzo tra i più amati dai fans.
Un lavoro senza dubbio riuscito. La prova del primo live viene superata agevolmente da Smith e soci, anche se l’assoluta consacrazione arriverà soltanto qualche anno dopo, attraverso l’apoteosi di successive, sognanti, note future.

 

ANNO: 1984

ETICHETTA: FICTION

PRODUTTORE: DAVE ALLEN, THE CURE

FORMAZIONE: ROBERT SMITH (voice, guitar), PORL THOMPSON (guitar, keyboard, saxophone), ANDY ANDERSON (drums), PHIL THORNALLEY (bass), LAURENCE TOLHURST (keyboard)

 

 

APPENDICE:

CURIOSITY, THE CURE ANOMALIES

Nel solo formato musicassetta, la versione di “Concert” prevedeva il lato B dedicato ad alcune rarità del primissimo periodo.
Il suono delle otto tracce che ritroviamo in queste anomalies è ancora grezzo e sporco, ancor più diretto ed immediato rispetto all’esordio discografico di “Three imaginary boys”.
L’interessante progetto si apre con l’inedita punk song di “Heroin face” che ci porta un gruppo decisamente agli esordi (in formazione ancora Porl Thompson) e ci fa conoscere una voce di Robert Smith non ancora rodata e adolescenziale.
Un’altra chicca per appassionati è la seconda traccia di “Curiosity”, in cui si ascolta il demo di “Boys don’t cry” registrato al Chestnut studio (una sala d’incisione del Sussex). Il suono, seppur ancor diverso dalle celebre versione ufficiale, è quello di un gruppo con chiare intenzioni di fare sul serio: come dire “i Cure cominciavano a prendere forma”.
“At night” (registrata in una radio francese), “In your house”, “The drowning man” (viaggio etereo) e “The funeral party” sono ottime esecuzioni del classico repertorio cure, eseguite da un gruppo ormai abituato a calcare i palchi.
Invece, “All mine” e “Forever”, poste a conclusione del lavoro, rappresentano un altro regalo per gli appassionati, costituendo due preziosi inediti.
La prima, registrata nel maggio del 1982, non si caratterizza per un’ottima qualità audio ed è una canzone in linea con le sonorità di “Faith”, forse soltanto un po’ più grezza.
“Forever”, invece, è un pezzo che ha un valore superiore. È minimale, è tetro e coraggioso. Il brano prende ritmo con il passare dei minuti, diventando ancor più caotica grazie al sax impazzito di Porl Thompson, facendoci immaginare un viaggio folle verso una meta oscura.