BLOODFLOWERS
A
quattro anni dall’ultimo lavoro in studio, i Cure tornano, il
14febbraio 2000, con “Bloodflowers”, con l’obiettivo
di recuperare parte di quella critica e di quei fan (meno attenti?)
persi con il precedente “Wild mood swings”.
Lunghissima è la gestazione per l’undicesimo album della
band inglese. Già pronto da mesi, il sempre più
pignolo Robert Smith attese il mese di febbraio (e con esso
il nuovo millennio) per il suo “rilascio”, rallentato, per spirito
perfezionista, sia in fase di missaggio, sia di arrangiamento.
I compagni d’avventura sono i medesimi del precedente lavoro,
targato 1996. Pertanto,
anche in questa nuova fatica discografica, Robert Smith è
assistito da Simon Gallup, Perry Bamonte, Jason Cooper e Roger
O’Donnell.
Quasi a testimoniare la continua forza propulsiva del leader,
la copertina lo ritrae, unico fra tutti i componenti, in primo
piano con un sorriso beffardo che, probabilmente, odora di promessa:
sono tornato!!
E i dubbi (se mai ce ne fossero stati) sono cancellati dal brano
d’apertura, nel quale risulta immediatamente facile tornare
a sognare. Mr Smith ci riporta fuori dal mondo in cui viviamo,
sussurrandoci “Out of this world”,
attraverso una perfetta combinazione tra chitarra acustica ed
il resto degli strumenti. “Mi piace il suo sviluppo lento”,
dichiarò Mr Smith quando gli proposero di accorciare
il brano d’apertura per renderlo più radiofonico; e quasi
a ribadire la soddisfazione per il nuovo album: “Ho raggiunto
gli obiettivi che mi ero prefissato”.
Ma, dopo l’estrema dolcezza, l’ascoltatore entra negli abissi
per osservare il leader cadere in “Watching me
fall”. Nessuno spiraglio di salvezza è concesso,
in un incubo lungo più di undici minuti. Lunga introduzione
(cosa che accumuna quasi tutte le canzoni del lavoro, e poi
via in un crescendo di ritmo e suggestione in cui tutti gli
strumenti sono abili ad assecondare la voce sofferta del capitano.
Decisamente meno graffiante è “Where the bird always
sing” (forse il capitolo meno riuscito di “Bloodflowers”), mentre
“Maybe someday” (con le sue chitarre più svolazzanti)
è, sicuramente, il pezzo più movimentato dell’album.
Per le sue caratteristiche è facile considerarlo, infatti,
come il singolo “mai pubblicato” del lavoro, ricordandoci il
classico schema cure delle pop song.
Con “The last day of summer” si può ascoltare, per liriche
e musicalità, uno dei più tipici viaggi dei Cure.
Lunga introduzione (dominata dalla chitarra di Smith e dalla
sessione ritmica) e tanta malinconia nell’ultimo giorno dell’estate.
“There is no if” (il brano in cui il gruppo stacca la corrente,
creando un acustico d’eccezione) racconta una storia d’amore
nella quale la parola sempre assume più significati;
con “The loudest sound”, invece, Robert Smith usa una metafora
per rappresentare la forza e l’energia generate dal sentimento
tra un uomo e una donna (“lui la ama come una ragazza e fianco
a fianco in silenzio, senza una sola parola ……. è il
suono più forte che io abbia mai sentito”).
Ma, forse il picco più alto di “Bloodflowers”
arriva al penultimo brano. Chi è oggi Robert Smith? È
tutto qui, con i suoi sogni, i suoi dubbi e le sue tristi prese
di coscienza.
Con “39” viene accantonata la dolcezza. Il sound si fa
più duro e malato, e padrone incontrastate diventano
le chitarre di Smith e Bamonte. Al romanticismo dei pezzi precedenti,
arriva la sconsolazione per la vita e l’amarezza per tutto ciò
che non sarà mai più: “il fuoco si sta spegnendo
e non c’è più niente da bruciare”.
L’epilogo è lasciato alla traccia omonima che ricorda,
nell’incedere, “Closedown” (da “Disintegration”), soprattutto
nella sessione ritmica.
Robert Smith si congeda, ancora una volta, con una storia d’amore
raccontata con la delicatezza che solo lui possiede e con un
dubbio perenne al quale non riesce a dare una risposta: sempre
esiste?
“Bloodflowers” non è un album qualunque. In realtà
non ne esistono nella loro intera discografia. Ma, è
sicuramente l’album di un gruppo che conferma la creatività
di un “ragazzo immaginario”; uomo, artista e poeta che, anche
nel nuovo millennio, ribadisce il suo intimo feeling con il
genio, la poesia e la creatività.
La portata malinconica ed intimistica di “Bloodflowers” non
poteva essere meglio sintetizzata che dalle parole di Alfred
Lord Tennyson, poste tra i credits del lavoro. “I know not what
they mean. Tears from the dept of some divine despair; Rise
in the heart, and gather to the eyes; In looking on the happy
autumn fields; And thinking of the days that are no more …………..lacrime
dalla profondità di una disperazione divina, penso ai
giorni che non ci sono più”.
Parole malinconiche per un album con un’intensità davvero
difficile da ripetere (non a caso, Robert Smith scelse l’undicesimo
in studio per rappresentarlo live nella sua interezza, insieme
a “Pornography” e “Disintegration”, in quella che definisce
la trilogia dark dei cure: “Trilogy”).
“Ha preso molto di me, e mi sono sentito prosciugato quando
è finito. Ma volevo che fosse la cosa migliore che avessimo
mai fatto” (Robert Smith sul senso dell'album “Bloodflowers”,
intervistato dalla rivista Pulse, marzo 2000).
Mai
una flessione, tanta voglia di abbandonarsi ai ricordi, un senso
di totalità. Superlativo.
ANNO:
2000
STUDIO
DI REGISTRAZIONE: St CATHERINE COURT, AVON E RAK STUSIOS
3, LONDRA.
ETICHETTA:
FICTION
PRODUTTORE:
PAUL CORKETT, ROBERT SMITH
FORMAZIONE:
Robert Smith (voice, guitars, 6string bass, keyboards); Simon
Gallup (basses),; Perry Bamonte (guitars, 6string bass); Jason
Cooper (drums, percussion); Roger O’Donnell (keyboards)
TRACKSLIST:
1.
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Out
of This World
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2.
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Watching
Me Fall
|
3.
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Where
the Birds Always Sing
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4.
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Maybe
Someday
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5.
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The
Last Day of Summer
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6.
|
There
Is No If...
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7.
|
The
Loudest Sound
|
8.
|
39
|
9.
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Bloodflowers
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