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di Gianmario Mattacheo


WILD MOOD SWING

È attraverso La Rouchefoucald che Robert Smith desidera introdurre il nuovo album: "As we grow older we grow both more foolish and wiser at the same time ………… Man mano che invecchiamo, diventiamo contemporaneamente più sciocchi e più saggi".
Una frase che, probabilmente, da sola basterebbe a spiegare le intenzioni di Robert Smith in questo 1996: propositi di sperimentazione e voglia di divertirsi, dietro un immancabile alone malinconico.
A quattro anni di distanza da "Wish" (1992), arriva il suo atteso seguito: il decimo lavoro in studio dei Cure è "Wild mood swings".
Nel frattempo, la band si impegnava nella registrazione di "Burn" (efficacissimo brano inserito nella colonna sonora di "The Crow") e perdeva pezzi importanti della propria line up. Con due divorzi assolutamente amichevoli (primo caso della loro storia), il gruppo dovette fare a meno del virtuoso chitarrista Porl Thompson e, successivamente, del batterista Boris Williams, obbligando Robert Smith ad operare un consistente rimpasto di formazione.
Il gruppo vede ora in organico Robert Smith, Simon Gallup, Perry Bamonte, Jason Cooper (batteria) e Roger O’Donnell (tastiere). Per O’Donnell, invero, si tratta di un ritorno, più che di un nuovo ingresso, essendo già stato nell’organico della band fin dal 1987 (ed esserne, successivamente, uscito nel 1990).
La copertina riproduce un’immagine destinata a non passare inosservata, per rimanere fissa nella memoria del fan. Un primo piano di un pagliaccio semi-sorridente domina l’immagine di "Wild mood swings". Il disegno di copertina, tuttavia, non ha nulla di lieto o soave; la testa del clown spaccata in due ed un sorriso inquietante ci fanno venire in mente Pennywise (il pagliaccio ballerino di Stephen King in "It"), piuttosto che i consueti e spiritosi pagliacci, nati per far sorridere i bambini. Il brano di apertura ci regala, senza dubbio, la traccia migliore del lavoro. Un quartetto d’archi anticipa la batteria perentoria di Cooper, cui fa seguito il muro sonoro creato dalle chitarre elettriche del signor cure e di Perry Bamonte. Con "Want", Smith & soci gridano l’insoddisfazione e la rabbia per il volere sempre di più (senza averne più le speranze), in un dark teso ed aggressivo, tra i migliori di sempre. "Club America", invece, è una rock song dove Smith gioca con la sua voce, modificandola e rendendo quasi un omaggio a Mr David Bowie.
Terza traccia per "This is a lie" e si torna, anche se fuori dai loro schemi sonori, sui terreni dell’amerezza e della tristezza. Archi e un clima da grande orchestra accompagnano la voce, quasi dolorata, di Robert Smith. Il genio folle del leader emerge con "The 13th". Fiati, voci in falsetto, trumpets e quant’altro di più pazzo si possa immaginare, sono gli ingredienti per il singolo che trova il suo più diretto antenato in "Caterpillar" di "The top". Dopo "Strange attraction" e "Mint car" (quanto di più pop e leggero possa concepire una delle band che contribuì ad inventare il genere dark!), "Jupiter crash", tra sonorità acustiche e desolate, ci parla della collisione di Giove, una metafora con la quale Mr Cure ci racconta la tristezza che segue ad un amore mai raggiunto. Ritorno all’easy pop con "Round & Round & round" (probabilmente il capitolo meno felice di "Wild mood swing") e "Gone", dove tra fiati improbabili e la tastiera di O’Donnell, esce al meglio lo status di pigro di Robert Smith (" … and all you want to do is stay in bed"), per un testo accostabile alla "Fight" del "Kiss me" album, e "Return"(quasi la continuazione di "Strange attraction") in cui interviene una vera e propria squadra di fiati. Un livello superiore, invece, per "Numb" (qui intervengono anche i violini di Mr. Chandrashekar) e "Trap". La prima, tra chitarre acustiche ed archi, ci pone il racconto di un amico(?), divenuto insensibile e perso per la droga; la seconda concede chitarre più aggressive e potenti, per raccontare la "trappola" di una storia d’amore che non si riesce a terminare. Il finale si chiude con due tracce suonate in maniera soffusa (ideale pensare un’illuminazione a luce di candela), dove, tra le note del ritrovato quartetto d’archi, torna padrona la malinconia di "Treasure" e "Bare", che concludono l’ascolto con un grande senso di vuoto e una regola … "non potrò mai dimenticare". Con queste struggenti parole termina "Wild mood swings"; un lavoro certamente sperimentale (forse quello in cui Robert Smith ha osato di più, almeno in termini musicali), inferiore rispetto ad alcuni storici album degli anni ottanta, ma ancora genuino ed apprezzabile, non fosse altro per la presenza di alcune perle incondizionate e per l’immancabile voce del capo. Re Mida trasformava in oro tutto ciò che toccava; poi venne Robert Smith che iniziò a trasformare in dark tutto ciò che cantava. E questo continuò a farlo anche quando il dark si trasformava in luce abbagliante, (come in alcuni capitoli di "Wild mood swings"), lasciandoci comunque intravedere un inizio di oscurità.

ANNO: 1996

STUDIO DI REGISTRAZIONE: St CATHERINE COURT, BATH E HAREMERE HALL (SUSSEX).

ETICHETTA: FICTION

PRODUTTORE: STEVE LYON, ROBERT SMITH

FORMAZIONE: Robert Smith (voices, guitars, 6string bass); Simon Gallup (basses); Perry Bamonte (guitar, 6string bass); Roger O’Donnell (keyboards); Jason Cooper (drums, percussion)

TRACKSLIST:

1.

Want

2.

Club America

3.

This is a Lie

4.

The 13th

5.

Strange Attraction

6.

Mint Car

7.

Jupiter Crash

8.

Round and Round and Round

9.

Gone!

10.

Numb

11.

Return

12.

Trap

13.

Treasure

14.

Bar