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di Gianmario Mattacheo

 

WISH

Dopo il capolavoro di “Disintegration”, i Cure pubblicano “wish”, un album nel quale sono racchiuse molte delle facciate che, nel corso degli anni, il gruppo inglese ha saputo regalare ai suoi fan.
Il predecessore, come abbiamo visto, rappresentò uno degli album più intimisti di Robert Smith; con il nono lavoro in studio, i Cure si riappropriarono anche delle pop song, usandole, quasi come una valvola di sfogo, tra una canzone dal contenuto sonoro complesso ed ostico e tra una canzone che (ancora) rifletteva l’umore sconsolato del leader. Ne viene fuori un album variegato che per le sue caratteristiche d’eterogeneità si può accostare al “Kiss me” album del 1987.
Il gruppo, durante la lavorazione dell’album presso gli studi di Shipton Manor, pensò di scindere le composizioni del futuro “Wish”, dando vita non più ad uno, bensì a due album distinti: da una parte ci sarebbero state le composizioni più cupe e dark, dall’altra quelle più pop e leggere. La decisione di raggrupparle in un unico lavoro contribuisce, invece, a rendere “Wish” ancora più apprezzabile.I cambiamenti rispetto a “Disintegration” sono visibili fin dalla lettura della line up, in cui non compare più il tastierista Roger O’donnell (divergenze caratteriali con Simon Gallup), sostituito da un loro ex rodie: Perry Bamonte.
Pertanto, in questo 1992 accanto al signor Smith (chitarra, voce, ma in alcuni brani anche basso e tastiere ed autore come al solito di tutte le canzoni), troviamo Simon Gallup (bassi), Porl Thompson (chitarre), Perry Bamonte (chitarre e tastiere) e Boris Williams (batteria e percussioni), in quella che, probabilmente, rimane la formazione meglio apprezzata ed affiatata.
E, come spesso accade, la copertina si presenta come la degna presentazione dell’album: in tinte rosse si mostra il nono lavoro del gruppo, con scritte che ricordano un vago stile psichedelico. Il nome del complesso è composto da quattro simboli (una sorta di ferro di cavallo) che incastonati l’uno all’altro riescono a riprodurre il nome CURE; sotto di esso un mondo azzurro è circondato da numerosi occhi curiosi che sembrano scrutare il globo terrestre.

L’album si apre con “Open”, una canzone semplicemente devastante, nella quale, accanto ad un sound duro e chitarristico, Robert Smith unisce liriche altrettanto violente e coinvolgenti. Il singolo rimane a tutt’oggi uno dei pezzi migliori del gruppo, degno brano d’apertura secondo il loro classico schema.
La potenza e l’importanza della traccia d’apertura è confermata dal fatto che la band l’avrebbe utilizzata innumerevoli volte per iniziare gli spettacoli dal vivo. L’intensità dei testi (meno criptici rispetto a quelli composti nei primi anni ottanta) fanno di “Open” qualcosa di speciale: “I really don’t know what I’m doing here …” e “the rain comes down hard, that’s how I feel inside (piove così forte, è così che mi sento dentro) sono estratti di un malessere che solo Robert Smith potrebbe esprimere così bene.
Il lavoro, dopo la violenza e la grinta di “Open”, cambia immediatamente faccia con “High”, leggera e sognante, ma con un retrogusto malinconico (canzone la cui traccia melodica viene attribuita a Simon Gallup), salvo tornare con “Apart” ad una canzone che ripropone le sonorità di “Disintegration” o le cupe atmosfere di “Seventeen seconds”; rock introspettivo e minimale per raccontare l’amore smarrito tra un ragazzo ed una ragazza.
Porl Thompson è libero di mostrare il suo virtuosismo chitarristico con “From the edge of the deep green sea”, un’articolata e complessa rock song che, concepita su misura per essere cantata di fronte a fan in delirio (“put your hands in the sky”), anticipa la porzione centrale e leggera dell’album.
In “Wendy time” (forse il capitolo meno significativo dell’album) la parte migliore è data dalla voce di Robert Smith che gigioneggia con le sue corde vocali; “Doing the unstuck” è un brano ricchissimo di suoni in cui la poetica del leader concede sprazzi di autentico ottimismo (…. “let’s get happy”); “Friday i’m in love”, infine, è la bomba pop commerciale e brano dalle vendite milionarie.
Una chitarra acustica detta il tempo ad un brano estremamente semplice, ma capace di raggiungere il senso melodico totale (il futuro video di Tim Pope sarà perfetto a disegnare la spensieratezza vissuta nei quasi quattro minuti della canzone). È proprio “Friday i’m in love” il singolo più amato dagli “ascoltatori occasionali dei cure”, un gioco sonoro inserito in un contesto, quello di “Wish”, rappresentante una brillante miscela di suoni dark e melodia pop.
Da questo momento in avanti “Wish” sembra tornare a fare sul serio con cinque canzoni in un crescendo di emozioni.
Si riparte dalla dolcissima “Trust” in cui la voce di Robert Smith esce dall’intreccio sonoro creato dalle tastiere di Thompson e Bamonte per cantare l’amarezza che si cela dietro la mancanza di fiducia da parte dell’unica persona rimasta al mondo: “there is really no-one left at all”.
Ancora toni soffusi nell’acustica e piacevolmente zuccherosa “A letter to Elise” (probabilmente ispirata a “I ragazzi teribili” di Jean Cocteau e “Lettere a Felice” di Franz Kafka), che precede la rabbiosa “Cut”, nella quale padrona di casa è ancora la delusione per la fine di una storia d’amore, vissuta e raccontata con toni non più rassegnati, come nella precedente “Apart”, ma quasi collerici (“It’s all gone”/è tutto finito).
La penultima traccia si ricarica d’atmosfera ed il titolare della cura ci sussurra la sua rassegnazione per il mancato raggiungimento dei sogni e la perdita di speranza per le cose desiderate (“all I wish is gone away”)
“End”, posizionato come ultimo brano, regala per musica e liriche una della vette più alte di tutto il lavoro. È rabbia; è frustrazione; sono chitarre lancinanti, onnipresenti e distorte; è la voce di canta l’insoddisfazione per non essere mai capiti fino in fondo “plaese stop loving me ….. I’m none of these things” è l’unico modo possibile per concludere un album nella medesima forma in cui “Open” aveva aperto: GRANDE.
Ascoltando l’ultima ispiratissima traccia capiamo ancor di più le note di copertina che, questa volta, Robert Smith prende in prestito da Shelley per spiegarci il senso della sua arte: “We look before and after, and pine for what is not, our sincerest laughter with some pain is fraught, our sweetest songs are those that tell of saddest thought” (Ci preoccupiamo per ciò che è stato e per quello che sarà, e ci diamo pena per quello che non è, il nostro riso più sincero è intriso di dolore, le nostre canzoni più dolci sono quelle che raccontano i pensieri più tristi)
Questo è"Wish", l’album al quale seguì un grandioso tour mondiale e che ebbe il merito di non sfigurare di fronte all’imponenza del suo predecessore; album che, purtroppo, sarà dai più ricordato non tanto per quelle gemme sopraccitate, ma soprattutto per quel singolo che fece sdoganare i cure, facendoli entrare nel mondo del music business mondiale.
Tuttavia, è doveroso riconoscere che il gruppo di Robert Smith, anche da questo momento in avanti, conserverà (altro motivo d’orgoglio per ogni buon fan del gruppo) la non poco invidiabile posizione di band di culto ………. nonostante vendite non più conformi ad un gruppo underground.

 

ANNO: 1992

STUDIO DI REGISTRAZIONE: SHIPTON MANOR, OXFORDSHIRE.

ETICHETTA: FICTION

PRODUTTORE: DAVE ALLEN, ROBERT SMITH

FORMAZIONE: Robert Smith (voice, guitar, 6string bass, keyboards); Simon Gallup (bass, keyboards); Porl Thompson (guitar); Boris Williams (drums, percussion); Perry Bamonte (guitar, 6string bass, keyboards)

 

TRACKSLIST:

1. Open

2. High

3. Apart

4. From the Edge of the Deep Green Sea

5. Wendy Time

6. Doing the Unstuck

7. Friday I'm in Love

8. Trust

9. A Letter to Elise

10. Cut

11. To Wish Impossible Things

12. End