WISH
Dopo
il capolavoro di “Disintegration”, i Cure pubblicano “wish”,
un album nel quale sono racchiuse molte delle facciate che,
nel corso degli anni, il gruppo inglese ha saputo regalare ai
suoi fan.
Il
predecessore, come abbiamo visto, rappresentò uno degli
album più intimisti di Robert Smith; con il nono lavoro
in studio, i Cure si riappropriarono anche delle pop song, usandole,
quasi come una valvola di sfogo, tra una canzone dal contenuto
sonoro complesso ed ostico e tra una canzone che (ancora) rifletteva
l’umore sconsolato del leader. Ne viene fuori un album variegato
che per le sue caratteristiche d’eterogeneità si può
accostare al “Kiss me” album del 1987.
Il
gruppo, durante la lavorazione dell’album presso gli studi di
Shipton Manor, pensò di scindere le composizioni del
futuro “Wish”, dando vita non più ad uno, bensì
a due album distinti: da una parte ci sarebbero state le composizioni
più cupe e dark, dall’altra quelle più pop e leggere.
La decisione di raggrupparle in un unico lavoro contribuisce,
invece, a rendere “Wish” ancora più apprezzabile.I
cambiamenti rispetto a “Disintegration” sono visibili fin dalla
lettura della line up, in cui non compare più il tastierista
Roger O’donnell (divergenze caratteriali con Simon Gallup),
sostituito da un loro ex rodie: Perry Bamonte.
Pertanto,
in questo 1992 accanto al signor Smith (chitarra, voce, ma in
alcuni brani anche basso e tastiere ed autore come al solito
di tutte le canzoni), troviamo Simon Gallup (bassi), Porl Thompson
(chitarre), Perry Bamonte (chitarre e tastiere) e Boris Williams
(batteria e percussioni), in quella che, probabilmente, rimane
la formazione meglio apprezzata ed affiatata.
E,
come spesso accade, la copertina si presenta come la degna presentazione
dell’album: in tinte rosse si mostra il nono lavoro del gruppo,
con scritte che ricordano un vago stile psichedelico. Il nome
del complesso è composto da quattro simboli (una sorta
di ferro di cavallo) che incastonati l’uno all’altro riescono
a riprodurre il nome CURE; sotto di esso un mondo azzurro è
circondato da numerosi occhi curiosi che sembrano scrutare il
globo terrestre.
L’album
si apre con “Open”, una canzone semplicemente devastante, nella
quale, accanto ad un sound duro e chitarristico, Robert Smith
unisce liriche altrettanto violente e coinvolgenti. Il singolo
rimane a tutt’oggi uno dei pezzi migliori del gruppo, degno
brano d’apertura secondo il loro classico schema.
La
potenza e l’importanza della traccia d’apertura è confermata
dal fatto che la band l’avrebbe utilizzata innumerevoli volte
per iniziare gli spettacoli dal vivo. L’intensità dei
testi (meno criptici rispetto a quelli
composti nei primi anni ottanta) fanno di “Open” qualcosa di
speciale: “I really don’t know what I’m doing here …” e “the
rain comes down hard, that’s how I feel inside (piove così
forte, è così che mi sento dentro) sono estratti
di un malessere che solo Robert Smith potrebbe esprimere così
bene.
Il
lavoro, dopo la violenza e la grinta di “Open”, cambia immediatamente
faccia con “High”, leggera e sognante, ma con un retrogusto
malinconico (canzone la cui traccia melodica viene attribuita
a Simon Gallup), salvo tornare con “Apart” ad una canzone che
ripropone le sonorità di “Disintegration” o le cupe atmosfere
di “Seventeen seconds”; rock introspettivo e minimale per raccontare
l’amore smarrito tra un ragazzo ed una ragazza.
Porl
Thompson è libero di mostrare il suo virtuosismo chitarristico
con “From the edge of the deep green sea”, un’articolata e complessa
rock song che, concepita su misura per essere cantata di fronte
a fan in delirio (“put your hands in the sky”), anticipa la
porzione centrale e leggera dell’album.
In
“Wendy time” (forse il capitolo meno significativo dell’album)
la parte migliore è data dalla voce di Robert Smith che
gigioneggia con le sue corde vocali; “Doing the unstuck” è
un brano ricchissimo di suoni in cui la poetica del leader concede
sprazzi di autentico ottimismo (…. “let’s get happy”); “Friday
i’m in love”, infine, è la bomba pop commerciale e brano
dalle vendite milionarie.
Una
chitarra acustica detta il tempo ad un brano estremamente semplice,
ma capace di raggiungere il senso melodico totale (il futuro
video di Tim Pope sarà perfetto a disegnare la spensieratezza
vissuta nei quasi quattro minuti della canzone). È proprio
“Friday i’m in love” il singolo più amato dagli “ascoltatori
occasionali dei cure”, un gioco sonoro inserito in un contesto,
quello di “Wish”, rappresentante una brillante miscela di suoni
dark e melodia pop.
Da
questo momento in avanti “Wish” sembra tornare a fare sul serio
con cinque canzoni in un crescendo di emozioni.
Si
riparte dalla dolcissima “Trust” in cui la voce di Robert Smith
esce dall’intreccio sonoro creato dalle tastiere di Thompson
e Bamonte per cantare l’amarezza che si cela dietro la mancanza
di fiducia da parte dell’unica persona rimasta al mondo: “there
is really no-one left at all”.
Ancora
toni soffusi nell’acustica e piacevolmente zuccherosa “A letter
to Elise” (probabilmente ispirata a “I ragazzi teribili” di
Jean Cocteau e “Lettere a Felice” di Franz Kafka), che precede
la rabbiosa “Cut”, nella quale padrona di casa è ancora
la delusione per la fine di una storia d’amore, vissuta e raccontata
con toni non più rassegnati, come nella precedente “Apart”,
ma quasi collerici (“It’s all gone”/è tutto finito).
La
penultima traccia si ricarica d’atmosfera ed il titolare della
cura ci sussurra la sua rassegnazione per il mancato raggiungimento
dei sogni e la perdita di speranza per le cose desiderate (“all
I wish is gone away”)
“End”,
posizionato come ultimo brano, regala per musica e liriche una
della vette più alte di tutto il lavoro. È rabbia;
è frustrazione; sono chitarre lancinanti, onnipresenti
e distorte; è la voce di canta l’insoddisfazione per
non essere mai capiti fino in fondo “plaese stop loving me …..
I’m none of these things” è l’unico modo possibile per
concludere un album nella medesima forma in cui “Open” aveva
aperto: GRANDE.
Ascoltando
l’ultima ispiratissima traccia capiamo ancor di più le
note di copertina che, questa volta, Robert Smith prende in
prestito da Shelley per spiegarci il senso della sua arte: “We
look before and after, and pine for what is not, our sincerest
laughter with some pain is fraught, our sweetest songs are those
that tell of saddest thought” (Ci preoccupiamo per ciò
che è stato e per quello che sarà, e ci diamo
pena per quello che non è, il nostro riso più
sincero è intriso di dolore, le nostre canzoni più
dolci sono quelle che raccontano i pensieri più tristi)
Questo
è"Wish", l’album al quale seguì un grandioso
tour mondiale e che ebbe il merito di non sfigurare di fronte
all’imponenza del suo predecessore; album che, purtroppo, sarà
dai più ricordato non tanto per quelle gemme sopraccitate,
ma soprattutto per quel singolo che fece sdoganare i cure, facendoli
entrare nel mondo del music business mondiale.
Tuttavia,
è doveroso riconoscere che il gruppo di Robert Smith,
anche da questo momento in avanti, conserverà (altro
motivo d’orgoglio per ogni buon fan del gruppo) la non poco
invidiabile posizione di band di culto ………. nonostante vendite
non più conformi ad un gruppo underground.
ANNO:
1992
STUDIO
DI REGISTRAZIONE: SHIPTON MANOR, OXFORDSHIRE.
ETICHETTA:
FICTION
PRODUTTORE:
DAVE ALLEN, ROBERT SMITH
FORMAZIONE:
Robert Smith (voice, guitar, 6string bass, keyboards); Simon
Gallup (bass, keyboards); Porl Thompson (guitar); Boris Williams
(drums, percussion); Perry Bamonte (guitar, 6string bass, keyboards)
TRACKSLIST:
1.
Open
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2.
High
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3.
Apart
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4.
From the Edge of the Deep Green Sea
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5.
Wendy Time
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6.
Doing the Unstuck
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7.
Friday I'm in Love
|
8.
Trust
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9.
A Letter to Elise
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10.
Cut
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11.
To Wish Impossible Things
12.
End
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