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Me lo aveva detto mia moglie Adriana, in più occasioni, in effetti: “Tu che detesti il sole ed il caldo, hai scelto di vedere i Cure proprio nella capitale più calda d’Europa?”. Frase a cui venivano associati commenti non sempre lusinghieri circa la mia evidente scarsa lungimiranza ed accortezza. Ma non è facile scegliere di fronte ad un tour della tua band preferita e solo quando si scende dall’aereo ci si accorge di quanto intelligenti fossero i moniti della consorte, nonostante la sorte mi abbia riservato il jolly, facendomi pescare dal mazzo proprio la due giorni più clemente di tutta l’estate greca!
Armato di crema solare, unitamente a tutte le astuzie atte a proteggermi dalla calura devastante, mi reco verso il porto, per la mia seconda tappa del tour 2019, carico di energie per il racconto del mio grosso, grasso concerto greco.
Eh si, il gioco è sopravvivere e attendere l’imbrunire, per togliersi di dosso tutto quanto e ripartire con rinnovate energie. In fondo da quel momento e fino alla doccia in hotel, ci separeranno solo le circa due ore e mezza di Cure; non siamo forse qui per questo?
Ah già, due parole alle band di supporto, ma solo per stroncare nella maniera più assoluta i Ride. La mia curiosità di vedere live uno dei gruppi più influenti della scena shoegaze degli anni ’90 viene subito cancellata dalla prova on stage: settaggio degli strumenti pessimo, unito ad un fastidio per gli ascoltatori, costretti a subire gli extra bassi senza che musicisti o fonici se ne accorgessero. Insomma, uno dei concerti peggiori a cui mi sia dato mai di assistere.
Michael Kiwanuka e la sua band, invece, sono bravi nella proposizione di un soul che deve molto(issimo) a Ben Harper, anche sul versante vocale.
Ma la ragione d’essere di questa trasferta arriva alle 22.20, quando i Cure salutano la folla dell’Ejekt Festival.
Avevo bisogno di un’apertura che mi desse una spinta forte, quella, per capirci, capace di farti volare alto alto fino in cima all’Acropoli. Ed eccola “Plainsong” con il leader che già dall’ingresso ci fa chiaramente intendere quanto si senta felice e sereno in questo concerto. La passerella, compiuta senza imbracciare la chitarra, è un’occasione imperdibile per salutare virtualmente tutti in un gioco romantico che definisce alla perfezione il suo autore.
 “Pictures of you”, ricalcando l’album che festeggia l’importante traguardo delle trenta candeline, mantiene lo stato di trance, mentre “High”, “Just one kiss” e “Lovesong” sono qualcosa più che riempitivi di inizio concerto.
Robert Smith è oggi talmente in forma e carico di buon umore che calamita (ancor più di altre occasioni) gli occhi dei fan. Il suo alfiere Simon Gallup risponde senza tregua, cercando anche di coinvolgere un Gabrels che, altrimenti, rischierebbe di essere dimenticato ai lati del palco. Ci piace, al riguardo, osservare il bassista quando scherza con il chitarrista, baciandolo sulla fronte (… ma qualcuno si ricorda ancora il bacio a Porl Thompson?) o stimolandolo con l’esecuzione di qualche riff, in un bel modo, quantomeno, di far sentire parte del gruppo chi è palesemente il quinto dei Cure.

Sembra che i Cure vogliano fare la corsa contro il tempo, non aspettando neppure un secondo tra la fine di un brano e l’esecuzione di quello successivo. In questo pazzo scorrere delle canzoni, possiamo citare alcuni titoli che, per esecuzione, oggi hanno vissuto una seconda giovinezza. È il caso di “Last dance” (acida ed enigmatica), “From the edge of the deep green sea” (con i suoi mille cambi di rtimo), la doppietta di “Seventeen seconds” (Gallup a giocare con un pubblico molto partecipativo), ed una “Disintegration” con la quale si chiude il main set.

Alcuni novizi dei Cure sono sorpresi dalla tenuta fisica dei nostri. Mi giro e mi accorgo di persone che, poco alla volta, abbandonano la partita, esausti per durate non compatibili con quelle delle altre band!
Eh si, perché prima di mettere fine alla partita di oggi manca il rientro pop, nel quale il già alto umore del leader raggiunge espressioni quasi imbarazzanti. C’è anche l’occasione per prendersi gioco di Roger O’Donnell, guardandolo in faccia e sbeffeggiandolo sul modo in cui suona la tastiera, fino ad arrivare a balletti prolungati durante una bellissima “The walk” o In “Friday I’m in love” quando finge di suonare il pezzo a cappella, prima di dare l’ok a Cooper per l’intro di batteria. Poi un saluto con il sorriso dichiarando che l’ultimo brano si intitola “Boys don’t cry”.

Come si suol dire … stanchi, ma felici, giusto?