4.9 Death in June – singoli

Dozzinalità fra le dozzinalità, di gruppi punk ce ne sono stati veramente troppi, e tutti troppo incapaci, tutti troppo uguali. Fu questo a portare alla morte prematura del genere, sebbene ciò non significasse assolutamente la morte di TUTTI i gruppi punk (“punk’s not dead” fu uno slogan che si sentì ancora per molti anni). Fra questi sopravvissuti ci furono senza dubbio i Crisis, sebbene assolutamente non dozzinali, almeno nell’etica: al contrario della maggior parte dei loro compagni di genere, loro appartenevano a quell’ala politicamente impegnata, nel dettaglio di estrema sinistra.
Tra i principali protagonisti nelle manifestazioni londinesi di Rock Against Racism, i Crisis facevano anche parte della Anti-Nazi League, un’organizzazione dell’SWP (Socialist Workers Party, il partito dei lavoratori socialisti) tra le più attive e combattive, di cui era membro Tony Wakeford, bassista del gruppo. Fu proprio l’SWP a organizzare ai Crisis il loro evento più importante: un tour della Norvegia. Ma a parte il loro certo encomiabile impegno sociale, la musica del gruppo non superava certo punk arrabbiatello e un po’ di maniera, benché non mancassero occasionalmente liriche pregevoli, oltre a certi tentativi sperimentali alla Wire.
Ma nel 1981 la musica si era evoluta troppo oltre il primo punk nudo e crudo, ed il gruppo non sopravvisse alla constatazione obiettiva di un ritardo artistico-culturale leggermente contraddittorio (non si può essere progressisti proponendo una musica di retroguardia). Eppure, nel mese di giugno dello stesso anno, due dei suoi membri vollero proseguire l’avventura musicale: si trattava del già menzionato bassista Tony Wakeford e del chitarrista Douglas Pearce, entrambi anche cantanti. I due selezionarono vari batteristi ed alla fine scelsero Patrick Laegas, impressionati dal suo drumming marziale e militaresco. Fu così che nacque l’ennesimo gruppetto dark della seconda generazione, i Death in June, ma alla ricerca di una via un minimo più originale di tanti loro coetanei.
In effetti alla personalità esuberante e politicamente impegnata di Wakeford stava lentamente sovrapponendosi quella più matura e meditativa di Pearce, che ora si faceva chiamare Douglas P. Fu lui infatti a scegliere il nuovo nome del gruppo, ispirato dalla “Notte dei Lunghi Coltelli”, il celebre massacro nazista del 30 giugno 1934. Per carità, questo spiega tutt’una serie di simbologie nazi-fasciste e militariste contenute nell’iconografia e nella musica dei Death in June, tuttavia per Douglas P questa denominazione rimase molto più ampia e multisfaccettata e, col tempo, venne colorita di significati esoterici.
Ora, sia ben chiaro un concetto: nonostante il fatto che da quella stagione, con l’apertura del Batcave, il dark stesse emergendo vieppiù come genere di consumo, oltre che di tendenza, ciò non significa che non fosse ancora perfettamente in grado di dare origine a fenomeni autenticamente underground, e i Death in June furono proprio uno di quei casi. Anche per questo fecero una certa fatica a trovare un’etichetta discografica ed infine, seguendo l’esempio dei Killing Joke (e di molti altri microbi punk), dovettero accontentarsi della loro microscopica etichetta discografica, la New European Recordings, meglio conosciuta con l’acronimo NER, che però col tempo riuscì a farsi distribuire dall’altrettanto underground World Serpent.
Ins
omma, il primo parto di tutta questa attività lo si vide nell’inverno dell’81, sotto forma di un maxi-singolo a 12”. Un arpeggio di chitarra remoto ed incredibilmente effettato di delay e riverberi apriva la prima, poi famosissima, Heaven Street. Sullo stesso giro armonico interverranno un basso a carroarmato ed una batteria a martello sulla cassa. Le voci lontane e sinistre, anch’esse effettate, anch’esse a seguire il giro armonico, fino al ritornello-farsa «this road leads to heaven». Al secondo ritornello si capisce che i Death in June fanno sul serio: vari effetti bellici, voci distorte da radio militare in loop ripetuto, effettistiche acide a disturbare la percezione (ed il cervello) in un incubo per la psiche ed un’estasi per i sensi. Heaven Street, balorda, cattiva, eppur accattivante, si impose subito come un classico.
Girato il disco, il batterista Laegas faceva capire di che pasta era fatto: l’inizio di We Drive East, infatti, sopra una nota straziante di tromba (o è una chitarra irriconoscibile?), il rullante cominciava una ritmica militare, presto sostenuto dal mortifero basso di Wakeford. Anche in questo caso le voci, quelle dei due leader Douglas P e Wakeford, erano sinistre e remote a cantare una nenia decisamente funerea («we pay in blood», paghiamo nel sangue). Su un coretto necrofilo si ripete il titolo, fino al cambio di ritmica che forse conclude il brano un po’ affrettatamente. Ma ecco esplodere In the Night Time: chitarra acida, basso poderoso, batteria martellante. Il giro prosegue finché non si recepisce una voce sotto che ripete il titolo. La voce principale emerge minacciosa, ma il brano ripercorre strade già sperimentate con i Crisis, risultando sostanzialmente un brano punk “appesantito”. Piacevole ma minore.
Il disco purtroppo passò praticamente inosservato, eccetto un piccolo zoccolo duro di entusiasti fedelissimi che cercavano di diffonderlo il più possibile, puntando sui suoi innegabili punti di forza: una nuova dimensione dell’oscurità (più ossessiva e paranoica, nonostante fosse sulla scia di certi Joy Division) e testi che lasciavano presagire una profondità di analisi, oltre che culturale, decisamente superiori alla media della scena dark. La giovane età, gli entusiasmi dei pochi fan, e di conseguenza le loro insistenze, presto convinsero i tre a tornare in sala d’incisione. Sempre con ottime idee, ma con un po’ meno soldi.
Infatti nella primavera dell’82 sempre per la NER uscì il classico 45 giri a 7”, una canzone per lato. Sul lato A State Laughter cominciava con una sballata scala di note casuali (un synth? Uno xilofono?), sulle quali si innestavano le lunghe e tristi note di una tromba desolata. Il basso penetrava minaccioso e dopo un minuto buono del suo funebre giro faceva il suo devastante ingresso la batteria e subito dopo una voce in quasi parlato solenne. Questo fino alla nuova caduta catatonica sul giro di basso e tromba iniziali. Un panorama che alternava desolazione ed energia con la sicurezza del grande autore.
Sul lato B, invece, Holy Water cominciava in modo più tradizionale con gli strumenti insieme su giro notturno e minaccioso. La voce era più epica, la batteria più tribale, la variante più solare. Una vera ballata veloce e tragica che, per quanto più tradizionale, esprimeva una maestosità raramente sentita. Per la prima volta, poi, erano chiaramente espressi concetti di tipo spiritual-religioso. Ma forse ciò che fece più parlare il disco di sé fu la copertina: nera con teschio nazi-fascista. Certo, visto il passato come Crisis, i tre non dovevano dimostrare niente a nessuno: era chiaro che si trattasse di un’accusa, ancor più che di una provocazione. Ma non tutti vollero capire…

Insomma, tra le nebbie più underground di una Londra notturna e sofferta erano nati i Death in June, gruppo da alcuni definito qualsiasi, da altri una vera e piacevole sorpresa. Le voci erano lamentose o solenni, i testi molto intimi e sofferti, la chitarra di Douglas P acida e la sua tromba straziante, il basso di Tony Wakeford pieno, dinamico e minaccioso, la batteria di Patrick Laegas metronomica, tribale o marziale. In genere le loro atmosfere erano cupe e claustrofobiche, sebbene impreziosite di effetti e comunque sempre dinamizzate dalle ritmiche.
Certo. Nell’indifferenza generale era sbocciato un preziosissimo fiore nero…