4.10 Diamanda Galas – The Litanies of Satan Ep

Nei primi giorni di febbraio del 1982, per la misconosciuta Y Records, uscì un disco che, sebbene proveniente da una realtà artistica sostanzialmente estranea alla scena dark (cioè di teatro sperimentale ed antagonista), lasciò quest’ultima assolutamente attonita. E l’artista che ne era titolare fu così calorosamente acclamata dal popolo oscuro, che de facto arriverà a costituire il 90% del suo mercato, da divenire parte integrante di quella scena letteralmente a furor di popolo, seppur non rispettando appieno i criteri stabiliti nel paragrafo introduttivo di quest’opera.
In effetti Diamanda Galas (con l’accento sulla “a”, Galàs) nacque a San Diego in California da genitori greci, e cristiano-ortodossi. Come tale non fu incoraggiata nell’uso della voce e del canto, ma bensì nell’apprendimento della tastiera e del pianoforte. Non tollerando la rigida educazione religiosa che i suoi genitori vollero imporle, una giovanissima Diamanda si liberò presto delle pastoie famigliari e, nei primi anni 70, si buttò in una vita di eccessi, sesso e droga, per le strade di San Diego prima e di Oakland poi. Quando decise di frequentare l’università della California era già famosa col poco lusinghiero titolo di “drag queen”, ben dubbio onore per una donna. All’università studiava performance audio-visive, ma soprattutto canto, un po’ come reazione agli impedimenti della sua infanzia, un po’ per scrollarsi di dosso un’etichetta di puttana tossica di certo poco edificante.
Ma certe etichette sono dure a morire, restano attaccate a vita, come la malafede della gente pronta a giudicare il prossimo per sentirsi migliore. Fu così che, dopo la laurea, la nostra partì per l’Europa, frequentando scuole di recitazione e compagnie indipendenti di teatro artistico. E continuando a coltivare una voce che, contro ogni previsione, stava mano a mano assumendo proporzioni “mostruose”. Fu proprio questa “mostruosità” a convincere il compositore Vinko Globokar ad invitarla a partecipare alla sua opera Un Jour Comme un Autre, grazie alla quale, finalmente, nel 1979 la Galas debuttò in scena al festival di Avignone. Un’opera certo non leggera, basata sulle documentazioni di Amnesty International sulle torture subite da una donna turca condannata per alto tradimento.
La cosa pazzesca è che la sua voce impressionò così tanto René Gonzales, l’allora direttore del teatro underground parigino “Gerard Phillipe Saint-Denis”, che quest’ultimo la invitò nella capitale francese e le diede carta bianca pur di realizzare un progetto con lei. Qui, nei due anni seguenti, la Galas mise a punto, e mise anche in scena, le prime sue opere: Wild Women with Steak Knives e Tragouthia apo to Aima Exon Fonos (“Canto dal Sangue di Coloro che Furono Assassinati”). Quest’ultima è una sorta di invocazione con maledizione all’indirizzo della giunta militare che governò in Grecia tra il 1967 e il 1974, ed è dedicata alle sue vittime. Lo stile della Galas si rifaceva molto alle tradizioni greche, soprattutto alle strazianti lamentazioni femminili per la perdita del marito in faide locali: roba da far accapponare la pelle...
In seguito portò le sue opere in tournée per tutta Europa, partecipando ai più importanti festival di teatro alternativo dell’epoca: Donaueschingen, Inventionen, Biennale de Paris ed anche Musica Oggi e Festival della Voce in Italia. Queste performance, così dolorose e allucinanti, come tutti i veri capolavori dovrebbero fare, o creavano orrore e ribrezzo negli ascoltatori, oppure un vero e proprio entusiasmo, l’entusiasmo sofferente che cercava di ricreare Artaud con il suo “teatro del dolore”, a suo tempo “adottato” dai Virgin Prunes e, come presto sapremo, dai Christian Death. Fu così che nacque l’idea di fissare le sue idee su disco, quindi non esattamente musica o canzone ma bensì performance teatrale, tuttavia di un tipo così potente e persuasivo da poter benissimo reggere il solo ascolto.
Ma certo, purtroppo allora Diamanda Galas non era quasi nessuno, soprattutto nell’ambiente musicale, e dovette accontentarsi dell’assolutamente sconosciuta ed ultra-indipendente Y Records, per un’uscita in buona parte finanziata da lei e dal suo entourage. Lei nel frattempo aveva composto una nuova opera basata sulla lettura dei lavori di Baudelaire (I Fiori del Male e altro), e fu questa che volle registrare, immortalandola in un assurdo 45 giri da 12”, che però durava circa un quarto d’ora per lato (quindi un Ep): The Litanies of Satan.
L’opera appena composta andò a costituire l’a-side del disco, dove le voci vengono elettronicamente moltiplicate ed effettate, dando l’impressione di una sorta di accompagnamento musicale, che però è quasi inesistente. In realtà c’è una percussione bassa e, più avanti, altri interventi perlopiù percussivi di synth. La voce è una vera e propria litania, in francese (essendo ispirata a Baudelaire), con il verso ripetuto «Oh Satan, prends pitié de ma longue misère» (o Satana, abbi pietà della mia lunga miseria). In effetti l’autocommiserazione è uno dei più vecchi trucchi dell’ego, nostra parte “satanica” per eccellenza, se tutte le scuole spirituali in buona fede si propongono di eliminarlo… Anche un’assurda voce rallentata, molto bassa da sembrare maschile, o comunque “dannata” e diabolica come poche, fa da contrappunto basso. Sopra la voce perde il controllo della ragione e, come invasata e folle, ripete e improvvisa deliri sotto l’effetto ed il controllo di forze arcane e demoniache. Mille altre voci gridano, ululano e si sovrappongono, dando un effetto mostruosamente psichedelico al tutto.
Interventi elettronici, urla da strega, vocalizzi sopranisti (ricordiamo che Diamanda era una campionessa di canto lirico), per il povero ascoltatore si tratta di un tour-de-force nelle zone più paludose e torbide dell’inconscio collettivo, lungo quasi 20 minuti. Echi e riverberi per “zanzare” vocali, lamenti di spettri, tremolii di terrore, da restare basiti e volersi nascondere. The Litanies of Satan si configura come opera estrema, sperimentale e originalissima, tuttavia il retro non sarà da meno: si tratta della già sentita Wild Women with Steak Knives, opera per sola voce, lo squilibrio di una pazza che follemente percorre le vie di un classico ghetto americano, depravata e schizofrenica.
In effetti all’inizio sembra proprio di avere a che fare con le farneticazioni di un’invasata costretta dalla camicia di forza. Poi però una pausa, quindi un grido acutissimo devasta lo spazio sonoro e la psiche. Qui Diamanda dà dimostrazione delle capacità impressionanti della sua voce, in grado di librarsi negli acuti più agghiaccianti, gridati, rauchi, oppure sussurri, vagiti, squittii, borborigmi, gemiti e vocalizzi i più complessi e disparati.
L’effetto è veramente raccapricciante: come ascoltare una Linda Blair (la protagonista de “L’Esorcista”) indemoniata quanto mai, o un donna torturata in carcere, o ancora semplicemente una malata di mente che parla/grida da sola in modo allucinato e sconnesso, che litiga, che urla vivendo le parti di personaggi immaginari. Niente musica, niente accompagnamento, solo vocalizzi estremi ed esasperanti, grida d’orrore o sguaiate, mormorii d’oltretomba, escursioni da soprano leggero, per dodici minuti che sono supplizio dell’anima.

Il disco piombò come un macigno sulla testa degli appassionati della scena gotica. Una nuova regina era nata: più brava di Souxsie poiché più sperimentale ed in grado di rinunciare all’arrangiamento, e vocalmente più dotata di Nico, con la sua capacità di andare addirittura oltre le quattro ottave. Di quest’ultima però aveva il carisma maledetto e misterioso, anzi forse misteriosofico. Come lei sapeva parlare del dolore, ma in un modo ancora più estremo, più gridato in faccia al mondo, certamente più etnico, capace com’era di pescare dalle forme mediterranee, greche, africane. Forme che il dolore aveva assunto in millenni di agonie dei deboli, dei reietti del mondo, delle donne. Sì, le donne con il loro dolore millenario di vittime della violenza, di madri coi figli in guerra o in carcere, di vedove.
Forse era addirittura troppo, troppo per un mondo che certe cose si rifiutava di sentirle, troppo per gli anni 80 dell’“edonismo reaganiano”. Troppo persino per una scena gotica che, nel suo essere “musicale” e giovanile, rappresentava più l’accidiosa sconfitta del giovane europeo che l’angoscia straziata e pluri-millenaria di un’umanità dolente. Il disco, tutto sommato, non fu un successo nemmeno per l’underground, e Diamanda tornò quindi al teatro, con la sua nuova opera, Panoptikon.
Ma intanto The Litanies of Satan era uscito e alle persone più sensibili era piaciuto. Molto, forse troppo per poter essere relegato in un cassetto. Fu così che proseguì il suo lavoro. Con il passaparola, nell’ombra.