4.7 New Order – singoli + Movement

Quella dei New Order, in fondo, è una storia triste, o perlomeno agrodolce. È la storia di chi non vuole mollare, di chi si sente in diritto di andare avanti comunque vada, per quanto costretto a convivere con un passato importante, troppo maledettamente importante. È la storia di tre ragazzi di talento che, a confronto con una delle personalità più importanti della nostra epoca, hanno brillato anche di luce riflessa, mentre lasciati soli a se stessi hanno mano a mano dimostrato la loro (umana) mediocrità, vieppiù ridimensionando l’opinione che la scena dark si era fatta di loro.
Quindi è chiaro: la storia dei New Order comincia dove finisce quella dei Joy Division, qualche giorno dopo la tragica scomparsa di Ian Curtis. I ragazzi si ritrovano, ma sono smarriti, sgomenti. Ora il dolore di cui parlava Curtis non era solo poetico, ma vissuto nella propria carne, lacerante la propria sensibilità. Ora è chitarrista Bernard Albrecht che prova a misurarsi con la voce, riacquistando il suo nome d’anagrafe: Sumner. Il batterista Stephen Morris arruola la fidanzata Gillian Gilbert, a sostituire ai sintetizzatori il produttore Martin Hannett (comunque sempre presente), mentre il basso di Peter Hook è una certezza da sempre. I Joy Division erano morti, ecco un ordine nuovo: i New Order, sempre ad echeggiare minacciosamente voci che li volevano implicati con certa estrema destra…
Il primo atto del gruppo, lo si è già detto, avvenne nel mese di gennaio dell’81, con la pubblicazione del singolo Ceremony / In a Lonely Place: due brani composti con Ian Curtis (e si sente), ora goffamente imitato da Barney Albrecht, pardon, Sumner. Il disco, qui presentato nelle due versioni a 7 e a 12 pollici, conteneva due perle di malinconia, la prima anche di rabbia, solo parzialmente edita nell’incompleta registrazione che apriva il disco live di Still. La seconda è grandiosa e solenne desolazione interiore, il miglior epitaffio alla storia del gruppo-madre che si potesse immaginare. Ma qui i New Order furono ciò che tutti si aspettavano: assolutamente i Joy Division senza Ian Curtis.
Un pochetto più di personalità emerse con il secondo singolo, Procession / Everything's Gone Green, del mese di settembre. La prima si apre con un bellissimo suono di synth, maestoso ma comunque minore, soffuso. Sarà il basso a scandire un tempo movimentato ed aprire la strada a Morris. Ecco, al contrario del titolo, Procession si fa improvvisamente solare, nonostante il tono generale un po’ dimesso. Come un’allegria dimessa, appunto, malinconica, trattenuta, che sarà un po’ il marchio di fabbrica del gruppo, che per la prima volta sfoggiava coretti femminili. Comunque un gran bel brano, soprattutto nel finale, dove la chitarra tornava un po’ più libera di esprimersi. Ma un ritmo ancora più danzereccio apriva invece Everything's Gone Green, con un Hook subito intervenuto molto dinamicamente. Gli interventi della Gilbert sono evidentissimi, e danno al brano un sound molto “disco”, tuttavia senza tradire umori notturni, sottolineati bene dalla chitarra e dall’atmosfera generale, anche del cantato. Chi conosce la loro discografia non può non costatare che questo brano è giusto il primo abbozzo, lo scheletro, della futura e ben più famosa Blue Mondays. Musica da discoteca depressa.
Certo, i fan dei Joy Division storsero il naso davanti ad arrangiamenti così smaccatamente dance, così come i primi storici fan del gruppo storsero il naso davanti ai synth di Love will Tear us Apart. Dove volevano arrivare i New Order? Fino a che punto potevano infangare la memoria dell’immenso con cui ebbero l’onore di collaborare? Domanda viziosa per eccellenza. Nel frattempo i ragazzi non vollero andare da nessuna parte, ma bensì ottemperare ai loro obblighi e doveri. Ovvero celebrare degnamente l’esperienza unica che ebbero veramente l’ONORE di vivere, con la pubblicazione del doppio Still, avvenuta, come tutti dovrebbero ormai sapere, nel mese di ottobre.
Fu quindi un po’ giocoforza che i tre (più una) si rimmergessero nella storia e nei suoni del loro recente passato. Le atmosfere cupe, maledette, stralunate dei tempi che furono. E ciò non poté evitare di influenzare le nuove registrazioni, avvenute sempre sotto la funerea ed elettronica egida del fidato amico Martin Hannett. Fu così che il 14 novembre uscì Movement, per certuni (e per l’anagrafe) il primo album dei New Order, per altri l’ultimo dei Joy Division.
Copertina semplice e secca, sempre del fidato Saville ora fattosi minimalista, dopo un poster di Fortunato Depero. Un inizio bello come inizio, sebbene il brano in sé fosse abbastanza modesto: Dreams Never End, infatti, attaccava bene con la chitarra, lasciandosi alle spalle fantasmi troppo sintetici, ma si risolveva in una canzonetta triste sempre sullo stesso giro armonico. Niente di male, per carità, ma i ragazzi potevano (e forse dovevano) fare di più. Impressionante comunque il tentativo di Sumner di imitare il cantato di Curtis, tentativo che, quando non perfettamente riuscito, rischiava di sfociare nella parodia.
Ahi ahi ahi, ma cosa sono questi suoni? Percussioni sintetiche? Ma non si fa in tempo a schifarsi, perché entra Hook, desolato e depresso come ai vecchi tempi! Si tratta di Truth, una litania lenta e malinconica sul senso di straniamento, dove il fantasma di Curtis la fa da padrone, anche nelle liriche: «Oh, it's a strange day, in such a lonely way, I saw some children dance, I watched my life in a trance» (oh, è uno starno giorno, in modo così solitario, ho visto bambini ballare, ho guardato la mia vita in trance). Negli stacchi di chitarra i brividi si impossessano della schiena, così come nel lungo (e meraviglioso) finale rumorista. Sull’orlo del pianto si passa alla successiva Senses, anch’essa aperta da percussioni sintetiche, sebbene più dure e possenti, contrappuntate dalle tastiere della Gilbert, fattesi finalmente funeree. Poi le percussioni si moltiplicano e strutturano la strofa, su nota fissa e pulsante di basso. Il cantato è monocorde, e anche qui il modello è uno, ma il brano è più interessante per l’atmosfera e per le numerose varianti musicali.
Un raggio di sole fa capolino col ritmo sostenuto della successiva Chosen Time, che riprende una sorta di funky post-punk tipico dei Division, per riproporlo in versione più ballabile, senza però arrivare agli eccessi dei singoli. Il basso di Hook è un martello, mentre i synth, ad un certo punto, cadono liquidi come una cascata. Un brano trascinante e frenetico, dove il ballo non è banale, ma le liquide tastiere lo chiudono in fretta, e con lui il lato A del disco.
Sull’altro lato Movement ricomincia con uno dei suoi brani migliori, ICB, aperto dal basso possente, poi dalla batteria, finalmente suonata (e non programmata) da Morris. Il buon Bernard Sumner canta come il suo idolo quando era più disincantato e sprezzante, intervenendo poi con la sua chitarra tagliente che tanto abbiamo amato. I continui sibili di synth contribuiscono a creare quell’atmosfera unica tipica loro: disincantata ma depressa, monolitica ma futuribile. E sarà una caduta di synth a chiudere il brano.
Ma ancora un basso funereo emerge, ed ancora malinconia sconsolata, in un altro capolavoro degno del loro passato: The Him. Un brano dalla bellezza avvolgente, tempestato di percussioni reiterate e tastiere strazianti, con liriche meravigliose interrotte da stacchi di accelerazione ritmica e chitarristica. «Some days you waste your life away / These times I find no words to say / A crime I once committed failed me / Too much of heaven's eyes I saw through / Only when meanings have no reason / They're taken beyond your sense of right» (certi giorni sciupi la tua vita, in questi casi non trovo parole da dire, fu un crimine che commisi una volta a farmi mancare, troppi occhi del cielo attraverso cui vidi, solo quando i significati non hanno più ragione, vengono portati oltre il tuo senso del giusto). Dopo la seconda strofa, una pausa leggermente sostenuta da una bassa tastiera e poi… l’esplosione sonica! Sì, il brano esplode in una sorta di cavalcata psico-straziante, dove dolenti «I’m so tired» della voce vengono ripetuti, fino alla fine. Da scombussolamento dell’anima.
La penultima Doubts Even Here è una solenne ballata su toni più disincantati che malinconici. Né la linea melodica né l’arrangiamento sono particolarmente interessanti, la forza del brano essendo tutta nelle liriche. «In my mind, thoughts are becoming clearer, I'm watching every move you make, counting time spent in observation, a single blow a false mistake» (nella mia mente i pensieri stanno facendosi più chiari, sto guardando ogni tua mossa, contando il tempo passato ad osservare, un singolo soffio, un falso errore), ma poi la tonalità sale di un pelo, il ritmo è più scandito e il brano si conclude ripetitivo col contro-canto (anche qui, finalmente funereo) della Gilbert. Il ritmo tornerà veloce ed accattivante per l’ultima Denial, un brano solo leggermente discotecaro, in realtà epico e comunque depresso. L’invito alla danza rasenta l’irresistibile nella lunga parte strumentale centrale, alla quale segue una nuova, devastante riesumazione del Curtis più drammatico, senza tuttavia che il ritmo cambi, anzi incalzandolo sempre più, fino all’interruzione improvvisa.
L’ascoltatore, a questo punto, rimane attonito ed incredulo. 35 minuti e mezzo di album sono forse troppo pochi, ma sono certamente i 35 minuti e mezzo più benvenuti dai tempi di Closer (o, al limite, del secondo disco di Still, quello live). I Joy Division allora non sono mai morti e forse (ripeto forse, la provocazione, non di chi scrive, serve solo a far riflettere) anche l’ispirazione di Ian Curtis potrebbe essere ridimensionata da un disco simile. Un grande disco, di grande dark.

Ma allora, perché cadere in tentazione? E quale tentazione poi? Ian Curtis ci sarebbe caduto e con lui i Joy Division? No, probabilmente i Joy Division no. I New Order invece sì. Nell’aprile del 1982, solo 5 mesi dopo Movement, i quattro usciranno con uno dei loro singoli più ruffiani: Temptation. Coretti melodici e ottimisti aprono un brano solare e ben ritmato, certamente piacevolissimo per le stazioni FM. Sumner apre con una voce insolitamente sicura, forse conservando una vaga vena lunare, almeno fino all’irritante ritornello, veramente qualsiasi, come qualsiasi è la sezione ritmica, mai così “disco”. O il testo sentimental/caramelloso… una vergogna. Fortunatamente il retro, Hurt, salva la credibilità del gruppo: un inizio forse elettronico e sintetico, sì, ma anche obliquo e sinistro. Poi anche qui la discoteca cerca di fare capolino, ma uno strano missaggio “underground” e comunque una generale sensazione di oppressione evitano le banalità, nonostante l’abbondanza di «give me, give me, give me». Da un certo punto di vista il brano è più importante di quel che appare al primo ascolto, poiché sembra quasi anticipare certa house di 5 anni dopo.
Comunque… che tentazione meschina! La domanda che sorge spontanea è: ma ne avevano veramente bisogno?