4.4 Minimal Compact – Minimal Compact Ep


Si vuole qui parlare di uno dei gruppi più sottovalutati (di loro si hanno pochissime notizie biografiche e anche le foto scarseggiano) eppure in assoluto più validi ed originali della storia del rock. I Minimal Compact, israeliani, autori di una musica cupa e straziante, ma dalle venature mediorientali. Eppure si trattava di un derivato del punk, e che cosa voleva dire fare rock in medio oriente? Cosa può aver significato esportare l’esperienza punk nel deserto più conteso dalle tre religioni del mediterraneo?
Certo, Rami Fortis (foto a destra) , chitarrista e cantante di origini italo-irakene, deve aver pensato che l’esperienza del kibbutz, in quanto principalmente (se non eminentemente) di sinistra, poteva/doveva accogliere il punk a braccia aperte, come musica di rottura, come musica anticapitalista per eccellenza. Ma il punk da solo non poteva bastare: Israele non era l’Inghilterra (e men che meno Tel-Aviv era Londra), non c’era nessuna vetusta monarchia da distruggere, ma un paese dai fragili equilibri interni ed internazionali dove tutto doveva essere costruito, persino l’identità nazionale. E l’iconoclastia del punk non poteva certo essere ben vista.
Ci voleva qualcosa di più, ci voleva la forza della poesia. Per questo Fortis decise di collaborare col DJ e poeta Samy Birnbach, che poté stabilirsi solo con il ruolo di voce principale. In seguito si aggiunse la bassista (ma cantante anch’ella) Malka Spigel, “Yoyo” per gli amici, tanto inetta allo strumento da ammetterlo pubblicamente. I tre si trovavano in una stanza a provare, tutti e tre attaccati ad un unico amplificatore e, al limite, con l’ausilio di una batteria elettronica. Una formazione minima, quindi, anzi minimal-compatta.
E Rami Fortis in Israele era un mito, certo, ma per chi? Per scarsissime frange di illuminati, per giovani che inseguivano i suoni (e fors’anche i sogni) europei, per i pochi che rifiutavano radicalmente l’autoghettizzazione in cui il loro paese stava lentamente ma inesorabilmente scivolando (autoghettizzazione così spesso tipica del popolo ebraico stesso). Per questo si unì a lui, con l’entusiasmo del fan esaltato, il tastierista/chitarrista Berry Sakharof, ebreo turco d’origine russa. Finalmente un vero musicista, accettato dal gruppo a braccia aperte.
Ma gli anni 70 si erano appena conclusi, con tutto il carico di dolore e incomprensione che si portavano dietro: guerra di Kippur, crisi petrolifera, intifada, guerra civile in Libano. In Israele stava succedendo esattamente l’opposto di quello per cui Rami Fortis e compagni si battevano ogni giorno, ovvero la nascita di un paese aperto, progressista, quando non proprio socialista. Giocoforza stavano invece vincendo le destre, il militarismo violento, l’oscurantismo. Quando la situazione arrivò a farsi insopportabile, Birnbach, Sakharof e la Spigel partirono per l’Europa, invertendo il flusso migratorio che aveva caratterizzato il popolo ebraico dal lontano 1949, mentre Fortis decise di rimanere nel paese a “combattere” con la sua poetica, con la sua musica. Negli anni che seguirono conobbe un destino di ostilità sempre crescente da parte delle autorità ed anche della gente comune (secondo la quale era un traditore o, almeno, un inutile provocatore), quando non fu bellamente e semplicemente ignorato.
Birnbach, Sakharof e la Spigel girarono per l’Europa errabondi, suonando agli angoli delle strade, dormendo in alloggi di fortuna, tra gli squatter, nei centri sociali. Nel 1981, per una serie di casi, risiedevano più o meno stabilmente ad Amsterdam. Fu lì che Il loro strano post-punk poetico, venato di melodie arabeggianti ed incupito dall’attitudine pessimista di Samy Birnbach, fece presto breccia nel cuore di molte persone, che si riveleranno fondamentali per la loro prossima evoluzione artistica: innanzitutto il gruppo elettro-new wave olandese dei Mecano, quindi Marc Hollander, fondatore a Bruxelles di una neonata etichetta discografica indipendente, la Crammed Discs. Con l’aiuto e l’incoraggiamento dei Mecano, che prestarono loro strumenti e sala prove, i tre poterono mettere a punto le loro prime composizioni. Che dovettero esercitare una notevole impressione su Hollander, se arrivarono a convincerlo di pubblicare subito un Ep al gruppo dalla formazione minimal-compatta, l’omonimo Minimal Compact.
Il cantato è in inglese, perché quella era la musica del momento, ma la dedica era a lui, il loro eroe, mèntore e fondatore del gruppo: il mitico Rami Fortis “member in exile, present in his absence” (è necessario tradurre?). Per il resto, oltre a loro, i musicisti erano lo stesso Hollander al sax e clarinetto, più gli amici Mecano: Corrie Bolten a synth, chitarra e flauto, Pieter Bannenberg a batteria e percussioni, il batterista Stefan Claro ed il polistrumentista Dick Polak che si occupava anche della produzione.
Petto femminile in copertina, il disco cominciava subito con un loro (poi) famosissimo ballabile: la paradossale Statik Dancin’. Un ritmo veloce ed incalzante, tra il be-bop e la tarantella, un basso new wave come pochi, percussioni, fiati. Poi una chitarra in sincope funky che apre la strada alla voce bassa e sconsolata di Birnbach: elemento determinante per non comparare il brano a qualcosa dei Devo. Tuttavia, per quanto simpatica e paradossale (oltre che loro piccolo hit), Statik Dancin’ risulta un po’ rigidina e ripetitiva. Più atmosferico l’ingresso della successiva I Am a Camera, che si avvaleva dei versi del poeta beat americano Bob Kaufman (anch’egli in odore di ebraismo), benché il titolo fosse quello di una celebre pièce teatrale di Van Druten. Il brano è strano e maestoso, ben sottolineato da una scala di basso e da liriche molto intense: «His death is a saving grace, creation is perfect, I am a camera» (la sua morte è grazia salvifica, la creazione è perfetta, io sono una macchina fotografica). Tastiere importanti, chitarre destabilizzanti, oboi bizzarri, qualcosa di mai sentito prima.
Nadir di depressione è Ready-made Diary, probabilmente autobiografica («life is so much more secure in Europe…», la vita è molto più sicura in Europa). La musica è sconsolata e raggelante, inizialmente sostenuta da una fredda atmosfera di synth, in seguito la ritmica cresce scatenandosi in un assurdo funky del medio oriente. Poi il gelo depresso, una voce catatonica che declama sconsolata. Ma la ritmica funky si scatenerà una volta ancora, prima della fine catacombale. Insomma un capolavoro. E tale, capolavoro depresso, sarà pure la successiva To Get Inside, decisamente molto suggestiva. Un arpeggio reiterato di chitarra compie tutto un giro di accordi, successivamente doppiato dal basso della Spigel. Poi entra la voce, una melodia straziante sullo stesso giro, un testo degno di Ian Curtis, sull’ineluttabilità della sconfitta e sullo squallore dell’esistenza quotidiana. Ed il giro evolve, estasi e suicidio.
Chiude in una sorta di flippata allegria la quasi strumentale Happy Babouge (c’è giusto un verso che si ripete), anch’essa funky, anch’essa spiazzante, anch’essa mediterranea. Un flauto psichico destabilizzerà definitivamente il cervello dell’ascoltatore, deliziato da un altro brano inclassificabile che termina un piccolo Ep capolavoro.

Purtroppo intorno al disco era appena nato il dark e ciò rappresentò la sua fortuna a lungo termine, ma anche la sua maledizione a breve. Maledizione perché, nonostante la sua superba bellezza, passò del tutto inosservato, essendo gli occhi (e le orecchie) di tutti orientati su quello che stava succedendo in Gran Bretagna.
Ma alla lunga la qualità venne a galla. Per fortuna. Fu ciò che ci permette ora di parlare di un gruppo come i Minimal Compact.