4.3 Joy Division – Still


Si analizzerà qui uno dei misteri dell’animo umano, uno dei grandi quesiti col quale tutte le epoche e tutte le culture si sono confrontate: come si celebra degnamente un mito?
Non è un quesito da poco: Ian Curtis è stato indubitabilmente un mito per la sua generazione e, come solo i veri miti possono essere, anche per buona parte di quelle future. Comunque, all’epoca, l’ultimo grande mito contemporaneo, l’ultimo eroe maledetto del rock, dopo la figura decisamente sbiadita di Elvis Presley e quella sempre attuale ma ormai un po’ attempata di Jim Morrison (il maggiore dei “tre J” morti, gli altri due essendo Hendrix e la Joplin). Chi meglio di lui aveva saputo rappresentare il giovane inglese con i suoi sogni, le sue angosce, il suo male di vivere? Il suo disagio esistenziale, insomma, perché nessun genere saprà essere esistenzialista come la dark-wave britannica.
Ma in realtà il mito era un altro e di questo i tre superstiti erano pienamente coscienti. Il vero mito erano i Joy Division, band tanto sperimentale quanto rivoluzionaria, capace di impressionare un’epoca e creare (quasi) dal nulla un nuovo genere musicale. Realtà quindi irripetibile. Il chitarrista Bernard Albrecht, il bassista Peter Hook ed il batterista Stephen Morris ne erano così consapevoli che decisero di continuare a far musica, ma assolutamente di non utilizzare più il vecchio moniker. Certo, il singolo Ceremony / In a Lonely Place (uscito in gennaio, ormai 10 mesi prima) era un ovvio omaggio a Ian Curtis, la sua voce così difficoltosamente imitata da Albrecht (o Sumner, che dir si voglia). Ma loro erano, veramente e sinceramente, qualcosa di nuovo, un vero ordine nuovo, i New Order. In ciò anche ironizzando su certi fantasmi neo-nazisti di cui furono sempre accusati.
Ma nell’ottobre del 1981 non era ancora ora di risurrezioni, si era ancora nel tempo delle celebrazioni ed un mito assoluto andava assolutamente celebrato. E la celebrazione fu Still, un doppio album uscito il giorno 8 quasi alla chetichella, con discrezione, come sempre discreto e schivo era stato Ian Curtis, come discreti e schivi (ai limiti della riluttanza) erano sempre stati i Joy Division. Tra gli elementi veramente azzeccati ci fu il titolo: Still, ancora, perché la musica dei Joy Division stava ancora potentemente influenzando l’avanguardia musicale contemporanea, perché lo spirito di Ian Curtis era ancora presente ed amato da tutti. Sebbene “still” in inglese significhi anche “ferm
o”, “quieto”, ma sul significato simbolico di questo termine, soprattutto dopo una scomparsa così tragica, non si vorrà indugiare oltre. La copertina, un’altra idea di Saville su imitazione di un album cecoslovacco, non poteva essere più esplicita: un vero e proprio epitaffio con logo della Factory. Tuttavia, nella primissima tiratura di 5000 copie, l’elegante copertina in tessuto tenuta insieme da un fiocco bianco ricordava quasi un libro, comunque una pubblicazione maledettamente importante. Un doppio Lp si è detto, e purtroppo non esente da polemiche. Soprattutto il primo dei due, che raccoglieva rarità, out-take o comunque scarti di studio, non tutti ugualmente interessanti. Addirittura Dave McCullogh arrivò a scrivere su Sounds: «lascia una pessima traccia sulla fine del mito Joy Division, con una strana nota di conformismo e ortodossia». Fortunatamente nella generalità non venne condiviso un giudizio così severo, pur riconoscendo una caratura artistica (oltre che una continuità d’ispirazione) decisamente inferiore a quella degli album precedenti .
La prima sessione di registrazione ad essere rappresentata fu quella presso i Cargo Studios di Rochdale, dell’ottobre 1978, ovvero (relativamente) poco dopo la pubblicazione di An Ideal for Living. Si tratta di Glass, la compagna di Digital, entrambe apparse sulla compilation A Factory Sample. Erano le canzoni del “passaggio” vocale di Curtis dai toni alti del punk alla tonalità bassa che lo rese famoso. Poi ecco quelle presso gli Strawberry Studios di Stockport dell’aprile 1979, da cui furono tratte la prima canzone dell’album, Exercise One, ed altre posizionate più avanti. In effetti Exercise One era veramente molto bella, un ottimo inizio in genere, con quel suo lungo intro distorto, un ritmo serrato all’affanno e, successivamente, il riff orientaleggiante di chitarra. La voce di Ian Curtis era molto matura e severa, assolutamente confrontabile con quella delle sue opere successive e maggiori, al contrario di altri pezzi dalla stessa sessione. Tuttavia The Only Mistake era pur dotata di una certa drammaticità d’insieme e di un buon crescendo, ma forse una registrazione non perfetta non le rendeva giustizia. Era comunque l’altro “maggiore” della sessione (insieme alla prima), soprattutto se confrontata con gli altri due brani: Walked in Line era molto figlio dell’era-Warsaw, un buono e potente pezzo di post-punk, rozzo ed elementare come avrebbe dovuto essere, seppur con un coinvolgente crescendo, mentre The Kill, strutturalmente e “culturalmente” simile, non aveva neanche quello, ma certo non era male il confronto melodia depressa/ritmo frenetico.
Bellissimo invece l’ottavo brano dell’album, Something Must Break, tratto dalla sessione presso i Central Sound Studios di Manchester del luglio 1979. Al ritmo comunque serrato faceva contrappunto un accompagnamento in tono minore (quindi malinconico “per eccellenza”) della chitarra, con una drammaticissima parte vocale e un testo disperato: «I see your face still in my window, tormented clouds won’t set me free, something must brake, this life isn’t mine, something must brake, wait for the time» (vedo ancora il tuo volto alla mia finestra, non sarò liberato da nuvole tormentose, qualcosa deve rompersi, questa vita non è mia, qualcosa deve rompersi, aspetto il momento). Una sorta di testamento spirituale ante litteram, di una lucidità da far venire i brividi.
Da un’altra sessione presso i Cargo Studios dell’ottobre-novembre 79, saranno tratte la già sentita Dead Souls (il bellissimo retro di Atmosphere) e Ice Age, secondo brano del disco. Insomma, due potenti post-punk, ed anche quest’ultima conobbe il suo momento di gloria. Più interessante il “frutto” della sessione dopo, tenutasi ai Pennine Sound Studios, Oldham, nel marzo 1980. The Sound of Music, infatti, rallentava un po’ i ritmi frenetici dei Division più post-punk, inserendo però l’ululato già sentito in Interzone, mentre Albrecht/Sumner “zappava” sulla chitarra quanto mai, creando un riff dalla fortissima potenzialità ritmica. In un inno che riusciva a coniugare l’impossibile: il malinconico, il rabbioso e il liberatorio.
Insomma, la polemica si poteva riassumere così: perché fare uscire un doppio album quando i pezzi realmente validi erano solo tre (Exercise One, The Sound of Music e Something Must Break, più la già sentita Dead Souls)? La prima risposta potrebbe essere perché nella celebrazione di un mito è importante evidenziarne anche certi aspetti nascosti, apparentemente meno riusciti, ma che testimonino comunque di una sensibilità fuori dall’ordinario. Un’altra risposta fu inserita in fondo all’album: una devastante versione (la loro versione) live di Sister Ray dei Velvet Underground, registrata il 2/4/80 al Moonlight Club di Londra. Sette minuti e mezzo di suoni grezzi e distorti, di un omaggio necessario e doveroso, di una “buona notte” affettuosa al pubblico (sotto quella maschera fredda e dolente tutti sapevano/sapevamo che si nascondeva un tenerone). Come dire: noi siamo figli di questa cultura, del dolore sociale, dell’emarginazione, che ciò sia inequivocabilmente chiaro a tutti (nevvero, cara Elise dell’Erba della Strega? ;-)
Ma una terza risposta si celava, ovviamente, nel secondo disco. Un’opera indispensabile, necessaria soprattutto per frenare la valanga di bootleg dal vivo che stavano invadendo il mercato. Si trattava quindi di un live, la registrazione del 2 maggio dell’80 all’High Hall dell’Università di Birmingham, l’ultimo concerto dei Joy Division. Ora, un critico musicale classico non può che deplorare la bassa qualità, ancor più che delle registrazioni, della performance dei quattro; la loro imperizia tecnica, la loro approssimazione esecutiva. Non capendo nulla dell’importanza e della bellezza del documento che ha di fronte.
Dieci capolavori dieci, anzi undici (Twenty-four Hours è appena accennata), uno in fila all’altro: il singolo dei “New Order” Ceremony, per errore cominciata senza voce, e poi Shadowplay, Means to an End, Passover, New Dawn Fades, Twenty-four Hours, neanche indicata nei titoli ed esclusa dalla successiva edizione su Cd, Transmission, Disorder, Isolation, la straziante Decades ed infine Digital. Una vera opera di post-punk, quindi certamente suonata con imperizia e approssimazione, ma quanta passione dietro quei suoni, quanta vibrazione (e quanto intensa) dietro quella voce malata nell’animo. Dopotutto cos’aveva insegnato il punk al mondo? Passione e sudore, lacrime e sangue, insieme in un’esperienza tra il catartico e lo straziante, erano infinitamente superiori alla raffinata ma fredda e vuota tecnica dei “dinosauri del rock”.

Un disco live, cioè “dal vivo”, perché ancora vivo era, nel cuore di tutti, il verbo di Ian Curtis, l’anima dei Joy Division. Il simbolo di un’epoca rabbiosa, ma sconfitta e depressa. La devozione di una generazione che ora, consapevolmente, stava sempre più riconoscendo ed adottando quei suoni come propri distintivi, sebbene universalmente appartenenti ad un’umanità dolente.
Di questo ha testimoniato Still. E miglior celebrazione non avrebbe potuto esserci.