Si analizzerà qui uno dei misteri dellanimo umano, uno dei grandi
quesiti col quale tutte le epoche e tutte le culture si sono confrontate:
come si celebra degnamente un mito?
Non è un quesito da poco:
Ian Curtis è stato indubitabilmente un mito per la sua generazione
e, come solo i veri miti possono essere, anche per buona parte di
quelle future. Comunque, allepoca, lultimo grande mito
contemporaneo, lultimo eroe maledetto del rock, dopo la figura
decisamente sbiadita di Elvis Presley e quella sempre attuale ma ormai
un po attempata di Jim Morrison (il maggiore dei tre J
morti, gli altri due essendo Hendrix e la Joplin). Chi meglio di lui
aveva saputo rappresentare il giovane inglese con i suoi sogni, le
sue angosce, il suo male di vivere? Il suo disagio esistenziale, insomma,
perché nessun genere saprà essere esistenzialista come la dark-wave
britannica.
Ma in realtà il mito era un altro e di questo i tre superstiti erano
pienamente coscienti. Il vero mito erano i Joy Division, band tanto
sperimentale quanto rivoluzionaria, capace di impressionare unepoca
e creare (quasi) dal nulla un nuovo genere musicale. Realtà quindi
irripetibile. Il chitarrista Bernard Albrecht, il bassista
Peter Hook ed il batterista Stephen Morris ne erano così consapevoli
che decisero di continuare a far musica, ma assolutamente di non utilizzare
più il vecchio moniker. Certo, il singolo Ceremony / In
a Lonely Place (uscito in gennaio, ormai 10 mesi prima) era un
ovvio omaggio a Ian Curtis, la sua voce così difficoltosamente imitata
da Albrecht (o Sumner, che dir si voglia). Ma loro erano, veramente
e sinceramente, qualcosa di nuovo, un vero ordine nuovo, i New Order.
In ciò anche ironizzando su certi fantasmi neo-nazisti di cui furono
sempre accusati.
Ma nellottobre del 1981 non era ancora ora di risurrezioni,
si era ancora nel tempo delle celebrazioni ed un mito assoluto andava
assolutamente celebrato. E la celebrazione fu Still, un doppio
album uscito il giorno 8 quasi alla chetichella, con discrezione,
come sempre discreto e schivo era stato Ian Curtis, come discreti
e schivi (ai limiti della riluttanza) erano sempre stati i Joy Division.
Tra gli elementi veramente azzeccati
ci fu il titolo: Still, ancora, perché la musica dei
Joy Division stava ancora potentemente influenzando lavanguardia
musicale contemporanea, perché lo spirito di Ian Curtis era ancora
presente ed amato da tutti. Sebbene still in inglese significhi
anche fermo, quieto, ma sul
significato simbolico di questo termine, soprattutto dopo una scomparsa
così tragica, non si vorrà indugiare oltre. La copertina, unaltra
idea di Saville su imitazione di un album cecoslovacco, non poteva
essere più esplicita: un vero e proprio epitaffio con logo della Factory.
Tuttavia, nella primissima tiratura di 5000 copie, lelegante
copertina in tessuto tenuta
insieme da un fiocco bianco ricordava quasi un libro, comunque una
pubblicazione maledettamente importante. Un doppio Lp si è detto,
e purtroppo non esente da polemiche. Soprattutto il primo dei due,
che raccoglieva rarità, out-take o comunque scarti di studio, non
tutti ugualmente interessanti. Addirittura Dave McCullogh arrivò a
scrivere su Sounds: «lascia una pessima traccia sulla fine del mito
Joy Division, con una strana nota di conformismo e ortodossia». Fortunatamente
nella generalità non venne condiviso un giudizio così severo, pur
riconoscendo una caratura artistica (oltre che una continuità dispirazione)
decisamente inferiore a quella degli album precedenti .
La prima sessione di registrazione
ad essere rappresentata fu quella presso i Cargo Studios di Rochdale,
dellottobre 1978, ovvero (relativamente) poco dopo la pubblicazione
di An Ideal for Living. Si tratta di Glass, la compagna
di Digital, entrambe apparse sulla compilation A Factory
Sample. Erano le canzoni del passaggio vocale di Curtis
dai toni alti del punk alla tonalità bassa che lo rese famoso. Poi
ecco quelle presso gli Strawberry Studios di Stockport dellaprile
1979, da cui furono tratte la prima canzone dellalbum, Exercise
One, ed altre posizionate più avanti. In effetti Exercise One
era veramente molto bella, un ottimo inizio in genere, con quel suo
lungo intro distorto, un ritmo serrato allaffanno e, successivamente,
il riff orientaleggiante di chitarra. La voce di Ian Curtis era molto
matura e severa, assolutamente confrontabile con quella delle sue
opere successive e maggiori, al contrario di altri pezzi dalla stessa
sessione. Tuttavia The Only Mistake era pur dotata di una certa
drammaticità dinsieme e di un buon crescendo, ma forse una registrazione
non perfetta non le rendeva giustizia. Era comunque laltro maggiore
della sessione (insieme alla prima), soprattutto se confrontata con
gli altri due brani: Walked in Line era molto figlio dellera-Warsaw,
un buono e potente pezzo di post-punk, rozzo ed elementare come avrebbe
dovuto essere, seppur con un coinvolgente crescendo, mentre The
Kill, strutturalmente e culturalmente simile, non
aveva neanche quello, ma certo non era male il confronto melodia depressa/ritmo
frenetico.
Bellissimo invece lottavo brano dellalbum, Something
Must Break, tratto dalla sessione presso i Central Sound Studios
di Manchester del luglio 1979. Al ritmo comunque serrato faceva contrappunto
un accompagnamento in tono minore (quindi malinconico per eccellenza)
della chitarra, con una drammaticissima parte vocale e un testo disperato:
«I see your face still in my window, tormented clouds wont set
me free, something must brake, this life isnt mine, something
must brake, wait for the time» (vedo ancora il tuo volto alla
mia finestra, non sarò liberato da nuvole tormentose, qualcosa deve
rompersi, questa vita non è mia, qualcosa deve rompersi, aspetto il
momento). Una sorta di testamento spirituale ante litteram, di una
lucidità da far venire i brividi.
Da unaltra sessione presso i Cargo Studios dellottobre-novembre
79, saranno tratte la già sentita Dead Souls (il bellissimo
retro di Atmosphere) e Ice Age, secondo brano del disco.
Insomma, due potenti post-punk, ed anche questultima conobbe
il suo momento di gloria. Più interessante il frutto della
sessione dopo, tenutasi ai Pennine Sound Studios, Oldham, nel marzo
1980. The Sound of Music, infatti, rallentava un po i
ritmi frenetici dei Division più post-punk, inserendo però lululato
già sentito in Interzone, mentre Albrecht/Sumner zappava
sulla chitarra quanto mai, creando un riff dalla fortissima potenzialità
ritmica. In un inno che riusciva a coniugare limpossibile: il
malinconico, il rabbioso e il liberatorio.
Insomma, la polemica si poteva riassumere così: perché fare uscire
un doppio album quando i pezzi realmente validi erano solo tre (Exercise
One, The Sound of Music e Something Must Break,
più la già sentita Dead Souls)? La prima risposta potrebbe
essere perché nella celebrazione di un mito è importante evidenziarne
anche certi aspetti nascosti, apparentemente meno riusciti, ma che
testimonino comunque di una sensibilità fuori dallordinario.
Unaltra risposta fu inserita in fondo allalbum: una devastante
versione (la loro versione) live di Sister Ray dei Velvet Underground,
registrata il 2/4/80 al Moonlight Club di Londra. Sette minuti e mezzo
di suoni grezzi e distorti, di un omaggio necessario e doveroso, di
una buona notte affettuosa al pubblico (sotto quella maschera
fredda e dolente tutti sapevano/sapevamo che si nascondeva un tenerone).
Come dire: noi siamo figli di questa cultura, del dolore sociale,
dellemarginazione, che ciò sia inequivocabilmente chiaro a tutti
(nevvero, cara Elise dellErba della Strega? ;-)
Ma una terza risposta si celava, ovviamente, nel secondo disco. Unopera
indispensabile, necessaria soprattutto per frenare la valanga di bootleg
dal vivo che stavano invadendo il mercato. Si trattava quindi di un
live, la registrazione del 2 maggio dell80 allHigh
Hall dellUniversità di Birmingham, lultimo concerto dei
Joy Division. Ora, un critico musicale classico non può che deplorare
la bassa qualità, ancor più che delle registrazioni, della performance
dei quattro; la loro imperizia tecnica, la loro approssimazione esecutiva.
Non capendo nulla dellimportanza e della bellezza del documento
che ha di fronte.
Dieci
capolavori dieci, anzi undici (Twenty-four Hours è appena accennata),
uno in fila allaltro: il singolo dei New Order Ceremony,
per errore cominciata senza voce, e poi Shadowplay, Means
to an End, Passover, New Dawn Fades, Twenty-four
Hours, neanche indicata nei titoli ed esclusa dalla successiva
edizione su Cd, Transmission, Disorder, Isolation,
la straziante Decades ed infine Digital. Una vera opera
di post-punk, quindi certamente suonata con imperizia e approssimazione,
ma quanta passione dietro quei suoni, quanta vibrazione (e quanto
intensa) dietro quella voce malata nellanimo. Dopotutto cosaveva
insegnato il punk al mondo? Passione e sudore, lacrime e sangue, insieme
in unesperienza tra il catartico e lo straziante, erano infinitamente
superiori alla raffinata ma fredda e vuota tecnica dei dinosauri
del rock.
Un disco live, cioè
dal vivo, perché ancora vivo era, nel cuore di
tutti, il verbo di Ian Curtis, lanima dei Joy Division. Il simbolo
di unepoca rabbiosa, ma sconfitta e depressa. La devozione di
una generazione che ora, consapevolmente, stava sempre più riconoscendo
ed adottando quei suoni come propri distintivi, sebbene universalmente
appartenenti ad unumanità dolente.
Di questo ha testimoniato Still. E miglior celebrazione non
avrebbe potuto esserci.