Oh povero biografo, o povero storico della musica,
quante volte ti capiterà di essere posto davanti agli abissi insondabili
dell’animo umano? Il che significa: quante volte dovrai sforzarti
di comprendere il desiderio di autodistruzione così insito negli eroinomani,
a loro volta così numerosi nella storia del rock? Ebbene sì, cari
lettori, non immaginate quanto questa stagione fu caratterizzata dall’esplosione
della tossicofilia nell’ambito del dark, con tutte le conseguenza
devastanti che poteva portare. Sebbene, dopo capolavori quali Pornography
dei Cure o Revelations dei Killing Joke, si sia tentati di
considerarla una cosa positiva, almeno per gli esiti artistici (se
non per quelli biografici).
Fatto sta che i poveri Birthday Party più il tempo passava, più erano
in balia dell’eroina, facendo sempre più fatica a mantenere la lucidità
nel mondo degli affari che anche quello discografico è. E
non tutti allo stesso modo: ad esempio Phillip Calvert sembrava sostanzialmente
estraneo al fenomeno, e più o meno con lui c’era Mick Harvey (che
comunque restava una sfinge, con quel suo sguardo lucido e sprezzante).
I tre grandi eroinomani, i veri e propri “junkies” dei Birthday Party
erano Nick Cave, Rowland S. Howard e Tracey Pew, con quest’ultimo
in effetti un po’ su una brutta china.
Il tutto con tanto di gesti inconsulti e contraddittori che seguivano,
come la pubblicazione del singolo Release the Bats / Blast
Off pensato appositamente per dileggiare il loro pubblico dark
e che invece finì per sortire l’effetto opposto. Fu così che dall’uscita
del 45 giri, avvenuta lo ricordiamo nell’estate dell’81, ogni volta
che ad un loro concerto i fan dark acclamavano il brano, Nick Cave
rispondeva: «the next is the song you love the most, but we hate the
most» (la prossima è la canzone che voi amate di più, ma che noi più
odiamo).
Dopo una tournée insieme ai compagni di etichetta Bauhaus, che non
fece altro che rinforzare nei fan la convinzione della loro appartenenza
alla scena gotica, i Birthday Party, col cervello in uno stato sempre
più confusionale, partirono nel mese di settembre in tour negli Stati
Uniti. Le cose purtroppo non poterono andare peggio, con le agenzie
e i gestori dei locali che, spaventati da tanta furia iconoclasta
fuori controllo, si affrettarono ad annullare le date programmate.
Brutti concerti quindi, brutte storie di incomprensione, ma almeno
una buona notizia: la conoscenza della loro fan sfegatata miss Lydia
Lunch che, dai tempi della no-wave, si era messa in proprio a declamare
le sue funeree litanie.
Tornati con lei a Londra, il gruppo
si distinse per le serate più estreme ed irose della sua carriera.
Ecco che tornava l’eroina, l’alcool, l’impulso all’autodistruzione.
Insieme a Lydia Lunch come spalla, Germania, Olanda, Svizzera e Italia
furono le sbigottite testimoni di questa loro furia incontrollata,
di questa violenza e questo odio che dovevano urlare al mondo. Il
loro ultimo concerto europeo per un bel pezzo avvenne l’11 dicembre
al Poly Club di Londra. La musica era un rombo indistinguibile, Mick
Harvey era tanto ubriaco da non capire più niente, Tracey Pew era
così fatto da cadere dritto sulla faccia. Persino il management della
4AD se ne andò disgustato. Era chiaro che bisognasse prendere una
decisione.
Fu così che i cinque partirono per l’Australia, tornando a Melbourne,
la loro casa. E si portarono dietro tutto il carico di dolore e incomprensione
che quest’ultimo anno aveva rappresentato per loro. In balìa di quest’odio
così imprescindibile, così viscerale, erano state composte molte nuove
canzoni ed ora potevano discutere con il loro manager storico, Keith
Glass della Missing Link, per poterle mettere finalmente su disco.
Gli AAV (Armstrong’s Audio Visual) Studios di Melbourne aprirono loro
le porte nel mese di gennaio del 1982, accompagnati dal fido “mago
della consolle” Tony Cohen. Seguirono
giorni di confusione ed esasperazione, con Tracy Pew in uno stato
mentale sempre più pietoso, le incomprensioni con Phil Calvert sempre
più difficili da gestire e le nuove suggestioni di Nick Cave dal Vecchio
Testamento che lo rendevano apparentemente sempre più estraniato dalla
realtà che viveva.
In effetti, nella sua mente di tossico pazzo, Nick Cave rimaneva sempre
più colpito da certe immagini veterotestamentarie grondanti sangue
e violenza: perfette metafore, ormai incise nel sistema archetipico
della sua gente, per rappresentare i sentimenti di nevrastenica insofferenza
in cui ormai annegavano i cinque. Infatti, verso la fine delle registrazioni,
il diavolo ci mise lo zampino: il 17 gennaio 82, il gruppo (senza
Phill, a nome The Cavemen) stava suonando a Richmond per celebrare
il decimo anniversario della Missing Link. Dopo il concerto, un Tracy
Pew completamente sballato di droga e alcool si mise alla guida della
sua auto con un paio di amici, ma venne presto fermato dalla polizia.
Credendo
di essere furbo, fornì un nome falso, ovvero quello di un celebre
criminale (nel dettaglio P.J. Sutcliffe, detto “lo squartatore dello
Yorkshire”), il che non fece che aggravare una posizione legale già
abbastanza compromessa da una serie di precedenti più o meno assurdi.
Morale: fu processato per direttissima e condannato ad otto mesi,
con carcerazione immediata.
Per i Birthday Party fu la classica tegola sulla testa, che però non
portò solo del male. Perché se è vero che furono banditi per sempre
dagli AAV Studios, è anche vero che trovarono molta solidarietà fra
la loro gente, ed addirittura l’amico che insegnò a suonare il basso
a Tracy, certo Chris Walsh, si offerse per accompagnare la band nelle
rimanenti date in programma. Questo rinsaldò i rapporti all’interno
del gruppo e fra quest’ultimo e la loro terra d’origine.
Tornati poco dopo a Londra, però, ci furono nuovi impegni da affrontare.
E non solo per terminare le registrazioni del disco, che prevedevano
ovviamente la ricerca di un nuovo bassista, ma anche per curare l’edizione
di un nuovo prodotto discografico che, nel frattempo, una 4AD innervosita
da ritardi e imprevisti aveva deciso di mettere sul mercato. Si trattava
di un live, ovviamente, tipico prodotto “tappabuchi” per salvare
dal punto di vista commerciale un gruppo in crisi creativa.
Fu
così che il 18 febbraio apparve nei negozi Drunk on the Pope’s
Blood, blasfemo titolo per un mini Lp dal vivo che i Birthday
Party dividevano con Lidya Lunch, allucinante testimone degli spaventosi
concerti tenuti nell’autunno dell’81. La parte A, quella destinata
ai nostri, raccoglie quattro tracce registrate al The Venue di Londra
il 26 novembre, e si apre con un’insieme inarticolato di urla selvagge
che introducono l’unico inedito, (Sometimes) Pleasure Heads Must
Burn (qui sinteticamente intitolata Pleasure Heads), una
loro classica cavalcata rabbiosa, degradata e delirante, con effetti
comici e pose parossistiche. Segue la bellissima King Ink,
con il suo valore aggiunto di deragliamenti macabri.
La foga rabbiosa, se mai si è attenuata, torna a esplodere nella successiva
Zoo Music Girl, un brano che in effetti dal vivo, dove può
esprimere liberamente tutto il suo potenziale distruttivo, rende molto
meglio che in studio. Chiude il delirio una cover allucinantemente
licantropizzata: la celebre Loose degli Stooges, una (meravigliosa)
patafisica della distorsione per cervelli in pappa. Un totale di un
quarto d’ora di suoni acidi e distortissimi, di un attacco sonico
al di là del sopportabile, giustamente sottotitolato “16 minutes of
sheer hell” (16 minuti di vero inferno). Nel 1994 questo materiale
sarà raccolto da Keith Glass per la versione su Cd del disco, aggiungendovi
una serie di outtake e rarità che completano un po’ la gamma di registrazioni
dei Birthday Party per quel periodo.
Dopo quest’orgia di stridori allucinati e assordanti, ritmi forsennati
e grida animalesche, l’altro lato mostra la parte “gentile” di Drunk
on the Pope’s Blood. Sì,
gentile si fa per dire… la parte dedicata a Lydia Lunch porta il rassicurante
titolo di The Agony Is the Ecstacy e, similmente all’a-side,
comprende suoni inarticolati e distorti, sebbene senza l’affanno ritmico
di quella. Anzi, la distorsione qui si fa sonica e catacombale, fino
all’ingresso dell’urlo lancinante, dall’oltretomba della nostra, moderna
Nico dell’esasperazione, imitatrice della Galas sebbene non tanto
dotata. Le sue litanie catatoniche ed ipnotiche, decisamente inquietanti,
il suo sproloquio dell’angoscia e dell’allucinazione accompagnano
un incredulo ascoltatore per un altro allegro quarto d’ora.
Lasciatasi alle spalle quest’esperienza, il gruppo si concentrò sulla
ricerca del nuovo bassista. Prove e selezioni, finché non optarono
per un vecchio amico e storico fan del gruppo: il nero Barry Adamson,
già virtuoso basso dei Magazine. Con
lui fecero una serie di serate dal vivo in giro per l’Inghilterra
e continuarono il lavoro di registrazione dell’album ai Matrix Studios,
senza tuttavia portarlo a termine: nel mese di maggio, infatti, Tracy
Pew venne rilasciato per buona condotta (accettò persino di sottoporsi
ad una cura disintossicante) e poté in seguito raggiungere i compagni
a Londra. La collaborazione con Adamson, tuttavia, fu così felice
che non rimase senza seguito.
Nel mese di luglio uscì probabilmente il disco più lancinante ed estremo
dell’anno, Junkyard (in omaggio al vizio che tanto aveva segnato
la loro storia recente), tanto lancinante ed estremo da non poter,
a rigore, essere considerato un disco di gothic rock. Già
la copertina, di certo Roth Christensen, si poneva quasi agli antipodi
del genere: troppi colori, il guidatore demente (e probabilmente fattissimo)
con troppa lingua fuori, la torta in fiamme, la macchina rosa, il
topo che spara al gatto, un eccesso troppo caricaturale che nulla
aveva in comune con i chiaroscuri della scena dark. Tuttavia apre
le danze uno dei loro brani più gotici di sempre: quella She’s
Hit dal testo terribile e dal basso che si insinua profondo e
sinistro in una sorta di ritmo blues catatonico e rallentato (recuperando
brillantemente la ritmica di un loro minore, Yard, da Prayers
on Fire), mentre due chitarre torturate si sovrappongono. Cave
canta disperato e sguaiato una storia orrorifica ed eccessiva di violenza
su una donna, fino al ritornello in cui ripete «every little bit,
she’s hit» accompagnato da una destabilizzante sincope ritmica. Un
vero capolavoro cupo e sconsolato.
Il disco sembra decisamente il più calmo e tranquillo dei Birthday
Party (ammesso e non concesso che siano in grado di comporre dischi
tranquilli), ma improvvisamente una ritmica potentissima e forsennata
mette le cose in chiaro. Dead Joe è veramente un loro pezzo
tipico, tra l’altro particolarmente ben riuscito: tempo a rotta di
collo, urla sguaiate, vocalità minacciosa, risposta chitarristica
mutuata dal rock’n’roll ma virata alla nevrastenia, esplosione sonica
centrale e finale, per un’elegia delirante a un tossico morto in un
incidente stradale (il testo, tra l’altro, è di Anita Lane, la storica
fidanzata di Cave). Il baraccone da circo torna poi con la successiva
The Dim Locator, brano di Rowland S. Howard, distorta e suggestiva
ma probabilmente non uno dei loro pezzi più memorabili.
Non altrettanto si può dire del capolavoro che segue: Hamlet (Pow,
Pow, Pow) entra con il loro stile fragoroso e possente, il basso
sotto è un carroarmato schiacciasassi, la chitarra di Howard una tortura,
il canto melodico ma spastico di Cave fa il resto, coi continui «pow
pow pow». Parla ovviamente del personaggio di Shakespeare, ma trasfigurato
in una sorta di tossico (i continui riferimenti all’amore sono in
realtà all’eroina), che spara a tutti quelli che incontra. Il finale,
contrassegnato da continui “pow”, è tra le cose più ipnotiche e deliranti
del quintetto. Segue Several Sins, uno swingante minore di
Howard che però chiude in bellezza il lato A di Junkyard.
Tanto
il lato B riparte marcio e tossico, con uno dei loro brani più dissonanti
e maledetti: Big-Jesus-Trash-Can, un vaudeville dell’urlo e
della disperazione, della chitarra e della sincope, non lontano da
un brano come Blast Off. A volte i fraseggi si fanno quasi
jazzati, con interventi di sax nelle dissonanze. Un’invettiva corrotta
ed esasperata (oltre che delirante) contro l’ipocrisia dei “buoni
cristiani”. Finale da pelle d’oca. Ma il tempo accelera, è ancora
più sguaiato e affannoso, è la terribile Kiss me Black, che
conosce la pausa improvvisa del ritornello ed ha un testo brevissimo
e volgarissimo (anche in questo caso, parzialmente opera della Lane):
«now they put the stink on us, stuffed us fulla incubus, choc-o-bloc
with sucubus, never more than fuck to us, c’mon and kiss me black».
Il lavoro febbrile sul basso eseguito da Barry Adamson è veramente
lodevole, e la fine è catatonica come merita.
Nella successiva il tempo rallenta un pelo, la voce sembra mormorare
qualcosa sotto. Poi riprende il cantato sofferto, che narra di un
efferato omicidio: si tratta della tremenda 6” Gold Blade,
canzone sul crimine di passione («I stuck a 6” gold blade in the head
of a girl»: ho infilato una lama d’oro da 6 pollici nella testa di
una ragazza), benché in effetti non si capisca chi sia la vittima
e chi l’assassino. Musicalmente il brano è una sorta di blues nevrotico
e instabile, con strane e bellissime scale che ne spezzano l’andatura.
Finale con “shake!” urlato ad libitum. Segue la bellissima ritmica
di Kewpie Doll, un rock’n’roll con chitarra intermittente e
urla continue di sottofondo. Howard sovrappone chitarre ed effetti
in continuazione sulla semplice struttura a due accordi, rendendo
il brano una sorta di mostro mutante.
Questo disco capolavoro, com’è giusto, viene chiuso da un brano capolavoro:
l’omonimo Junkyard. La ritmica è da blues deragliato nel vuoto
mentale, e Cave torna disperato ed epico come solo lui sa fare, re
solitario della tossicità senza ritorno. Ma di cosa parla, in fondo?
Di un travestito-prostituta tossica sotto la metafora di un’ape? Di
una drag queen vampira? O di una masochista estrema? («honey, honey,
come on and kiss me, drink to me, hack this heavenly body, scratch
and scrape this winning skin»: dolcezza, vieni e baciami, bevi da
me, dai un colpo d’accetta a questo corpo paradisiaco, gratta e strappa
questa pelle vincente). Qui il lirismo si fa disperato ed estremo,
l’andamento del brano sempre più incontrollato e delirante, le ripetizioni
ipnotiche e spastiche, con la ritmica pesantissima di Calvert che
picchia sotto. L’epitome della barbarie, della corruzione, del marciume,
del buttarsi via senza pietà, sotto lo stordente effetto di un’ebbrezza
ipnotica.
Seguendo
la discografia del quintetto, si assiste (impotenti) ad una preoccupante
progressione che dalla prima parte di Door Door ha portato
alla seconda, ha proseguito poi su Hee-Haw, si è evoluta su
Prayers on Fire, per arrivare all’estremo su Junkyard.
Una progressione fatta di dosi crescenti di rumore, di ritmica furibonda,
di furia psicotica, di urlo estremo ed estrema esaltazione del marcio,
del corrotto, del disperato esasperato. Solo un lieve filo lega questa
musica esacerbata alla scena gotica: la rappresentazione di un mondo
comunque negativo, anzi pessimo, dove la lotta, in sé confusionaria
e improvvisata, è tanto costretta quanto inutile, e la sconfitta tanto
ineluttabile quanto degradante.
Ma anche qui si pone la domanda: dove finiranno i Bithday Party di
questo passo? Insomma, ancora una volta che cosa, oltre?