È chiaro che lincontro
Colin NewmanVirgin Prunes nascondesse più di uninsidia,
nella sua intrinseca contraddittorietà. Newman era stato cantante
e chitarrista di uno dei gruppi più importanti di tutta la new wave
inglese, oltre che co-fondatori del dark con limperdibile album
154: gli Wire, freddi e intelligenti sondatori della mente,
elettronici o chitarristici ma sempre molto puliti, ai limiti della
freddezza, appunto. Colin stesso aveva confermato queste
sue caratteristiche nel suo primo album solista, quellA-Z
che più levigato e ripulito non avrebbe potuto essere. Che contrasto
con i devastatori sonici irlandesi, così sporchi, così fisici!
Ma gli Wire avevano almeno un punto di contatto con i Virgin Prunes,
e questo (per nostra fortuna) è stato dimostrato dalla loro ultima
opera allepoca dei fatti, il live Document and Eyewitness:
un demenziale, approssimativo, creativo e rumorosissimo disordine
dal vivo. Forse fu per questo che Newman fu contattato dal management
della Rough Trade: se uno era in grado di suonare in modo così confusionario
e rumoroso dal vivo, e contemporaneamente di incidere dischi così
levigati in studio, allora doveva essere luomo giusto per normalizzare
quella banda di matti dei Virgin Prunes!
Da parte loro, i sei folli erano sfiancati da un inverno di superlavoro
scriteriato e dalla recente tournée che aveva portato allaltro
tour-de-force che fu la registrazione di Hérésie. Avevano assoluto
bisogno di riposo, ma ormai i contratti erano pronti e Newman stava
cominciando a spazientirsi. Va bé, erano giovani e potevano farcela.
Purtroppo sappiamo tutti che le ulteriori tensioni nate dalla registrazione
del disco produrranno danni irreparabili. Ma la giovane età, la loro
energia inesauribile e probabilmente qualche sostanza psicotropa,
oltre allapporto professionale dellex-Wire, spiegano come
mai, nonostante il recente superlavoro, i sei poterono ancora affrontare
i Windmill Studios di Dublino con tanta grinta. Nonostante tutto,
il gruppo ed il chitarrista/produttore si lasciarono male e a nessuno
è dato di sapere esattamente perché...
Comunque
If I Die, I Die, quello che a furor di popolo
viene considerato il capolavoro dei Virgin Prunes, fu esposto negli
scaffali dei negozi di dischi alla fine di luglio 1982, quando sugli
stessi scaffali campeggiava ancora, da poco più di un mese, lo sconcertante
e terribile (in senso buono) Hérésie. E non solo si tratta
del capolavoro del folle sestetto irlandese, ma anche di uno dei dischi
fondamentali del genere dark e probabilmente di tutto il rock inglese.
La
copertina era chiara sin da subito nelle intenzioni: Mary dNellon
(in nero e molto dark) e Strongman (in tenuta sado-maso) sullo sfondo,
mentre in primo piano ci sono Guggi, in unimmagine sdoppiata
a mo di contemporaneo Giano bifronte, e Gavin Friday che compie
un rito arcano, una curva di fuoco. Nelle foto allinterno il
discorso si fa ancora più esplicito: cè anche Dik, irriconoscibile
con barba e capelli lunghi (mentre stranamente sembra assente Dave-id
Busaras) nei boschi insieme agli altri, nudi o vestiti di pelli, con
bambini e compiendo gesti quotidiani, a simboleggiare unancestrale
tribalità europea, uno stato di buon selvaggio oggi irrimediabilmente
perduto.
La suite iniziale, Ulakanakulot / Decline and Fall,
stabiliva immediatamente un nuovo standard della canzone dark, o forse
sarebbe meglio dire della sua litania. Ulakanakulot cominciava
tetrissima, un sordo suono elettronico in crescendo (a mo di
coro lugubre), percussioni a scandire gli accenti, basso funereo sotto,
synth simil-tromba sopra, insieme a uno strumento a corde in fraseggio
orientale, insomma un sinistro raga catacombale della desolazione
interiore. A due minuti e mezzo le percussioni cambiano, fa la sua
comparsa il flauto e comincia la parte cantata, dal titolo Decline
and Fall. Una mesta elegia sullamarezza dellinvecchiamento,
con la voce di Gavin Friday stentorea sulle frequenze basse ed epica
nelle liriche. «Take a dream and fly away, she will call, they will
wait for you not I, see me crawl» (prendi un sogno e vola via, lei
chiamerà / loro ti aspetteranno, non io, guardami strisciare), canta
Gavin nel ritornello e fra percussioni, flauti e corde orientaleggianti
del raga, e infine anche veri cori lugubri, un brano-capolavoro giunge
al termine. Da cardiopalma.
Segue un brano già sentito su A New Form of Beauty 2, la bellissima
Sweet Home under White Clouds, decisamente impreziosita da
un nuovo arrangiamento che risolve le spigolature e la secchezza di
quella precedente versione. Le due voci di Gavin e Guggi ora si armonizzano
meglio, con suoni addolciti, una tromba straziante ed effettistica
ad apertura spaziale. E se era un piccolo capolavoro prima
Ma
lallucinante raga oscuro torna al brano successivo, Bau-Dachöng,
aperto dalle meravigliose percussioni di Mary e da unallucinante
scala discendente di Dik. Echi, riverberi psichedelici, «of this men
shall never know, of this man shall naver understand, I close my eyes
so I cannot see» canta Gavin nel suo tono più dimesso, eppur solenne.
Il brano si snoda fra la percussione dominante, il basso di Strongman
che sostiene, leffettistica psichica e distorta, veramente mind-blowing,
e questo cantato depresso e sconsolato, che trova il suo compimento
nel verso che dà il titolo allalbum. Le allucinazioni di un
pazzo, il suo isolamento dal (la sua estraneità al) mondo, il raga
dark come nuova forma, nuova epitome del genere. Si chiude così la
prima parte dellalbum, che da sola ne più che giustifica lacquisto.
Ma i Virgin Prunes, lo sappiamo, avevano nelle loro corde molto altro
e molto di più del lungo raga funereo, che in effetti è la novità
di questalbum. Infatti dal lato B dimostrano la loro versatilità
presentando la versione in studio delle canzoni presenti sul disco
live di Hérésie e molto di più. Si comincia immediatamente
con un capolavoro assoluto, la pazzesca Baby Turns Blue, un
esagitato post-punk che narra lo spavento per limminente morte
dellamata (o dellamato?) in overdose di eroina. Batteria
dirompente in apertura, chitarre toste e compatte, melodia beffarda
a due voci, ritornello bellissimo «oh, what to do, not to feel and
who are you?», prima sussurrato e poi, dopo un breve bridge («give
me money, give me sex, give me food and cigarettes»), gridato su base
scatenata. Pausa, poi si riprende, in un crescendo irresistibile e
inarrestabile fino allesagitata fine.
Da notare: questo bellissimo
brano fu rieditato in due versioni di singoli dopo la pubblicazione
dellLp. La normale versione a 7 aveva come retro Yeo,
un minore sonico ed allucinato. Voci spastiche in apertura, effetti
effimeri, atmosfera sospesa, lo specchio inquietante di una mente
spaventata, con malinconia incipiente. Chiude una parte di piano che
ricalca lintermezzo acustico di Come to Daddy ed un vocione
spaventabambini. Per amore della complicazione, invece, la versione
a 12 si intitolava The Faculties of a Broken Heart (da
un verso del brano stesso) ed aveva re-intitolato il brano principale
in modo lunghissimo ed astruso, ovvero The Faculties of a Broken
Heart (What Should We Do if Baby Turns Blue), presentandone un
remissaggio più dance ma contemporaneamente più tosto ed incisivo.
Parti
di tastiera più lunghe e più inquietanti, parti vocali separate, chitarre
effettate ed enfatizzate. Tutto sommato, nonostante la lodevole intenzione,
il risultato è modesto. Oltre a Yeo, il lato B comprende linedita
Chance of a Lifetime, aperta da effetti rumoristici e contrassegnata
dal vocione effettato di Gavin. Voci in eco e riverbero, come fantasmi
di malati psichici, appaiono e scompaiono sul tappeto ritmico sintetico
e inquietante. Una scheggia tenebrosa per cervelli malati.
Ma
If I Die, I Die procede con uno dei suoi episodi più
sconcertanti. Una ballata AOR (cioè con struttura e arrangiamento
commerciale, radiofonico) in stile Bruce Springsteen: Ballad of
the Man. In effetti la voce demente di Dave-id Busaras canta un
testo così banale ed elementare da dare alloperazione unaria
assolutamente beffarda. Unaltra scheggia impazzita, insomma,
nel loro stile imprevedibile, ma se non si legge il testo sfugge il
senso delloperazione. La serietà torna esagitata e convulsa
nella successiva Walls of Jericho, già sentita dal vivo sul
disco precedente. Un post-punk che in effetti è cavalcata selvaggia
e gridata, benché qui in studio venga edulcorata e normalizzata. Decisamente
molto piacevole, sebbene chi scrive preferisca la convulsa versione
live.
E sempre su quel disco sentimmo
la successiva, quellaltro inno allagitazione che è Caucasian
Walk. Qui il lavoro di Newman è riuscito molto meglio, separando
correttamente le parti vocali (cioè rendendole intelligibili) senza
togliere energia al pezzo, che quindi pompa in modo irresistibile:
tagliente e sinistro, una vera danza tribale post-moderna, «like a
crazy singer in a band thats lost the words» (come il cantante
pazzo di una band che ha perso le parole). Lesagitazione esplode
nel finale, bravi alle lacrime!
Ma il disco si apre per lultimo atto, cupo e tenebroso come
la-side aveva saputo essere. Si tratta di Theme for Thought,
unaltra lunga salmodia già sentita dal vivo su Hérésie.
Dopo la lunga introduzione sinistra di chitarra, Strongman entra con
un riff di basso che caratterizzerà tutto il brano. Canta acido Gavin:
«should I talk the way you want me to talk? Say the things the way
you want to hear them?» (dovrei parlare nel modo in cui tu vuoi che
io parli, dire le cose come tu le vorresti sentire?), cori di Guggi,
tromba stridula, poi la salmodia sinterrompe ed il grido esplode,
e con esso il rumore. Il serpente si snoda sinistro, contorto, malato,
le voci si sovrappongono affannose. Un coretto beffardo raddoppia
il basso e, fra vocalizzi epici o sguaiati e fiati persi, il brano
raggiungerà rumoristicamente e confusionariamente la sua conclusione,
lasciando il coretto solo. Restano i brividi.
Signori, parliamoci chiaro.
Fino ad ora il dark, a grandi linee, era stato Unknown Pleasures,
o al limite In the Flat Field, senza per questo ignorare The
Scream o Join Hands (o Seventeen Seconds, se proprio
vogliamo dirla tutta). Da oggi diventerà anche e soprattutto
If
I Die, I Die. Disco che, sebbene avesse limato forse eccessivamente
certe spigolature caustiche
dei Virgin Prunes, con la sua tribalità istintiva, la sua tetraggine
ancestrale, la sua beffarda e danzereccia ironia, fu capolavoro mai
più eguagliato e punto di riferimento inevitabile per il genere di
là da venire.
Capolavoro e punto di riferimento tale che proietterà i Virgin Prunes
in un empireo più alto di loro. Spossati da un inverno di iperattività
frenetica, questo per loro fu troppo: le stanchezze mutarono in tensioni,
e gli ego cominciarono a confliggere, ad esplodere. Li perderemo così.
Ma il loro metodo di lavoro non va biasimato per ciò che
non riusciranno più a darci, bensì dobbiamo essere infinitamente grati
per le preziose perle che, a loro spese, hanno saputo distillare da
loro stessi. Cosa che non fu da poco.