4.20 Virgin Prunes – …If I Die, I Die

È chiaro che l’incontro Colin Newman–Virgin Prunes nascondesse più di un’insidia, nella sua intrinseca contraddittorietà. Newman era stato cantante e chitarrista di uno dei gruppi più importanti di tutta la new wave inglese, oltre che co-fondatori del dark con l’imperdibile album 154: gli Wire, freddi e intelligenti sondatori della mente, elettronici o chitarristici ma sempre molto puliti, ai limiti della freddezza, appunto. Colin stesso aveva confermato queste sue caratteristiche nel suo primo album solista, quell’A-Z che più levigato e ripulito non avrebbe potuto essere. Che contrasto con i devastatori sonici irlandesi, così sporchi, così fisici!
Ma gli Wire avevano almeno un punto di contatto con i Virgin Prunes, e questo (per nostra fortuna) è stato dimostrato dalla loro ultima opera all’epoca dei fatti, il live Document and Eyewitness: un demenziale, approssimativo, creativo e rumorosissimo disordine dal vivo. Forse fu per questo che Newman fu contattato dal management della Rough Trade: se uno era in grado di suonare in modo così confusionario e rumoroso dal vivo, e contemporaneamente di incidere dischi così levigati in studio, allora doveva essere l’uomo giusto per normalizzare quella banda di matti dei Virgin Prunes!
Da parte loro, i sei folli erano sfiancati da un inverno di superlavoro scriteriato e dalla recente tournée che aveva portato all’altro tour-de-force che fu la registrazione di Hérésie. Avevano assoluto bisogno di riposo, ma ormai i contratti erano pronti e Newman stava cominciando a spazientirsi. Va bé, erano giovani e potevano farcela. Purtroppo sappiamo tutti che le ulteriori tensioni nate dalla registrazione del disco produrranno danni irreparabili. Ma la giovane età, la loro energia inesauribile e probabilmente qualche sostanza psicotropa, oltre all’apporto professionale dell’ex-Wire, spiegano come mai, nonostante il recente superlavoro, i sei poterono ancora affrontare i Windmill Studios di Dublino con tanta grinta. Nonostante tutto, il gruppo ed il chitarrista/produttore si lasciarono male e a nessuno è dato di sapere esattamente perché...
Comunque …If I Die, I Die, quello che a furor di popolo viene considerato il capolavoro dei Virgin Prunes, fu esposto negli scaffali dei negozi di dischi alla fine di luglio 1982, quando sugli stessi scaffali campeggiava ancora, da poco più di un mese, lo sconcertante e terribile (in senso buono) Hérésie. E non solo si tratta del capolavoro del folle sestetto irlandese, ma anche di uno dei dischi fondamentali del genere dark e probabilmente di tutto il rock inglese. La copertina era chiara sin da subito nelle intenzioni: Mary d’Nellon (in nero e molto dark) e Strongman (in tenuta sado-maso) sullo sfondo, mentre in primo piano ci sono Guggi, in un’immagine sdoppiata a mo’ di contemporaneo Giano bifronte, e Gavin Friday che compie un rito arcano, una curva di fuoco. Nelle foto all’interno il discorso si fa ancora più esplicito: c’è anche Dik, irriconoscibile con barba e capelli lunghi (mentre stranamente sembra assente Dave-id Busaras) nei boschi insieme agli altri, nudi o vestiti di pelli, con bambini e compiendo gesti quotidiani, a simboleggiare un’ancestrale tribalità europea, uno stato di “buon selvaggio” oggi irrimediabilmente perduto.
La suite iniziale, Ulakanakulot / Decline and Fall, stabiliva immediatamente un nuovo standard della canzone dark, o forse sarebbe meglio dire della sua litania. Ulakanakulot cominciava tetrissima, un sordo suono elettronico in crescendo (a mo’ di coro lugubre), percussioni a scandire gli accenti, basso funereo sotto, synth simil-tromba sopra, insieme a uno strumento a corde in fraseggio orientale, insomma un sinistro raga catacombale della desolazione interiore. A due minuti e mezzo le percussioni cambiano, fa la sua comparsa il flauto e comincia la parte cantata, dal titolo Decline and Fall. Una mesta elegia sull’amarezza dell’invecchiamento, con la voce di Gavin Friday stentorea sulle frequenze basse ed epica nelle liriche. «Take a dream and fly away, she will call, they will wait for you not I, see me crawl» (prendi un sogno e vola via, lei chiamerà / loro ti aspetteranno, non io, guardami strisciare), canta Gavin nel ritornello e fra percussioni, flauti e corde orientaleggianti del raga, e infine anche veri cori lugubri, un brano-capolavoro giunge al termine. Da cardiopalma.
Segue un brano già sentito su A New Form of Beauty 2, la bellissima Sweet Home under White Clouds, decisamente impreziosita da un nuovo arrangiamento che risolve le spigolature e la secchezza di quella precedente versione. Le due voci di Gavin e Guggi ora si armonizzano meglio, con suoni addolciti, una tromba straziante ed effettistica ad apertura spaziale. E se era un piccolo capolavoro prima… Ma l’allucinante raga oscuro torna al brano successivo, Bau-Dachöng, aperto dalle meravigliose percussioni di Mary e da un’allucinante scala discendente di Dik. Echi, riverberi psichedelici, «of this men shall never know, of this man shall naver understand, I close my eyes so I cannot see» canta Gavin nel suo tono più dimesso, eppur solenne. Il brano si snoda fra la percussione dominante, il basso di Strongman che sostiene, l’effettistica psichica e distorta, veramente mind-blowing, e questo cantato depresso e sconsolato, che trova il suo compimento nel verso che dà il titolo all’album. Le allucinazioni di un pazzo, il suo isolamento dal (la sua estraneità al) mondo, il raga dark come nuova forma, nuova epitome del genere. Si chiude così la prima parte dell’album, che da sola ne più che giustifica l’acquisto.
Ma i Virgin Prunes, lo sappiamo, avevano nelle loro corde molto altro e molto di più del lungo raga funereo, che in effetti è la novità di quest’album. Infatti dal lato B dimostrano la loro versatilità presentando la versione in studio delle canzoni presenti sul disco live di Hérésie e molto di più. Si comincia immediatamente con un capolavoro assoluto, la pazzesca Baby Turns Blue, un esagitato post-punk che narra lo spavento per l’imminente morte dell’amata (o dell’amato?) in overdose di eroina. Batteria dirompente in apertura, chitarre toste e compatte, melodia beffarda a due voci, ritornello bellissimo «oh, what to do, not to feel and who are you?», prima sussurrato e poi, dopo un breve bridge («give me money, give me sex, give me food and cigarettes»), gridato su base scatenata. Pausa, poi si riprende, in un crescendo irresistibile e inarrestabile fino all’esagitata fine.
Da notare: questo bellissimo brano fu rieditato in due versioni di singoli dopo la pubblicazione dell’Lp. La normale versione a 7” aveva come retro Yeo, un minore sonico ed allucinato. Voci spastiche in apertura, effetti effimeri, atmosfera sospesa, lo specchio inquietante di una mente spaventata, con malinconia incipiente. Chiude una parte di piano che ricalca l’intermezzo acustico di Come to Daddy ed un vocione spaventabambini. Per amore della complicazione, invece, la versione a 12” si intitolava The Faculties of a Broken Heart (da un verso del brano stesso) ed aveva re-intitolato il brano principale in modo lunghissimo ed astruso, ovvero The Faculties of a Broken Heart (What Should We Do if Baby Turns Blue), presentandone un remissaggio più dance ma contemporaneamente più tosto ed incisivo. Parti di tastiera più lunghe e più inquietanti, parti vocali separate, chitarre effettate ed enfatizzate. Tutto sommato, nonostante la lodevole intenzione, il risultato è modesto. Oltre a Yeo, il lato B comprende l’inedita Chance of a Lifetime, aperta da effetti rumoristici e contrassegnata dal vocione effettato di Gavin. Voci in eco e riverbero, come fantasmi di malati psichici, appaiono e scompaiono sul tappeto ritmico sintetico e inquietante. Una scheggia tenebrosa per cervelli malati.
Ma …If I Die, I Die procede con uno dei suoi episodi più sconcertanti. Una ballata AOR (cioè con struttura e arrangiamento commerciale, radiofonico) in stile Bruce Springsteen: Ballad of the Man. In effetti la voce demente di Dave-id Busaras canta un testo così banale ed elementare da dare all’operazione un’aria assolutamente beffarda. Un’altra scheggia impazzita, insomma, nel loro stile imprevedibile, ma se non si legge il testo sfugge il senso dell’operazione. La serietà torna esagitata e convulsa nella successiva Walls of Jericho, già sentita dal vivo sul disco precedente. Un post-punk che in effetti è cavalcata selvaggia e gridata, benché qui in studio venga edulcorata e normalizzata. Decisamente molto piacevole, sebbene chi scrive preferisca la convulsa versione live.
E sempre su quel disco sentimmo la successiva, quell’altro inno all’agitazione che è Caucasian Walk. Qui il lavoro di Newman è riuscito molto meglio, separando correttamente le parti vocali (cioè rendendole intelligibili) senza togliere energia al pezzo, che quindi pompa in modo irresistibile: tagliente e sinistro, una vera danza tribale post-moderna, «like a crazy singer in a band that’s lost the words» (come il cantante pazzo di una band che ha perso le parole). L’esagitazione esplode nel finale, bravi alle lacrime!
Ma il disco si apre per l’ultimo atto, cupo e tenebroso come l’a-side aveva saputo essere. Si tratta di Theme for Thought, un’altra lunga salmodia già sentita dal vivo su Hérésie. Dopo la lunga introduzione sinistra di chitarra, Strongman entra con un riff di basso che caratterizzerà tutto il brano. Canta acido Gavin: «should I talk the way you want me to talk? Say the things the way you want to hear them?» (dovrei parlare nel modo in cui tu vuoi che io parli, dire le cose come tu le vorresti sentire?), cori di Guggi, tromba stridula, poi la salmodia s’interrompe ed il grido esplode, e con esso il rumore. Il serpente si snoda sinistro, contorto, malato, le voci si sovrappongono affannose. Un coretto beffardo raddoppia il basso e, fra vocalizzi epici o sguaiati e fiati persi, il brano raggiungerà rumoristicamente e confusionariamente la sua conclusione, lasciando il coretto solo. Restano i brividi.

Signori, parliamoci chiaro. Fino ad ora il dark, a grandi linee, era stato Unknown Pleasures, o al limite In the Flat Field, senza per questo ignorare The Scream o Join Hands (o Seventeen Seconds, se proprio vogliamo dirla tutta). Da oggi diventerà anche e soprattutto …If I Die, I Die. Disco che, sebbene avesse limato forse eccessivamente certe spigolature caustiche dei Virgin Prunes, con la sua tribalità istintiva, la sua tetraggine ancestrale, la sua beffarda e danzereccia ironia, fu capolavoro mai più eguagliato e punto di riferimento inevitabile per il genere di là da venire.
Capolavoro e punto di riferimento tale che proietterà i Virgin Prunes in un empireo più alto di loro. Spossati da un inverno di iperattività frenetica, questo per loro fu troppo: le stanchezze mutarono in tensioni, e gli ego cominciarono a confliggere, ad esplodere. Li perderemo così.
Ma il loro “metodo di lavoro” non va biasimato per ciò che non riusciranno più a darci, bensì dobbiamo essere infinitamente grati per le preziose perle che, a loro spese, hanno saputo distillare da loro stessi. Cosa che non fu da poco.