4.18 Virgin Prunes – Pagan Lovesong + Heresie

I Virgin Prunes, la next-big-thing della stagione 81-82, rivelazione assoluta di una scena dark che non finiva mai di sorprendere, gruppo di pazzi stakanovisti che passò un inverno di superlavoro tale che praticamente finì per sfiancarli, e alla lunga per distruggerli. Eppure l’intero progetto A New Form of Beauty, eccelso capolavoro di un ensemble artistico come nessun altro, fu per loro croce e delizia. Delizia perché li aveva proiettati in cima all’avanguardia artistico-musicale e performativo-teatrale, insomma multimediale, insomma sinestetica, inglese, quindi mondiale. Croce perché, nonostante gli elogi sperticati della critica più illuminata, aveva ottenuto la sospettosa indifferenza di quella più allineata, ma soprattutto un modesto risultato in termini di vendite.
E qui, come sempre in questi casi, si intromise la casa discografica, quella Rough Trade peraltro molto coraggiosa, l’unica che aveva avuto il fegato di investire su di loro in quegli anni. Ma, per quanto underground, anche un’etichetta discografica investe per produrre profitti e ora sia la musica del folle sestetto, sia la loro performance sul palco, venivano giudicate troppo violente e indigeste per poter piacere al pubblico. La soluzione parve essere ovvia: un produttore che almeno sistemasse i suoni in studio.
Fu così che a fine febbraio del 1982 l’etichetta cominciò una prova in tal senso, assegnando loro Nick Launay, giovane promessa irlandese, già distintosi in ambito new wave. Durante il mese di marzo si chiusero nei Windmill Lane Studios di Dublino ed uscirono con un singolo il mese dopo. Bhè… che dire? Sicuramente l’ottimo lavoro di Launay non ha snaturato il loro sound, cioè la voce mefistofelica e melodrammatica di Gavin Friday, quella da pazzo flippato di Guggi e quella da bambino deficiente di Dave-id Busaras, così come ha giustamente rispettato la chitarra di Dik, il basso di Strongman e la batteria di Mary d’Nellon. Anzi, la canzone principale, Pagan Lovesong, nelle due versioni normale e Vibe-akimbo, suona straordinariamente limpida e dinamica. Anzi è proprio Strongman ad attaccare con un riff immediatamente accattivante, mentre di sottofondo gemono voci lugubri (in qualche modo Launay voleva assimilare un po’ forzosamente il sestetto ai canoni del dark), poi fragorosa entra Mary, mentre Dik gratta sotto. Si tratta di un pezzo più danzereccio rispetto al loro solito, ma con imprevisti cambi di tono e di tempo, oltre che assolutamente all’interno della loro poetica (tribalismo e paganesimo), con tanto di quasi interruzione catatonica verso il finale e ripresa feroce; struttura che ricorda, in piccolo, quella di Come to Daddy.
Più serio e drammatico l’altro brano: Dave-id Is Dead parte come lungo lamento scandito da occasionali percussioni e doppiato da ululati e guaiti. Poi la ritmica si fa viva e sostiene il classico brano per malati di mente di marca Dave-id Busaras. Per quanto riguarda Pagan Song Vibe-akimbo invece, che occupava l’intera facciata A del 12”, la differenza rispetto alla “sorella minore”, oltre che nella durata, sta nell’inizio vocale angelico ed in un’atmosfera più dura ed industriale, con maggior dovizia di varianti strumentali. Più suonata e meno cantata, più storta, certamente più convincente per i “duri e puri”.
E la cosa funzionava! Nella tournée che seguì, finalmente si vedeva la coda fuori dai locali, e non solo, ma il singolo fu anche un piccolo campione di vendite, soprattutto nelle discoteche undreground e di tendenza. Finalmente i Virgin Prunes avevano sfondato, erano usciti dall’ombra! Galvanizzati da questo successo, i membri del management della Rough Trade decisero di proseguire, anzi a modo loro di radicalizzare l’esperimento e, dopo un certo lavoro, riuscirono a contattare come produttore un mito della dark-wave britannica: né più né meno che sua maestà Colin Newman degli Wire!
L’intesa fra Colin Newman e i sei pazzi fu subito ottima: anche Gavin Friday, dopo le ultime esperienze in studio, si era convinto che una produzione più accurata poteva solo favorire il loro messaggio e comunque a tutti piaceva vedere le platee piene. Inoltre Colin era giustamente considerato una sorta di guru, di profeta, di deus-ex-machina della nuova scena musicale inglese. Il gruppo si chiuse presto in studio per cominciare a lavorare sul nuovo materiale appena composto, ma la tournée non era terminata e doveva proseguire.
Fu così che nel mese di aprile i Virgin Prunes si trovarono a suonare al Rex Club di Parigi, ivi invitati da Yann Farcy, manager di un’etichetta discografica programmaticamente chiamata L’Invitation au Suicide. Il loro show fu così spietato e feroce che tutti rimasero allibiti e perplessi.
Farcy fu talmente entusiasta che, dopo averli informati di aver registrato l’evento per intero, propose loro la pubblicazione del materiale in un disco live. Fu così che fra le chiacchiere, un’idea tira l’altra, alla fine fu presa una decisione: aggiungere a quello dal vivo un disco di inediti a tema fisso. Così come A New Form of Beauty aveva parlato di infanzia deviata e malata, il nuovo progetto avrebbe parlato di malattia mentale, tornando alla tematica cara ai loro “maestri putativi”, i Van der Graaf Generator (più o meno filtrati dai PIL). Come dire: i bambini sono cresciuti ma la loro situazione non è cambiata.
Finita la tournée, il difficile fu al limite convincere il loro nuovo produttore (oltre che la casa discografica ufficiale) che il lavoro con lui era rimandato di poco, ma in fondo Newman era un professionista e poi loro erano veramente molto liberi. Successivamente i sei si rinchiusero in studio, sempre ai Windmill Lane di Dublino, a comporre e registrare, autoproducendosi a ruota libera. Il loro sistema era semplice: per capire la psiche dei malati di mente bisognava essere un po’ come loro. Cosa c’era di meglio, dunque, che comporre di giorno e registrare di notte, senza dormire per tre giorni consecutivi? Era il mese di giugno del 1982. E non è così facile parlare di ciò che uscì da quelle sessioni di registrazione…
Innanzitutto il formato. Nella norma i dischi di vinile erano o singoli, di 7 pollici di diametro e a 45 giri, oppure album, cioè di 12 pollici a 33 giri. I maxi-singoli potevano avere il formato a 12” ma andare comunque a 45 giri, molto più raro e vezzoso il formato a 10”, riservato per edizioni speciali. Bene, il nuovo disco dei Virgin Prunes, Hérésie, uscì a fine giugno in un assurdo doppio 10” a 33 giri, per l’Invitation au Suicide. Doppio perché, come programmato, un disco in studio affiancava quello dal vivo.
We Love Deirdre, l’apripista del primo disco, quello in studio, apre con un flauto inquietante d’oltretomba, che esegue un fraseggio tipico che sarà ricorrente. C’è una chitarra catatonica a sovrapporsi, fino all’ingresso delle voci di Gavin e Guggi in scambio di battute scherzoso da manicomio. Una serie di «I love you», poi vocalizzi dementi e l’improvvisa fine. Ma il flauto mefistofelico rifà la sua comparsa, prima di una percussione prima leggera e “finta”, poi feroce e martellante, con tanto di sarabanda sonica assordante di accompagnamento. Grida inarticolate si sovrappongono al frastuono e, poco a poco, prende corpo la voce di Gavin Friday, devastata dagli echi. Si tratta della ferocissima Rethoric, che conosce giusto un attimo di pausa (percussioni flauto e basso), prima della deflagrazione in mille frammenti impazziti della psiche. Percussione martellante, basso schiacciasassi, chitarra in acuto acido, mille suoni, rumori, droni sovrapposti e devastanti, fino alla seconda pausa e fino alla voce satanica, malefica, un «I crawl out of her» ripetuto, poi «mother» che diventa grido assurdo, incontrollato, metafora impazzita di una nascita bastarda. Insomma, sette ferocissimi minuti di angoscia e paranoia pure, più figli dell’industrialismo di marca Throbbing Gristle che d’altro.
La sosta è balsamo per le orecchie, ma poi… no! Ancora quel maledetto, inquietante flauto! Cosa ci aspetterà? Ed ecco ancora la capacità di stupire, sempre: una percussione spastica accompagna il nostro folle Dave-Id che introduce una canzoncina allegra e demente, Down the Memory Lane che, a quanto pare, vede uniti i tre cantanti. Un valzer allegretto per pazzi flippati, un tradizionale sing-a-long irlandese la cui allegria sinistra non fa altro che aumentare l’inquietudine, sebbene dando spazio all’anima. È incredibile sentire i tre fare a gara a chi risulta più suonato e fuori di testa, un vero rito liberatorio, con applauso finale.
Si gira il disco, usuale riff di flauto ed ecco un’altra sorpresa: Man on the Corner, un inno alla paura (più esattamente alla paranoia) cantato in solitudine da un irriconoscibile, sgraziatissimo Gavin Friday, praticamente senza accompagnamento: una sola nota di piano molto sotto. Ma un ritmo sinistro s’intromette, un piano svirgola a destra, un suono (stranamente simile al muggito di 70 Cities dei Simple Minds) disturba, fino alla frase che interrompe, «I think I’ve blown this». L’ascoltatore non fa in tempo a realizzare cos’è successo quando capisce che il riff di flauto vuole introdurre un altro pezzo, Nisam Lo, uno strumentale spettrale, con tanto di lontane grida dei fantasmi della psiche. Da far venire la depressione, fortunatamente non supera il minuto e mezzo.
Poi c’è Loved One, introdotta da mille suoni distorti che infastidiscono il cervello e brasano la psiche (i loop sono del sempre più esperto Dik), fino all’ingresso di un basso funereo quanto mai, una chitarra altalenante e un rullante a cinque colpi secchi. L’effetto è dark e claustrofobico fino all’oppressione, soprattutto con la caduta di tonalità negli abissi, che fa da variante tonale. Poi la batteria pompa sotto e la voce bassissima di Gavin fa la sua comparsa, in un sabba stregonesco che evoca i peggiori incubi di una mente abbandonata a se stessa: un omicidio efferato e inconsapevole, quasi uno scherzo. Variante di urla liberatorie e distorsioni chitarristiche, ma poi l’incubo riprende il sopravvento per un vero capolavoro sonico, il vero pezzo forte del disco. Grida bestiali stoppano.
La fine, affidata a Go ‘t’ Away Deirdre, è desolata quanto mai. Il flauto, le voci dei due matti dell’inizio che adesso non scherzano più e non parlano più d’amore, ma si accusano reciprocamente: «we play a different game», a che gioco giochiamo? Solitudine, odio, incomunicabilità.

Totalmente diverso l’altro disco che, come si è detto, riporta le fasi più salienti del concerto al Rex Club di Parigi. Al di là della registrazione non perfetta e dei molti fruscii, si tratta di un’eccellente testimonianza del livello della loro performance in quel periodo. I brani sono suonati in modo esasperato e frenetico, carico di energia sì, ma anche di inquietudine. E poi c’è l’imprecisione, l’approssimazione tipica di molti gruppi post-punk, ma qui perfettamente funzionale alla resa psicologica che si vuol dare, ovvero di celebrazione dell’estremo, del folle, del corrotto.
I brani sono quasi tutti inediti, a testimonianza di come i Virgin Prunes, prima di portare qualcosa su disco, lo collaudassero moltissimo dal vivo. Sarà curiosamente l’altro disco di Hérésie, quello in studio, a rappresentare un’eccezione a questa regola (tranne Down the Memory Lane, fu infatti composto ad hoc, ed ex novo). Una batteria esasperata e plasticosa (bravissima/o Mary) fa partire la sgangherata Caucasian Walk, una marcia dell’esasperazione selvaggia, dove Guggi e Gavin si alternano agli inni. Più tradizionale, e anche più trascinante, la successiva Walls of Jericho, un bellissimo post-punk melanconico e da ballare. Segue una versione pazzesca di Pagan Lovesong, che in effetti rivela l’importanza di un buon lavoro di studio per il gruppo, ma contemporaneamente anche la sincera immediatezza del loro approccio live (il finale è veramente catartico).
Nella b-side fa la sua comparsa un brano lungo ed oscuro, come un raga delle profondità viscerali dell’anima. Si tratta di Theme for Thought: un riff dinamico di basso accompagna le giaculatorie e le litanie di Gavin, talvolta doppiato da Guggi, interrotti da ricorrenti esplosioni soniche, dopo le quali un cantante si alterna all’altro, fino all’ultima esplosione. Ma ecco alla fine un errore ritmico, che introduce il loro capolavoro Come to Daddy in una versione che più bella, più tossica, più esasperata e più drammatica non avrebbe potuto essere. Un grumo di pathos e rumore per stomaci forti, una delle loro vette, per chi riesce a resistere…

Con Hérésie i Virgin Prunes registravano una presenza costante sul mercato discografico da almeno 10 mesi, ovvero dal primo 45 giri di A New Form of Beauty. Sei uscite, quindi (la prima parte di quel progetto, la seconda, la terza, la quarta, Pagan Lovesong e adesso Hérésie), per una media di più di una ogni due mesi. Senza contare una presenza costante sui palchi britannici ed europei, sempre all’insegna dell’esasperato, dell’estremo e dell’inquietante, con temi quali la follia, la dannazione, la corruzione dell’innocenza. Insomma, la deriva della modernità occidentale.
Una presenza che era shock per le anime belle, scossa all’indifferenza e al perbenismo, minaccia costante per l’umanità più ignara e inconsapevole, ostentazione dell’imbarazzante nudità della propria psiche torturata e insana. E non era ancora finita…