4.17 Theatre of Hate – Westworld

Si è evitato fin’ora di parlare dei Theatre of Hate, i principali “allievi” degli UK Decay, sostanzialmente per due motivi: 1) i loro esiti artistici rientrano nella categoria del trascurabile, ma soprattutto 2) i Theatre of Hate non sono un gruppo dark (secondo la definizione data nel paragrafo introduttivo). Tuttavia è ora necessario farlo, anche qui per due motivi: 1) l’album Westworld è la pietra angolare del cosiddetto “positive punk” (che a furor di popolo è una delle costole del movimento gotico), e 2) tutto sommato il disco non è neanche male. Ma anche in questo caso conviene procedere con ordine.
Il giovane Kirk Brandon era un ragazzo molto turbolento e decisamente appassionato alle vicende politiche di cui era testimone. Fortemente ideologizzato a sinistra, aveva fondato il gruppo punk dei The Pack, per poi suonare il basso, più o meno contemporaneamente, con gli appena formati Culture Club di Boy George, gruppo pop d'ambito gay destinato ad una certa fortuna commerciale. Cantante fors’anche dotato ma invero poco attento all’intonazione, e chitarrista che rasentava l’inettitudine, il giovane Brandon capiva appunto che la sua sfera ideale era quella punk, innanzitutto per l’immediatezza che permetteva all’espressione artistica, ma anche per la sottomissione dei requisiti tecnici al messaggio politico da veicolare.
Ebbe in seguito la fortuna di incontrare e/o di selezionare una delle sezioni ritmiche più formidabili dell’intera scena post-punk: il preciso bassista Stan Stammers, amico di vecchia data, ed il forsennato batterista Luke Rendle, di tutti quello più rodato, avendo suonato i tamburi né più né meno che dei Crisis! Reclutato poi un improbabile sassofonista classico come il canadese John Lennard, il quartetto, chiamatosi Theatre of Hate, si mise subito a seguire, portandole alle estreme conseguenze, le orme di certi UK Decay, ovvero quelle più infuocate nella performance e più impegnate politicamente. Tra il 1980 e il 1981 furono pubblicati tre trascurabili singoli, di cui il secondo, Rebel Without a Brain / My Own Invention, addirittura prodotto da Steve Jones, il celeberrimo chitarrista dei Clash. Ciò avvenne per un’oscura etichetta ambiguamente denominata SS Records di certo Terry Razor, che, dopo le proteste del loro pubblico di estrema sinistra, decise opportunamente di mutare il nome in Burning Rome.
In effetti l’ultimo di questi singoli non era assolutamente male: Nero, dedicato all’imperatore pazzo che bruciò Roma, comincia con percussioni assordanti. Ma al di là del fragore, il brano è veramente bello, con una voce obliqua e sofferta, un sax ficcante, un basso sempre puntuale. La variante è moderatamente arrabbiata, con voce tirata in un lunghissimo vocalizzo. Finisce in un’elegiaca ma vibrante mestizia, bravi!
Ma ciò che aveva reso i Theatre of Hate un vero e proprio mito per la Londra underground erano le loro performance live, infuocate come poche, fatte di inni contro la decadente società borghese e per la coscienza di classe del proletariato. Una di queste, registrata dal mixer da un tecnico del suono, girò per un po’ sotto forma di cassetta-bootleg e fu pubblicata ufficialmente solo nel 2000 col titolo Love Is a Ghost Live. Sarà stata la fortunosa registrazione, sarà stato il livello tecnico a dir poco mediocre dei protagonisti, ma la qualità dell’opera è quantomeno discutibile. Buono il bassista Stammers, per carità, ma la chitarra praticamente non esiste e la voce invero un po’ lamentosa e lirica (nel senso che si avventurava in acuti decisamente azzardati e incuranti dell’intonazione) di Kirk Brandon davano l’impressione di un gruppo slegato e senza impasto sonoro. Gli interventi di sax rimanevano quindi sospesi e senza una “base” musicale che li sostenesse adeguatamente, essendo quest’ultima affidata quasi esclusivamente all’efficientissimo e velocissimo batterista Luke Rendle. Insomma, sembrava un concerto per batteria furibonda, voce stonata ed assoli di sax, col basso in fondo da qualche parte (tra l’altro, essendo la registrazione avvenuta dal mixer, manca la traccia con gli applausi del pubblico).
Conscio che con un simile materiale che girava sul suo conto Kirk Brandon rischiava di farsi ridere dietro, e comunque nel tentativo di frenare la marea di bootleg illegali che nonostante tutto venivano realizzati (tutto sommato il gruppo aveva un suo pubblico), i Theatre of Hate decisero di pubblicare un live ufficiale ed adottarono come base la registrazione di una serata al Warehouse di Leeds, venuta particolarmente bene e inevitabilmente destinata a divenire l’ennesimo bootleg. Uscito alla fine del 1981, He who Dares Wins è perlomeno mixato in modo normale, ovvero la batteria non lavora da sola ma è ben miscelata con il basso, il sassofono e la voce non svettano su tutto ma anche loro sono più “dentro” l’impasto sonoro e addirittura fa la sua comparsa la timida chitarra dell’effimero (nell’economia del gruppo) Steve Guthrie. E poi c’è il pubblico, che ha sempre la sua importanza nei dischi dal vivo…
Ecco, da una parte He who Dares Wins rende finalmente un po’ di giustizia alle belle composizioni del gruppo: innanzitutto la reiterata Original Sin (il loro primo singolo), così esagitata ma al contempo così malinconica, o la maestosa e marziale Do you Believe in the Westworld? (presto un classico), oppure la più funerea Conquistador, uno dei loro pochi pezzi decisamente paragonabili al dark. Che dire infine della misteriosa e drammatica Judgement Hymn o della fragorosa ed energica The Klan? Brani forti e tosti, appassionati quasi al melodramma, che vicino a un cuore vibrante conservavano l’energia del punk e l’irruenza live dei maestri/modelli UK Decay.
Purtroppo, dall’altra parte, il disco confermava impietosamente i limiti del gruppo: voce poco curata, a tratti lagnosa e a tratti troppo audace sui vocalizzi acuti, chitarra troppo secondaria, competenza tecnica approssimativa, registrazione ancora insufficiente. Per carità, niente di male per un gruppo punk “duro e puro”, ma evidentemente il numeroso pubblico del quartetto voleva da loro qualcosa di più. Fu così che, licenziato il chitarrista Steve Guthrie e sostituitolo col più incisivo e bravo Billy Duffy, Brandon ricontattò Steve Jones e tutti si rinchiusero in studio di registrazione a vedere di fare qualcosa per compiacere a richieste sempre più insistenti.
Il botto lo fece il disco che ne uscì, sempre per la Burning Rome, nella tarda primavera del 1982: Westworld, precedentemente definito la pietra angolare del positive punk. Perché? Se il gruppo imitava gli Uk Decay, che invece sono definiti gotici, perché i Theatre of Hate non vengono (più) considerati tali? Ovvero, cosa distingue i due generi, cioè quando finisce il dark e comincia il positive punk?
In effetti gli Uk Decay erano un gruppo ambiguo per loro stessa conformazione: per essere gotici erano gotici, ma non avevano mai tagliato interamente il cordone ombelicale con il punk, soprattutto nelle serate dal vivo. Altra cosa che li legava a certo vecchio punk (quello più politicamente connotato) era, occasionalmente, un certo “positivismo” (appunto) di sinistra, ovvero la convinzione che il mondo fosse migliorabile tramite la protesta e la lotta sociale. Tuttavia questo loro aspetto appariva appunto solo di tanto in tanto (ad es. in For my Country o in Dresden), mentre più spesso il gruppo amava indugiare in drammi della psiche o in misteri orrorifici. Ecco: l’attitudine politica “eversiva” era invece totalmente privilegiata dai Theatre of Hate, che quindi si limitavano a relegare le pose più gotiche quasi esclusivamente, e in occasionali tracce, a determinate armonie e soluzioni musicali. Come se nella loro imitazione degli Uk Decay non potessero fare a meno di portarsi dietro certa superficiale zavorra sonora, probabilmente destinata a scomparire un domani.
Il gruppo era quindi destinato a rimanere sostanzialmente estraneo al fenomeno dark, sennonché… sennonché i quattro si ritrovavano ora a dover incidere un intero album in studio, cioè lontano dal loro ambiente naturale, il palco. Necessariamente la situazione impediva di puntare sulle loro doti di immediatezza ed energia performativa ed il peraltro mediocre produttore Steve Jones, un po’ per forza di cose, un po’ per mero opportunismo, decise invece che fosse il caso di enfatizzare il loro lato più torbido. Ecco quindi il segreto di Westworld, album necessariamente ambiguo eppure, anzi proprio per questo, capostipite di un nuovo genere.
Non bisogna quindi lasciarsi impressionare dal rude e deciso operaio in copertina: il disco non è (solo) un inno alla dittatura del proletariato. E lo si capisce subito dalle scanditissime percussioni di Rendle che aprono l’album in modo maestoso ed introducono all’ormai consolidato successo di Do You Believe in the Westworld?, presto anche singolo di una certa risonanza. Rendle veniva subito doppiato dal potente basso di Stammers ed anche la chitarra di Duffy, finalmente, faceva capolino. La canzone sembra così molto più marziale e, grazie ad una migliore registrazione della voce, anche molto più malinconica rispetto alla versione dal vivo, confermandone il mito. Bellissima la scala discendente di sassofono centrale, oltre al simil-assolo affidato allo strumento, ottimamente contrappuntato dalle percussioni. Finale spiazzante con rumori e voci registrate.
Il sassofono di Lennard si occupava anche dell’intro sommesso della successiva Judgement Hymn, una delle loro cariche più trascinanti, soprattutto dal punto di vista percussivo, e al contempo tristi e strazianti. La voce si librava in alto in un vero e proprio inno, paradigmatico delle (peraltro riuscite) ambiguità dell’album. Eccellente il finale, che dà sul lugubre e l’elegiaco, per esplodere nell’energico. Troppo cattedratica e piena di pose poco convincenti sembra invece la successiva 63, dove i lunghi vocalizzi di Brandon, per quanto non spericolati come dal vivo, non riescono a produrre il pathos necessario, risultando quasi retorici. Ma la vibrazione torna sinistra e balorda in Love Is a Ghost, aperta da una chitarra rarefatta e fremente ed addirittura da un piano (!). Peccato per la partitura vocale, decisamente troppo tradizionale e melodica, quasi da crooner anni 50.
Ma sotto, rarefatto, misterioso e pulsante si sente piano piano il basso di Stammers, fino all’ingresso di Rendle e del sax. Il tempo e la voce sono ancora scanditi e marziali, si tratta infatti della bella The Wake, una sorta di post-punk tra il volitivo, l’oscuro e il malinconico, dotato di un bellissimo ritornello in scala discendente. Tra un cantato e l’altro la base musicale tesse un suggestivo tappeto sonoro alle lunghe note di Lennard. Ma ancora migliore sarà il brano successivo, la già sentita (come quasi tutte, del resto) Conquistador: una scala di sax che rasenta lo struggente, su una melodia tra il balcanico e il sovietico. Sulla stessa si rifà la partitura vocale, fino ad un ritornello ancora più desolante. Un inno, insomma, ma del vuoto e dell’elegia e della sconfitta, contro ogni imperialismo, dotato di melodia immortale e basso incalzante. E rimangono le sue note ancora di sottofondo, mentre emerge una chitarra andalusa (e bravo Duffy) con tanto di percussioni-nacchere. È l’inizio di The New Trail of Tears, cioè lo smascheramento di Conquistador: la registrazione di una testimonianza, molto probabilmente di una donna sudamericana, che parla di violenza e discriminazione. Sul coro che ripete la stessa linea melodica, la voce di Brandon ripete il termine “conquistador” in un momento che, se non fosse così toccante e ipnotico, risulterebbe leggermente didascalico e retorico.
Procedendo oltre si arriva a Freaks, il tipico pezzo dei Theatre of Hate: batteria furibonda, basso post-punk, chitarra indistinguibile, sassofono a tastiera, voce spericolata sugli acuti (stavolta anche troppo, persino per una registrazione in studio). Intermezzo strumentale circense e il gioco ricomincia, fino ad una fine incasinata. Bellissimo e molto atmosferico e soft l’intro della successiva Anniversary, in effetti un pezzo decisamente strano, piuttosto anomalo nel loro repertorio: su questa base d’atmosfera con nota di chitarra reiterata, Brendon canta una melodia soffusa, quasi soul, per essere spezzato da una variante strumentale. Soltanto al terzo minuto e mezzo la ritmica aumenta e il brano sembra prendere il volo, in una lunga coda strumentale con bellissimo assolo di sax. Ma poi l’atmosfera sommessa torna, accompagnata da una sinistra risata di sottofondo. Un piccolo capolavoro atipico.
Chiude l’album The Klan, un altro loro storico cavallo di battaglia, con inizio prima molto elettronico, poi corale e solenne. Solennità che resta, accompagnata dal coro (ora fattosi più lugubre) per un paio di minuti del brano dal bellissimo testo («warmongers, prophets for war»: guerrafondai, profeti di guerra). L’intervento percussivo di Rendle al secondo minuto spezza la linea melodica, introducendone un’altra più sofferta che, ripetutamente e liricamente, tra assoli di sassofono e voci sparse, ci accompagnerà per un altro paio di minuti («who is this clan that dance, without the mask? Each of different race»: chi è questo clan che balla senza maschera? Ognuno di una razza diversa), ovvero fino a che, un po’ perentoriamente, riprenderà il suo posto la prima melodia solenne. L’alternarsi delle due melodie, insomma, sarà la cifra stilistica di un brano dolente e affascinante come pochi.

Sorprendendo un po’ tutti, il disco si piazzò al 20° posto delle classifiche ufficiali inglesi. A questo punto il successo fece il resto: concerti sempre più esagitati, Kirk Brandon sempre più nervoso. Il primo a lasciarlo fu il chitarrista Billy Duffy, che però seppe imparare moltissimo dall’esperienza: infatti praticamente ricostruì il gruppo chiamandolo Southern Death Cult, ma questa è un’altra storia! Poi, sempre più incapace di gestire i dissapori all’interno del gruppo, soprattutto dopo il fallimento delle successive prove discografiche, Brandon mandò tutti a casa, salvo poi risorgere accompagnato dal solo bassista Stammers come Spear of Destiny.
Ma intanto Westworld rimaneva, gran bel disco ed ora anche imitato. La pietra angolare di un nuovo genere, il positive-punk, tanto figlio del dark da esserne considerato parte integrante. Eppure dalla prospettiva quasi opposta: la realtà era orrenda sì, ma poteva essere migliorata, la situazione dell’uomo terribile e pietosa, certo, ma uniti si poteva vincere. Insomma il lato oscuro dell’anima umana non era oggetto di poetica a se stante, ma punto di partenza per un suo superamento secondo categorie marxiste.
Ciò era troppo. E irriducibilmente incompatibile.