Si è evitato finora
di parlare dei Theatre of Hate, i principali allievi degli
UK Decay, sostanzialmente per due motivi: 1) i loro esiti artistici
rientrano nella categoria del trascurabile, ma soprattutto 2) i Theatre
of Hate non sono un gruppo dark (secondo la definizione data nel paragrafo
introduttivo). Tuttavia è ora necessario farlo, anche qui per due
motivi: 1) lalbum Westworld è la pietra angolare del
cosiddetto positive punk (che a furor di popolo è una
delle costole del movimento gotico), e 2) tutto sommato il disco non
è neanche male. Ma anche in questo caso conviene procedere con ordine.
Il
giovane Kirk Brandon era un ragazzo molto turbolento e decisamente
appassionato alle vicende politiche di cui era testimone. Fortemente
ideologizzato a sinistra, aveva fondato il gruppo punk dei The Pack,
per poi suonare il basso, più o meno contemporaneamente, con gli appena
formati Culture Club di Boy George, gruppo pop d'ambito gay destinato
ad una certa fortuna commerciale. Cantante forsanche dotato
ma invero poco attento allintonazione, e chitarrista che rasentava
linettitudine, il giovane Brandon capiva appunto che la sua
sfera ideale era quella punk, innanzitutto per limmediatezza
che permetteva allespressione artistica, ma anche per la sottomissione
dei requisiti tecnici al messaggio politico da veicolare.
Ebbe in seguito la fortuna di incontrare e/o di selezionare una delle
sezioni ritmiche più formidabili dellintera scena post-punk:
il preciso bassista Stan Stammers, amico di vecchia data, ed il forsennato
batterista Luke Rendle, di tutti quello più rodato, avendo suonato
i tamburi né più né meno che dei Crisis! Reclutato poi un improbabile
sassofonista classico come il canadese John Lennard, il quartetto,
chiamatosi Theatre of Hate, si mise subito a seguire, portandole alle
estreme conseguenze, le orme di certi UK Decay, ovvero quelle più
infuocate nella performance e più impegnate politicamente. Tra il
1980 e il 1981 furono pubblicati tre trascurabili singoli, di cui
il secondo, Rebel Without a Brain / My Own Invention,
addirittura prodotto da Steve Jones, il celeberrimo chitarrista dei
Clash. Ciò avvenne per unoscura etichetta ambiguamente denominata
SS Records di certo Terry Razor, che, dopo le proteste del loro pubblico
di estrema sinistra, decise opportunamente di mutare il nome in Burning
Rome.
In
effetti lultimo di questi singoli non era assolutamente male:
Nero, dedicato allimperatore pazzo che bruciò Roma, comincia
con percussioni assordanti. Ma al di là del fragore, il brano è veramente
bello, con una voce obliqua e sofferta, un sax ficcante, un basso
sempre puntuale. La variante è moderatamente arrabbiata, con voce
tirata in un lunghissimo vocalizzo. Finisce in unelegiaca ma
vibrante mestizia, bravi!
Ma ciò che aveva reso i Theatre of Hate un vero e proprio mito per
la Londra underground erano le loro performance live, infuocate come
poche, fatte di inni contro la decadente società borghese e per la
coscienza di classe del proletariato. Una di queste, registrata dal
mixer da un tecnico del suono, girò per un po sotto forma di
cassetta-bootleg e fu pubblicata ufficialmente solo nel 2000 col titolo
Love Is a Ghost Live. Sarà stata la fortunosa registrazione,
sarà stato il livello tecnico a dir poco mediocre dei protagonisti,
ma la qualità dellopera è quantomeno discutibile. Buono il bassista
Stammers, per carità, ma la chitarra praticamente non esiste e la
voce invero un po lamentosa e lirica (nel senso che si avventurava
in acuti decisamente azzardati e incuranti dellintonazione)
di Kirk Brandon davano limpressione di un gruppo slegato e senza
impasto sonoro. Gli interventi di sax rimanevano quindi sospesi e
senza una base musicale che li sostenesse adeguatamente,
essendo questultima affidata quasi esclusivamente allefficientissimo
e velocissimo batterista Luke Rendle. Insomma, sembrava un concerto
per batteria furibonda, voce stonata ed assoli di sax, col basso in
fondo da qualche parte (tra laltro, essendo la registrazione
avvenuta dal mixer, manca la traccia con gli applausi del pubblico).
Conscio che con un simile materiale che girava sul suo conto Kirk
Brandon rischiava di farsi ridere dietro, e comunque nel tentativo
di frenare la marea di bootleg illegali che nonostante tutto venivano
realizzati (tutto sommato il gruppo aveva un suo pubblico), i Theatre
of Hate decisero di pubblicare un live ufficiale ed adottarono come
base la registrazione di una serata al Warehouse di Leeds, venuta
particolarmente bene e inevitabilmente destinata a divenire lennesimo
bootleg. Uscito alla fine del 1981, He
who Dares Wins è perlomeno mixato in modo normale, ovvero la batteria
non lavora da sola ma è ben miscelata con il basso, il sassofono e
la voce non svettano su tutto ma anche loro sono più dentro
limpasto sonoro e addirittura fa la sua comparsa la timida chitarra
delleffimero (nelleconomia del gruppo) Steve Guthrie.
E poi cè il pubblico, che ha sempre la sua importanza nei dischi
dal vivo
Ecco, da una parte He who Dares Wins rende finalmente un po
di giustizia alle belle composizioni del gruppo: innanzitutto la reiterata
Original Sin (il loro primo singolo), così esagitata ma al
contempo così malinconica, o la maestosa e marziale Do you Believe
in the Westworld? (presto un classico), oppure la più funerea
Conquistador, uno dei loro pochi pezzi decisamente paragonabili
al dark. Che dire infine della misteriosa e drammatica Judgement
Hymn o della fragorosa ed energica The Klan? Brani forti
e tosti, appassionati quasi al melodramma, che vicino a un cuore vibrante
conservavano lenergia del punk e lirruenza live dei maestri/modelli
UK Decay.
Purtroppo, dallaltra parte, il disco confermava impietosamente
i limiti del gruppo: voce poco curata, a tratti lagnosa e a tratti
troppo audace sui vocalizzi acuti, chitarra troppo secondaria, competenza
tecnica approssimativa, registrazione ancora insufficiente. Per carità,
niente di male per un gruppo punk duro e puro, ma evidentemente
il numeroso pubblico del quartetto voleva da loro qualcosa di più.
Fu così che, licenziato il chitarrista Steve Guthrie e sostituitolo
col più incisivo e bravo Billy Duffy, Brandon ricontattò Steve Jones
e tutti si rinchiusero in studio di registrazione a vedere di fare
qualcosa per compiacere a richieste sempre più insistenti.
Il botto lo fece il disco che ne uscì, sempre per la Burning Rome,
nella tarda primavera del 1982: Westworld, precedentemente
definito la pietra angolare del positive punk. Perché? Se il gruppo
imitava gli Uk Decay, che invece sono definiti gotici, perché i Theatre
of Hate non vengono (più) considerati tali? Ovvero, cosa distingue
i due generi, cioè quando finisce il dark e comincia il positive punk?
In effetti gli Uk Decay erano un gruppo ambiguo per loro stessa conformazione:
per essere gotici erano gotici, ma non avevano mai tagliato interamente
il cordone ombelicale con il punk, soprattutto nelle serate dal vivo.
Altra cosa che li legava a certo vecchio punk (quello più politicamente
connotato) era, occasionalmente, un certo positivismo
(appunto) di sinistra, ovvero la convinzione che il mondo fosse migliorabile
tramite la protesta e la lotta sociale. Tuttavia questo loro aspetto
appariva appunto solo di tanto in tanto (ad es. in For my Country
o in Dresden), mentre più spesso il gruppo amava indugiare
in drammi della psiche o in misteri orrorifici. Ecco: lattitudine
politica eversiva era invece totalmente privilegiata dai
Theatre of Hate, che quindi si limitavano a relegare le pose più gotiche
quasi esclusivamente, e in occasionali tracce, a determinate armonie
e soluzioni musicali. Come se nella loro imitazione degli Uk Decay
non potessero fare a meno di portarsi dietro certa superficiale zavorra
sonora, probabilmente destinata a scomparire un domani.
Il gruppo era quindi destinato a rimanere sostanzialmente estraneo
al fenomeno dark, sennonché
sennonché i quattro si ritrovavano
ora a dover incidere un intero album in studio, cioè lontano dal loro
ambiente naturale, il palco. Necessariamente la situazione impediva
di puntare sulle loro doti di immediatezza ed energia performativa
ed il peraltro mediocre produttore Steve Jones, un po per forza
di cose, un po per mero opportunismo, decise invece che fosse
il caso di enfatizzare il loro lato più torbido. Ecco quindi il segreto
di Westworld, album necessariamente ambiguo eppure, anzi proprio
per questo, capostipite di un nuovo genere.
Non bisogna quindi lasciarsi impressionare dal rude e deciso operaio
in copertina: il disco non è (solo) un inno alla dittatura del proletariato.
E lo si capisce subito dalle scanditissime percussioni di Rendle che
aprono lalbum in modo maestoso ed introducono allormai
consolidato successo di Do You Believe in the Westworld?, presto
anche singolo di una certa risonanza. Rendle veniva subito
doppiato dal potente basso di Stammers ed anche la chitarra di Duffy,
finalmente, faceva capolino. La canzone sembra così molto più marziale
e, grazie ad una migliore registrazione della voce, anche molto più
malinconica rispetto alla versione dal vivo, confermandone il mito.
Bellissima la scala discendente di sassofono centrale, oltre al simil-assolo
affidato allo strumento, ottimamente contrappuntato dalle percussioni.
Finale spiazzante con rumori e voci registrate.
Il sassofono di Lennard si occupava anche dellintro sommesso
della successiva Judgement Hymn, una delle loro cariche più
trascinanti, soprattutto dal punto di vista percussivo, e al contempo
tristi e strazianti. La voce si librava in alto in un vero e proprio
inno, paradigmatico delle (peraltro riuscite) ambiguità dellalbum.
Eccellente il finale, che dà sul lugubre e lelegiaco, per esplodere
nellenergico. Troppo cattedratica e piena di pose poco convincenti
sembra invece la successiva 63, dove i lunghi vocalizzi di
Brandon, per quanto non spericolati come dal vivo, non riescono a
produrre il pathos necessario, risultando quasi retorici. Ma la vibrazione
torna sinistra e balorda in Love Is a Ghost, aperta da una
chitarra rarefatta e fremente ed addirittura da un piano (!). Peccato
per la partitura vocale, decisamente troppo tradizionale e melodica,
quasi da crooner anni 50.
Ma sotto, rarefatto, misterioso e pulsante si sente piano piano il
basso di Stammers, fino allingresso di Rendle e del sax. Il
tempo e la voce sono ancora scanditi e marziali, si tratta infatti
della bella The Wake, una sorta di post-punk tra il volitivo,
loscuro e il malinconico, dotato di un bellissimo ritornello
in scala discendente. Tra un cantato e laltro la base musicale
tesse un suggestivo tappeto sonoro alle lunghe note di Lennard. Ma
ancora migliore sarà il brano successivo, la già sentita (come quasi
tutte, del resto) Conquistador: una scala di sax che rasenta
lo struggente, su una melodia tra il balcanico e il sovietico. Sulla
stessa si rifà la partitura vocale, fino ad un ritornello ancora più
desolante. Un inno, insomma, ma del vuoto e dellelegia e della
sconfitta, contro ogni imperialismo, dotato di melodia immortale e
basso incalzante. E rimangono le sue note ancora di sottofondo, mentre
emerge una chitarra andalusa (e bravo Duffy) con tanto di percussioni-nacchere.
È linizio di The New Trail of Tears, cioè lo smascheramento
di Conquistador: la registrazione di una testimonianza, molto
probabilmente di una donna sudamericana, che parla di violenza e discriminazione.
Sul coro che ripete la stessa linea melodica, la voce di Brandon ripete
il termine conquistador in un momento che, se non fosse
così toccante e ipnotico, risulterebbe leggermente didascalico e retorico.
Procedendo oltre si arriva a Freaks, il tipico pezzo dei Theatre
of Hate: batteria furibonda, basso post-punk, chitarra indistinguibile,
sassofono a tastiera, voce spericolata sugli acuti (stavolta anche
troppo, persino per una registrazione in studio). Intermezzo strumentale
circense e il gioco ricomincia, fino ad una fine incasinata. Bellissimo
e molto atmosferico e soft lintro della successiva Anniversary,
in effetti un pezzo decisamente strano, piuttosto anomalo nel loro
repertorio: su questa base datmosfera con nota di chitarra reiterata,
Brendon canta una melodia soffusa, quasi soul, per essere spezzato
da una variante strumentale. Soltanto al terzo minuto e mezzo la ritmica
aumenta e il brano sembra prendere il volo, in una lunga coda strumentale
con bellissimo assolo di sax. Ma poi latmosfera sommessa torna,
accompagnata da una sinistra risata di sottofondo. Un piccolo capolavoro
atipico.
Chiude lalbum The Klan,
un altro loro storico cavallo di battaglia, con inizio prima molto
elettronico, poi corale e solenne. Solennità che resta, accompagnata
dal coro (ora fattosi più lugubre) per un paio di minuti del brano
dal bellissimo testo («warmongers, prophets for war»: guerrafondai,
profeti di guerra). Lintervento percussivo di Rendle al secondo
minuto spezza la linea melodica, introducendone unaltra più
sofferta che, ripetutamente e liricamente, tra assoli di sassofono
e voci sparse, ci accompagnerà per un altro paio di minuti («who is
this clan that dance, without the mask? Each of different race»: chi
è questo clan che balla senza maschera? Ognuno di una razza diversa),
ovvero fino a che, un po perentoriamente, riprenderà il suo
posto la prima melodia solenne. Lalternarsi delle due melodie,
insomma, sarà la cifra stilistica di un brano dolente e affascinante
come pochi.
Sorprendendo un po
tutti, il disco si piazzò al 20° posto delle classifiche ufficiali
inglesi. A questo punto il successo fece il resto: concerti sempre
più esagitati, Kirk Brandon sempre più nervoso. Il primo a lasciarlo
fu il chitarrista Billy Duffy, che però seppe imparare moltissimo
dallesperienza: infatti praticamente ricostruì il gruppo chiamandolo
Southern Death Cult, ma questa è unaltra storia! Poi, sempre
più incapace di gestire i dissapori allinterno del gruppo, soprattutto
dopo il fallimento delle successive prove discografiche, Brandon mandò
tutti a casa, salvo poi risorgere accompagnato dal solo bassista Stammers
come Spear of Destiny.
Ma intanto Westworld rimaneva, gran bel disco ed ora anche
imitato. La pietra angolare di un nuovo genere, il positive-punk,
tanto figlio del dark da esserne considerato parte integrante. Eppure
dalla prospettiva quasi opposta: la realtà era orrenda sì, ma poteva
essere migliorata, la situazione delluomo terribile e pietosa,
certo, ma uniti si poteva vincere. Insomma il lato oscuro dellanima
umana non era oggetto di poetica a se stante, ma punto di partenza
per un suo superamento secondo categorie marxiste.
Ciò era troppo. E irriducibilmente incompatibile.