4.16 The Cure – Charlotte + Pornography

Talvolta vi sono casi in cui lo scrittore, biografo o saggista ch’egli sia, deve fare uno sforzo di immedesimazione nella psiche dei personaggi (o persone, peggio!) di cui tratta, e ciò nel tentativo di aiutare i lettori nello sforzo di comprensione di un fenomeno altrimenti inintelligibile. E così si farà per il Robert Smith della stagione 81-82, giovane irrequieto e perennemente insoddisfatto, nonostante gli indiscutibili successi in termini di critica e vendite dell’album Faith, arrivato ben al 14° posto delle classifiche ufficiali. Una stagione che l’aveva visto incoronato nuovo re del gotico, in quella specie di trimurti nera che taluni scherzosamente chiamarono BBC (Banshees-Bauhaus-Cure) canzonando la radiotelevisione nazionale inglese. Eppure, come un anno prima, non era ancora contento!
Perché lui alla fine era pur sempre un ragazzino (nel settembre dell’81 aveva ancora 22 anni) ed è così che fanno i ragazzini: buttano via tutto ciò che costruiscono di buono, denigrandolo e disprezzandolo. Soprattutto certi tipi sensibili, nervosi e depressi, anzi vittime dell’ostentazione di depressione. E poco importa se nel mese di giugno, durante la difficile tournée di Faith (difficile perché non è facile capire quanto, nel 1981, ai più risultassero indigesti i suoni e gli atteggiamenti depressi che oggi adoriamo), Lol Tolhurst, vecchio amico e storico batterista dei Cure, avesse saputo della morte della madre, andando in uno stato di prostrazione psicologica. Tanto peggio, tanto meglio, ci si poteva drogare di più con la scusa della depressione, tanto tutto è merda!
Dopo il funerale, la successiva tournée americana pare fosse stata la loro peggiore di sempre, proprio per colpa della droga. A questa doveva seguirne una australiana ma, ivi giunti, Smith era così sballato da non capire neanche dove fosse. Dei tre Cure, l’unico che sembrava voler ancora dar retta alla voce della ragione sembrava il bassista Simon Gallup e ciò lo portò alle prime incomprensioni con Smith. Il quale era nervosissimo e litigiosissimo in quei giorni: sempre più spesso i concerti finivano in liti con il pubblico (specie in Australia, e lo si è già detto trattando dei Birthday Party, il dark più depresso risultava sostanzialmente estraneo).
Stanchi di liti col pubblico, stanchi di depressione ostentata, stanchi di incomprensioni continue, i tre tornarono in Inghilterra e, sempre insieme a Mike Hedges (il loro storico produttore), decisero di registrare un brano dall’atmosfera decisamente diversa: Charlotte Sometimes. Un brano romantico, e qui fece capolino ancora una volta il fantasma di Ian Curtis, che dopo Unknown Pleasures registrò Love will Tear Us Apart. Sì, perché sia pur nel suo gelo psicologico (parla delle sensazioni e dei ricordi di una ragazzina morta), Charlotte Sometimes è un brano triste e sentimentale, caratterizzato dal bel fraseggio di una morbida chitarra, dagli armonici tappeti di synth e da una melodia dolcissima. Ne fu anche tratto un video, per la regia di Mike Mansfield, forse nulla di trascendentale ma comunque il loro primo video.
Certo, taluni si saranno scandalizzati a vedere i Cure entrare nel calderone del new romantic. Ma in fondo, cosa voleva dire etimologicamente “romantico”? Contrapposto a classico (cioè a razionale ed equilibrato), significava tempestoso (non a caso il primo movimento letterario del genere era denominato Sturm und Drang), passionale, viscerale. Le passioni tempestose più poeticamente interessanti dell’equilibrio razionale, insomma. E soprattutto di queste era fatto il rock gotico, normale che ci sia stata qualche indulgenza sentimentale, emotiva. Comunque il non esaltante successo commerciale del singolo, pubblicato nel mese di ottobre, contribuì a preservarne una sorta di verginità (ben diverso sarebbe stato il caso di un successone popolare) e a rendere il brano, nonostante tutto e comunque meritatamente, uno dei favoriti dai fan.
Ma soprattutto fu il retro del singolo a dare (una forse eccessiva) serietà all’operazione: Splintered in Her Head è un pezzo duro e delirante, basato su una percussione moltiplicata e martellante, su flauti d’oltretomba e su effetti distorti di chitarra e voce. Musica per psichi devastate, per angosce incipienti, per percussioni che a Dioniso preferiscono febbre e delirio. Questo brano sì che rappresentava fedelmente il loro stato interiore, infatti sarà profetico nell’anticipare la loro prossima evoluzione musicale.
Apparentemente rimessisi un po’ in sesto, i tre tornarono sul palco nel mese di novembre, con Lydia Lunch come supporter (lei si trovava in Europa grazie ai Birthday Party, ma lo si vedrà meglio in seguito), a sua volta accompagnata da una band guidata da Steven Severin, l’ormai celeberrimo bassista dei Banshees, oltre che amico di vecchia data di Robert Smith, oltre che suo iniziatore alle delizie dell’LSD. Purtroppo Severin soffriva di un odio malcelato nei confronti dei Cure perché sperava, non troppo segretamente, di riunire i suoi due amici chitarristi McGeoch (che con le droghe lo seguiva fino a un certo punto) e Robert Smith definitivamente nei Banshees. Le sue insistenze in tal senso, i suoi continui sottintesi, i suoi piccoli/grandi boicottaggi dell’armonia del gruppo, arrivarono ad esasperare ulteriormente i rapporti tra l’amico e gli altri due. Lo stesso Severin, in seguito, dichiarò di rendersi contro che quelli furono tempi di «sowing the seeds of discontent» (semina dei semi dello scontento o, all’italiana, della zizzania).
Ciò che successe dopo non è facile da ricostruire. Smith stesso fu più volte contraddittorio nel descrivere quel periodo, e ciò è fin troppo eloquente sullo stato mentale che stava vivendo. Insomma tra cronaca, aneddotica e leggenda, nel mese di dicembre i Cure si ritrovarono di nuovo in studio di registrazione, i Rhino Studios di Surrey, talvolta ancora insieme a Severin, che suggeriva linee liriche. Tuttavia i rapporti con Hedges subirono una serie di rovesci, ed alla fine fu bellamente defenestrato da Smith e sostituito alla consolle da Phil
Thornalley, produttore distintosi con gli Psychedelic Furs. Purtroppo le tensioni non svanirono, Smith aveva sempre più problemi a spiegare agli altri le sue idee, finché mandò tutti al diavolo.
Qui non si sa se sia leggenda, ma pare che, litigioso come non mai, la sera stessa si prese una bella man di botte. Delirante e depresso si rifugiò quindi in un mulino di Guildford e nel giro di un week-end scrisse di botto tutte le canzoni del nuovo album. Decise quindi di fare un ultimo tentativo con i Cure, prima di accettare la proposta di Severin di tornare definitivamente a far parte dei Banshees. Era il mese di gennaio 1982 quando, cambiata sala d’incisione con i RAK Studios di Londra, sempre accompagnato da droghe ed altro, Smith si chiuse a registrare con Tolhurst, Gallup e sempre Thornalley al mixer, lasciandosi andare ad ogni atteggiamento che definire “poco consono” sarebbe un ridicolo eufemismo: i tre passavano il giorno a dormire o drogarsi e la notte ad incidere, e poco dopo nello studio, sempre più lercio e maleodorante, si accumulò una montagna di lattine di birra. Facendo ciò sperimentavano ogni distorsione sonora e psichica: metalli grondanti, riverberi cavernosi, rumori squassanti, devastazioni psico-soniche.
Nel mese di maggio del 1982 fu finalmente pubblicato il nuovo album: Pornography, con Smith momentaneamente ricoverato per un leggero (!) esaurimento nervoso. Pornografia, cioè figuratività del nudo, la nudità di una psiche devastata. Copertina rossa, tre presenze sfocate, in primo piano una mano inquietante… Si comincia con un capolavoro, One Hundred Years, e le prime percussioni che partono danno quasi fastidio, così sintetiche, così metronomiche, degne figlie bastarde della ricerca inaugurata da Splintered in Her Head. Poi irrompe la chitarra, in uno sconcertante riff quasi lamentoso. L'atmosfera è cupa, sembra rinchiusa in una scatola nera, poi fa capolino la voce, tra il rabbioso e il rassegnato (due sentimenti solo all'apparenza antitetici) con il celebre verso raggelante «it doesn't matter if we all die» (non importa se moriremo tutti). Un'allucinazione di morte collettiva («one after the other»), uno sfogo di rabbia angosciosa, un incubo compresso, alternato dal riff di chitarra che si fa simil-assolo oscuro e gemente a ridosso della conclusione, che vede tra l'altro l'unica variazione tonale del pezzo.
L'ascoltatore è assolutamente attonito, i nervi massacrati da un simile attacco sonico-nichilista, che un’apertura sghemba di chitarra sembra annunciare un'atmosfera diversa, quasi comica o vaudeville, invece irrompe una batteria a tre colpi di rullante-fustino, fino al meraviglioso giro di basso, discendente fino alle oscure cavità dell'anima. Si tratta di A Short Term Effect che, se non ci fosse una batteria così fragorosa, sembrerebbe tratto da Faith: una melodia mesta e depressa, con strana variante solare. Il problema (se di problema trattasi, altrimenti si potrebbe dire “il bello”) è che la voce viene sottoposta a echi da incubo, accompagnata da una chitarra sotterranea e gemente e un piano astratto, per un viaggio lisergico nelle visioni più angosciose di una mente distorta, forse la testimonianza allucinata di un assassinio (i testi sono così ricchi di immagini colorite e mutevoli da essere difficilmente interpretabili).
Capolavoro fra i capolavori, la successiva The Hanging Garden (titolo incredibilmente ambiguo: “il giardino pensile” o “dell'impiccagione”) comincia con una cavalcata percussiva di Tolhurst, accompagnato percussivamente anche dal basso di Gallup. La chitarra è quasi arabeggiante ed il brano si sviluppa febbrile, ma lunare e depresso, negli anfratti oscuri della psiche. Bellissimo il verso d'apertura, «creatures kissing in the rain, shapeless in the dark again» (creature si baciano nella pioggia, ancora senza forma nell'oscurità), per un'altra visione da incubo sulla mattanza degli animali. Che dire del ritornello da brividi? «Fall fall fall fall, into the walls, jump jump out of time / fall fall fall fall out of the sky, cover my face as the animals cry» (cadi dentro ai muri, salta fuori dal tempo, cadi fuori dal cielo, coprimi la faccia quando gli animali gridano). Ne sarà addirittura tratto un singolo.
È troppo. Si spera che la prossima allenti la tensione, invece Siamese Twins è un altro tuffo nel pozzo più nero della depressione senza speranza. Uno scampanellìo iniziale, ancora una batteria a metronomo, su tempo lento di marcia, chitarra e basso insieme con ritorno della devastante malinconia che tanto ci aveva deliziato sull’album precedente. Un’unione irresistibile, da gemelli siamesi, eppur finita in rancore, un tentativo di suicidio, la lama che penetra le mani, i vermi che si nutrono delle carni. La catalessi catacombale del suicida scandita da una batteria martellante e riff da nosocomio. Batteria potentissima ma tempo più sostenuto nella successiva The Figurehead, interamente sulle spalle di Gallup che col suo basso sembra in grado di reggere l’impossibile, insieme all’arpeggio di chitarra. La voce è un lamento d’oltretomba, in una litania che è pura autocommiserazione orrorifica, con testi che evocano le peggiori visioni da incubo, da trip lisergico andato male. Il brano si snoda, pur nella stessa atmosfera dolente e oppressiva, tra minime variazioni tonali o vocali che gli danno una strana dinamica di sfumature, con tanto di grido catartico centrale («I can never say no to anyone but you», non posso dire no a nessuno tranne che a te), fino alla depressione più tetra del «I will never be clean again». Interruzione improvvisa, sempre di batteria.
Questa lascia l’attonito ascoltatore nella necessità improcrastinabile di un raggio di sole, ne va del suo equilibrio psichico. E questo arriva, ma non ancora nella musica, col successivo capolavoro A Strange Day. Inizio soffusissimo, da zero, poi chitarra in distorsione e flanger, cadenzata da una sezione ritmica in scansione quasi robotica (soprattutto sul rullante-fustino), erompono in un’introduzione acida e leggermente cacofonica. È stranamente la voce a dare un attimo di pace melodica, con i meravigliosi versi «give me your eyes, that I might see, the blind man kissing my hands» (traducibile non certamente con “dammi i tuoi occhi, che io possa vedere, [disse] il cieco baciandomi le mani”). Anche qui probabilmente si tratta della cronaca di un suicidio, ma come solo Smith sa fare quando è veramente ispirato (vedi The Funeral Party), l’evento è reso senza toni drammatici, ma in questo caso melodici, dolci, comunque stranianti. Tra una strofa e l’altra la chitarra si lancia addirittura in uno pseudo-assolo, anche questo malinconico e invitante al sogno, al volo dell’immaginazione. Da lacrime.
È chiaro che dopo una simile sequela di impressionanti capolavori, la penultima Cold suoni un po’ minore, come dire... un po’ di maniera. Innanzitutto i suoni: lungo tutto il disco si è già sentito questo effetto “scatola chiusa”, la batteria potente con questo fastidioso rullante, che sembra veramente un fustino metallico del detersivo. Anche la voce lamentosa, déjà entendu. Così il basso catacombale, sebbene ora una tastiera emerga solenne in modo più evidente, quasi solare, nel nero putrido dell’atmosfera creata. Atmosfera che sembra ereditata dai gruppi sperimentali tedeschi (Can e Faust) per la metallica pesantezza, per la soffocante cacofonia, sebbene interpretata in un nichilismo disperato e mortifero senza dubbio inedito.
Sarà l'ultima, l’omonima Pornography, ad andare oltre. Qui l’atmosfera e le “soluzioni musicali” sperimentate per Splintered in Her Head, che già avevano caratterizzato un po’ tutto il disco, trovano il loro più allucinante e definitivo compimento. Contorte ed incomprensibili registrazioni radiofoniche si fanno largo dal nulla, disturbando orecchio e psiche; sono lontane e quasi indistinguibili le quattro note di tastiera che reggono il giro di accordi (ammesso che ne esista uno). Da lontano si avvicina anche una percussione metallica che in pochi secondi, e fra effetti distorti, riempie tutto l’orizzonte sonoro. Poi riemerge la tastiera con le sue quattro note, ma questa volta funerea e minacciosa. Tra questo suono lugubre, le percussioni-martello ed altri effetti caco-sonici e allucinanti, nell’angoscia mostruosa di una psiche impazzita, furiosa ed incurabile, dopo circa 3 minuti entra una sorta di lamento vocale quasi parlato, che narra di immagini di violenza, morte, visioni da LSD e follia. Il tutto è indistinguibile e impastato, schiacciato di percussioni, spappolato in materia psichica deforme e sordida, in un’orgia spasmodica di distorsioni. Citiamo gli ultimi “versi” giusto per avere un’idea: «One more day like today and I'll kill you / A desire for flesh and real blood / I'll watch you drown in the shower / Pushing my life through your open eyes / I must fight this sickness, find a cure / I must fight this sickness» (un altro giorno come questo e ti ucciderò, un desiderio di carne e sangue vero, ti guarderò annegare nella doccia, spingendo la mia vita fra i tuoi occhi aperti, devo combattere questa malattia, trovare una cura), come se la pornografia fosse questo desiderio di morte, di omicidio liberatorio, catartico. E il brano muore agonizzando nei residui di voci radiofoniche confuse.

All’uscita dell’album tutti erano convinti fosse una schifezza inascoltabile ed invendibile; Parry, direttore della Fiction e grande protettore dei Cure, per primo. Seguì una breve tournée, il “Fourteen Explicit Moments” tour, dove riemersero tutti i problemi di droga ed incomprensione reciproca. Smith e Gallup arrivarono ad un tale livello di lite da mollare tutto e tornare a casa, salvo poi ripensarci (sembra grazie all’intercessione del padre di Robert) e portare a termine le date programmate. L’ultima serata, quella all’Ancienne Belgique di Bruxelles del giugno 1982, Smith volle uscire solo a condizione di suonare la batteria, Gallup allora prese in mano la chitarra e Tolhurst provò con il basso. Un roadie salì sul palco e cominciò, giustamente, a urlare nel microfono insulti all’indirizzo di Robert Smith. Ne nacque l’ennesima rissa, col roadie e col pubblico (Tolhurst però continuò imperterrito a suonare il basso), in un’altra bella serata finita in vacca. Alla fine Gallup non volle più avere nulla a che fare con Robert Smith e se ne andò “sbattendo la porta”. Fu la fine dei Cure. Tanto tutto è merda, no?
Tuttavia l'album, Pornography, contraddisse tutte le aspettative e si piazzò al 9° posto delle classifiche di vendita divenendo così il loro top-seller. Ma a parte questo, Pornography è anche un disco unico, dove veramente tre ragazzi sensibili ed incredibilmente ispirati furono in grado di esporre la nudità delle loro anime depresse e torturate dalle droghe, oltre che da un sociale sempre più schiacciante e claustrofobico. Con le sue distorsioni devastanti, lontanamente imparentate con la furia di gruppi come i Killing Joke o i Cabaret Voltaire, il disco divenne il più fedele specchio della situazione giovanile inglese contemporanea, per cui la vita era dolore, la convivenza tortura, la relazione violenza.
Allora l'identità si fa confusa e annebbiata, la psiche si fa dolente e impazzita, senza speranza, capace solo di gridare frustrazione, angoscia e rabbia. Rabbia impotente ed allucinata dalle droghe, l’unico placebo, l’unica magra consolazione del giovane di allora. Ma che dopo l’effimero effetto facevano riemergere la lacerazione interiore con ancora più strazio e impeto.
Insomma, senza ombra di dubbio Pornography è uno dei capolavori assoluti del genere dark.