4.15 Modern English – After the Snow (+ exit)

Nel precedente capitolo a loro dedicato s’è scritto che i Modern English, per quanto appartenenti a pieno titolo alla prima generazione dark (benché più precisamente alla sua seconda ondata), possono essere rappresentativi, esemplari, del classico gruppo della seconda generazione: al talento unirono l’imitazione, per poi sbandare verso lidi commerciali. Purtroppo questa parabola capita a molti gruppi rock, anche dotati: scopritori di strade nuove e fors'anche importanti, ma successivamente timidi nel percorrerle fino in fondo, infine incapaci di fermarsi prima della catastrofe.
I Modern English, poi, sono veramente importanti per quell’Lp-capolavoro che fu Mesh and Lace: malinconico ed esistenzialista nonostante le venature rabbiose del loro retaggio punk, preannunciò, anche nella grafica delle copertine, il prossimo indirizzo artistico della 4AD. E in effetti fu nell’esplorazione di questa strada che la voce ora aspra e ora melodica di Robbie Grey, la chitarra pungente di Gary McDowell, la batteria febbrile di Richard Brown, il basso romantico di Mick Conroy e la tastiera futurista di Steve Walker proseguirono la loro ricerca musicale. Purtroppo fu proprio quest’ultimo che, rendendosi conto dell’ammorbidimento dei suoni delle ultime composizioni, fece la significativa proposta di avvalersi alla consolle per le prossime registrazioni di Hugh Jones, celebre produttore degli Echo & the Bunnymen.
Ma il problema, come sempre, resta tutto lì: finché i Modern English erano cinque sfigati di Colchester, ignorati e derisi, dovevano ingoiare rabbia che ispirava loro canzoni belle e vibranti. Fatto il bel disco e ottenuto il riconoscimento, ecco che l’ottimismo e il sentimentalismo più bieco devastano un talento forse più figlio del disagio che veramente innato. Comunque per loro non fu subito esattamente così, per almeno un altro disco il talento riuscì a tenere. Ma purtroppo fuori dai confini del dark.
In effetti Hugh Jones non si dimostrò entusiasta di produrli, accusandoli anche di non avere nessuna buona canzone. Tuttavia la 4AD approvò ed assegnò loro uno studio di registrazione che presto divenne un mito nell’ambito dark: i Monmouth Studios di Rockfield, nel Galles. Un posto magico e molto suggestivo, che ispirò non poco i ragazzi. Il resto lo fece l’esperto ed instancabile Jones, lavorando come un forsennato sulla struttura dei brani, facendo scoprire loro nuove potenzialità degli strumenti, impreziosendo suoni e momenti psicologici, ma purtroppo togliendo ai brani buona parte dell’imprevedibile follia compositiva che spesso caratterizzava le loro partiture. Insomma, ingabbiandoli nelle rigide e riconoscibili strutture del brano pop new wave.
L’album, il secondo certuni bellissimo After the Snow, uscì nel mese di aprile del 1982. La copertina, ancora opera della 23 Envelope, ricalcava la ricerca grafica dei Virgin Prunes di A New Form of Beauty, ovvero la carta stropicciata, con aggiunta di cavalli e palloncini. E il primo brano, Someone’s Calling, è già una dichiarazione d’intenti: riff di chitarra triste e malinconico su batteria intensa, abbondantissimi synth, ritmo disco che solo i New Order potevano osare. Insomma, un brano di new wave commerciale solo un po’ più malinconico, con voci tristi e romantiche che si inseguono, tra l’altro con un tempo decisamente troppo sulla traccia degli ex Joy Division. Tuttavia rimaneva quel po’ di venatura minore che lo nobilitava, oltre all’evidentissimo miglioramento nei suoni dato dall’esperto produttore. Insomma un bellissimo brano, per iniziare.
Fortunatamente la seconda, Life in the Gladhouse cerca anche di recuperare in credibilità: batteria schiacciasassi in apertura, disturbi sonici occasionali, echi ed effetti, poi basso sotto che pompa potente. Il brano comunque mantiene un po’ quell’aria new wave esistenzialista, ma questa volta una maggior ispirazione (ed in fondo una maggiore serietà), appena temperata dal melodico «oh me, oh my» che scandisce il testo, ci permettono di annoverarlo tra le loro composizioni migliori. Voce tenebrosa, chitarra in evidenza e in riff, bel testo («An easter parade for the innocent / A fugitive’s to pray for awhile /Oh me, oh my / Oh me, oh my / My shadow weaves me / But sometimes leaves love»), strana percussione caraibica, momenti diversi che rendono ai Modern English la loro fantasia compositiva un po’ fuori dagli schemi.
Fu curiosamente anche il primo singolo tratto dall’album, quando Someone’s Calling sarebbe stata molto più adatta (ed infatti sarà anch'essa pubblicata su singolo, ma quasi un anno dopo!). Decisamente molto interessante, molto più della media dell’album, il retro di questo singolo: la lunga e tenebrosa The Choicest View. Si tratta in effetti di una lunga litania di 11’30”, su ritmo lento e cadenzato, voce di Grey depressa come ai vecchi tempi, chitarra di McDowell acida e stridente come non mai, ma sotto che non disturba, e synth di Walzer sinistro e solenne. Improvvisamente, poco dopo il quarto minuto, il ritmo subisce una brusca accelerata, per varianti strumentali eventuali e per infine ricadere, un paio di minuti dopo, nella depressione ma con una diversa melodia. Saprà poi ripartire con voce gridata e chitarra devastata, in un tripudio di suoni distorti e percussioni fantasiose, insomma un piccolo-grande capolavoro assolutamente ignorato da pubblico e critica!
Purtroppo, e qui è meglio chiarirlo subito, il resto dell’album non sarà all’altezza di questi momenti. Purtroppo, ancora, saprà solo alternare brani di new wave triste ma senza l’ispirazione di Someone’s Calling a brani più insipidi, in puro bubble gum di sintetizzatori anni ’80. Al primo gruppo appartengono la successiva Face of Wood (certamente un bel brano, con i giusti effetti sonici, un intro anche tenebroso, una chitarra acida e punk, ma purtroppo melodico e fuori dal dark), l’inizialmente depressa Dawn Chorus (contenente il celebre verso «Strange visions of balloons on white stallions» che diede spiegazione alla copertina) e l’eponima After the Snow. Del secondo gruppo fanno parte il singolo I Melt with You e l’ultima Table Turning, dai begli effetti elettronici. Soprattutto il singolo, uscito nello stesso periodo dell’Lp, è veramente imbarazzante: un ritmo dozzinale e sfacciatamente disco, cascate di sintetizzatori plasticosi, ritornello melensamente melodico, sembra veramente di sentire i New Order più ruffiani e meno ispirati. Peggio: sembra di sentire il più dozzinale gruppo di synth pop anni 80 mai esistito!
Felice eccezione alla regola fu la penultima Carry me Down, dove in un momento d’orgoglio i Modern English cercano di recuperare almeno parzialmente la seria credibilità che aveva ispirato Mesh and Lace e Life in the Gladhouse. Uno strano flauto si insinua nell’arpeggio di chitarra acustica, il brano inizia sommesso ma ritmicamente sostenuto. Il ritornello è potente, marziale, sostenuto da un Brown rullante e sempre accompagnato dal flauto: «There's something in the air, but I know it can't carry me down / You know I won't believe you, You know i won't believe in time for now». (c'è qualcosa nell'ari, ma so che non può portarmi giù / tu sai che non ti crederò, sai che non riuscirò a credere in tempo). Poi la caduta e un nuovo arpeggio, sembra di ascoltare i momenti imprevedibili e simili al progressive che fecero capolino sui primi singoli (ricordate Tranquility?), sebbene forse meno ispirati, ma certamente meglio prodotti.

L’uscita del disco, con i suoi suoni così ben prodotti e suadenti, le sue dinamiche così raffinate, entusiasmò la stampa inglese, che arrivò a sbilanciarsi con frasi del tipo: “è un miglioramento da Mesh and Lace quanto Einstein lo è dall’algebra”, chiedendosi inoltre (forse anche giustamente) perché le radio dessero tanto spazio a fenomeni deteriori quali gli ABC o, addirittura, i Duran Duran ed ignorassero opere sopraffine come questa. Certo, la stampa aveva ragione: After the Snow è certamente uno dei migliori album new wave dell’82. Il problema era piuttosto un altro, cioè che i Modern English, per quanto ne sapeva il loro pubblico, non erano un gruppo new wave, bensì dark. E, nonostante avessero ricevuto le migliori recensioni della loro carriera, fu proprio il loro pubblico a tradirli, facendo di After the Snow un fallimento commerciale.
Nei mesi che seguirono Grey, McDowell, Walker, Conroy e Brown, un po’ depressi, ripresero a vedersi e a comporre nuove cose. Ripresero anche la collaborazione con Hugh Jones, di cui erano rimasti entusiasti, ed arrivarono a incidere altre tre/quattro canzoni. Fu in quel frangente che vennero a sapere che I Melt with You era uno dei brani più programmati dalle radio degli USA. Stretti accordi con la Sire Records per curare l’edizione americana del singolo, i cinque partirono per un’interminabile tournée oltreoceano, che diede loro gloria e onori, anche sulla terribile e commercialissima Mtv. Onori tali che, da lì a breve, decisero di non fare più ritorno alla loro terra natale.
E così fecero musicalmente, scadendo in una pop-wave sempre più melensa ed insignificante. Peccato. In confronto After the Snow era un disco bello ed artisticamente rilevante, cui il tempo seppe restituire dignità ed amore, infatti oggi è giustamente considerato uno dei migliori prodotti della new wave inglese.
Sì, ma il dark? Bhè… quello è veramente un’altra storia…